giovedì, Luglio 3, 2025
SpecialitàendocrinologiaRomosozumab e fragilità ossea nelle pazienti diabetiche: nuovi orizzonti terapeutici

Romosozumab e fragilità ossea nelle pazienti diabetiche: nuovi orizzonti terapeutici

Uno studio post hoc dell’ARCH trial mostra come 12 mesi di trattamento con romosozumab, seguiti da 24 mesi di alendronato, migliorino significativamente densità minerale ossea e microarchitettura vertebrale in donne con osteoporosi e diabete di tipo 2

Nel complesso panorama dell’osteoporosi secondaria a diabete di tipo 2 (T2D), la fragilità scheletrica si manifesta in modo paradossale: pazienti con densità minerale ossea (aBMD) relativamente preservata vanno comunque incontro a un aumentato rischio di fratture. Questo fenomeno si deve principalmente a un’alterazione della microarchitettura ossea e a un ridotto turnover, condizioni che spesso sfuggono alla tradizionale valutazione densitometrica. Il Trabecular Bone Score (TBS), derivato da immagini DXA della colonna lombare, è oggi uno strumento utile per intercettare questi deficit, ma il suo impiego in pazienti diabetiche è stato a lungo limitato dall’interferenza del tessuto adiposo addominale.

Un recente studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism apre uno spiraglio promettente. L’analisi, condotta su un sottogruppo di pazienti con T2D arruolate nello studio ARCH, dimostra che l’impiego di romosozumab per 12 mesi, seguito da alendronato per altri 24, produce miglioramenti significativi non solo nella densità minerale ossea, ma anche nel TBS corretto per lo spessore del tessuto molle (TBSTT), parametro recentemente introdotto per rendere più affidabile la valutazione della microarchitettura vertebrale nelle pazienti con obesità centrale.

Romosozumab e T2D: un’alleanza da approfondire

Lo studio ha incluso 360 donne in postmenopausa con osteoporosi e diabete (quasi esclusivamente T2D), suddivise in due gruppi: 165 hanno ricevuto romosozumab per un anno, seguito da alendronato, mentre le restanti 195 hanno seguito una terapia continuativa con alendronato per 36 mesi. L’endpoint principale era la variazione percentuale di aBMD e TBSTT alla colonna lombare ai mesi 12, 24 e 36.

I risultati sono netti: già dopo 12 mesi, il gruppo romosozumab-to-alendronate ha mostrato un incremento medio del 7% in aBMD, rispetto al solo 0,1% del gruppo alendronate. Anche il TBSTT è migliorato significativamente (+2,6% al mese 12), con benefici mantenuti fino al termine dello studio (+2,6% al mese 36).

Microarchitettura ossea: un parametro indipendente

Uno degli aspetti più interessanti è l’indipendenza tra i miglioramenti in aBMD e quelli in TBSTT: le due variabili mostrano una correlazione debole (R² < 0,15), suggerendo che la microarchitettura ossea possa rispondere in modo distinto rispetto alla densità ossea. Questo dato ha implicazioni cliniche rilevanti: l’aggiunta del TBSTT alle valutazioni standard consente di cogliere più sfumature della qualità ossea, soprattutto in popolazioni complesse come quelle diabetiche.

Dallo score al rischio: impatto clinico

Oltre agli indici numerici, lo studio ha anche valutato la distribuzione delle pazienti secondo tre categorie di rischio TBSTT (normale, parzialmente degradato, degradato). Nel gruppo trattato con romosozumab, la percentuale di pazienti con TBSTT “normale” è raddoppiata (dal 23,6% al 50%) nell’arco di 36 mesi, mentre quella con TBSTT “degradato” è scesa dal 55,8% al 33,9%. Anche il gruppo alendronato-alone ha mostrato un trend migliorativo, ma in misura decisamente più contenuta.

Perché romosozumab?

Romosozumab è un anticorpo monoclonale che inibisce la sclerostina, proteina regolatrice negativa della formazione ossea. Questo meccanismo d’azione duale—stimolo osteoanabolico e inibizione del riassorbimento—lo rende particolarmente efficace nelle prime fasi del trattamento. Già in passato, lo studio ARCH aveva dimostrato la superiorità di romosozumab rispetto all’alendronato nella riduzione del rischio di fratture vertebrali, cliniche e dell’anca. Questo nuovo approfondimento conferma la sua efficacia anche in un sottogruppo ad alto rischio come le donne con T2D.

Verso una medicina più precisa

L’introduzione dell’algoritmo TBSTT rappresenta un passo avanti nella medicina di precisione per l’osteoporosi. Correggendo l’influenza del tessuto adiposo addominale, TBSTT consente una stima più accurata della microarchitettura vertebrale, cruciale nei pazienti con diabete di tipo 2. È proprio in queste pazienti, spesso escluse dalle grandi trial registrativi, che una valutazione più fine della qualità ossea può guidare scelte terapeutiche più appropriate.

Limiti e prospettive

Come sottolineano gli autori, l’analisi è post hoc e limitata a un sottogruppo (8,8%) del totale dello studio ARCH. Inoltre, mancano dati specifici sull’uso di farmaci antidiabetici, potenzialmente influenti sul metabolismo osseo. Nonostante ciò, la coerenza dei risultati con quelli già noti nella popolazione generale rende lo studio robusto e clinicamente rilevante.

In attesa di studi disegnati ad hoc sulla popolazione diabetica, romosozumab si conferma una risorsa terapeutica promettente nelle pazienti con osteoporosi e T2D, dove la fragilità ossea si cela spesso dietro parametri apparentemente normali.

Lo studio

Serge Ferrari, Donald Betah, Robert G Feldman, Bente L Langdahl, Mary Oates, Jen Timoshanko, Zhenxun Wang, Ruban Dhaliwal, Romosozumab Improves Tissue Thickness–Adjusted Trabecular Bone Score in Women With Osteoporosis and DiabetesThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2025.

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