L’osteoporosi è una malattia silenziosa, spesso rivelata solo al momento della frattura. Ma cosa accadrebbe se fosse possibile prevedere, con almeno un decennio di anticipo, chi è maggiormente a rischio? Un nuovo studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism prova a rispondere con una prospettiva innovativa: osservare l’ormone anti-Mülleriano (AMH) durante gli anni centrali della vita riproduttiva femminile per prevedere lo stato della salute ossea in menopausa.
Uno studio longitudinale unico nel suo genere
Lo studio, parte del progetto Viva dell’Harvard Medical School, ha seguito per 14 anni 450 donne parous, con un’età media di 37 anni al momento del prelievo dell’AMH e di 51 anni al momento della valutazione dello stato osseo. Le partecipanti sono state selezionate da una coorte originaria di oltre 2000 donne, inizialmente reclutate in gravidanza tra il 1999 e il 2002 nell’area di Boston.
Le concentrazioni plasmatiche di AMH sono state misurate tra il 2003 e il 2006, mentre la densità minerale ossea (BMD) e i marcatori di turnover osseo sono stati valutati tra il 2017 e il 2021. Gli esiti principali considerati sono stati la BMD della colonna vertebrale, dell’anca e del collo femorale, misurata con assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA), e i marcatori plasmatici PINP (formazione ossea) e CTX-I (riassorbimento osseo).
AMH basso = osso fragile?
Le donne con livelli di AMH <1,0 ng/mL in età riproduttiva media hanno mostrato, 14 anni dopo, valori significativamente inferiori di BMD e livelli più elevati di PINP e CTX-I rispetto a coloro con livelli di AMH >3,5 ng/mL. In particolare, la riduzione della densità ossea nella colonna vertebrale è risultata significativa (−0,06 g/cm²) anche dopo aggiustamenti per età, BMI, abitudini di vita, menarca e fumo in gravidanza.
Queste associazioni non sono solo statisticamente significative, ma mostrano un gradiente dose-risposta. Più basso è il valore dell’AMH in età fertile, maggiore è il turnover osseo e più bassa è la BMD nella mezza età. Una relazione che, pur parzialmente mediata dallo stato menopausale, suggerisce un valore predittivo indipendente dell’AMH.
AMH come sentinella dell’osso, ben prima della menopausa
Uno dei dati più interessanti riguarda la diversa correlazione tra AMH e salute ossea a seconda dello stato menopausale. Nei soggetti premenopausali, l’AMH è risultato fortemente associato ai marcatori di turnover osseo, mentre nelle donne postmenopausali la relazione era più forte con la densità ossea, in particolare a livello vertebrale.
Questo suggerisce un percorso biologico coerente: prima della menopausa, la perdita ossea è ancora reversibile e si manifesta inizialmente come aumento del turnover. Dopo la menopausa, l’accelerazione del riassorbimento si traduce in una perdita sostanziale e clinicamente rilevante di massa ossea. L’AMH, quindi, potrebbe fungere da “termometro” precoce del metabolismo osseo, molto prima che compaiano i sintomi o le fratture.
Verso una nuova strategia di screening?
L’AMH è già ampiamente utilizzato in ginecologia riproduttiva per valutare la riserva ovarica, in particolare nei percorsi di PMA. A differenza dell’FSH, è stabile durante il ciclo mestruale e mostra variazioni minime intraindividuali. Questo lo rende un candidato ideale come marcatore precoce del rischio di osteoporosi, in combinazione con altri fattori clinici e anamnestici.
Secondo gli autori dello studio, identificare le donne a rischio elevato di perdita ossea 10-15 anni prima della menopausa potrebbe consentire interventi preventivi mirati, come modifiche dello stile di vita, supplementazioni o un monitoraggio densitometrico precoce.
Limiti e prospettive future
Lo studio ha diversi punti di forza: il design prospettico, il lungo follow-up, la valutazione accurata con DXA e BTMs, e una coorte relativamente eterogenea dal punto di vista etnico e socioeconomico. Tuttavia, alcune limitazioni vanno considerate. Le partecipanti risiedevano tutte nell’area di Boston e avevano un elevato livello di istruzione, fattori che potrebbero limitare la generalizzabilità. Inoltre, la coorte include solo donne che avevano avuto almeno una gravidanza, escludendo quindi soggetti con riserva ovarica estremamente bassa.
Un’altra limitazione riguarda il fatto che BMD e BTMs sono stati misurati una sola volta, impedendo di monitorare l’andamento nel tempo. Inoltre, le partecipanti erano ancora relativamente giovani al follow-up, e l’incidenza di fratture o osteoporosi conclamata non è stata valutata.
In conclusione, lo studio pubblicato da Wang et al. apre un’interessante finestra sulla possibilità di utilizzare l’AMH, comunemente impiegato nella medicina riproduttiva, come indicatore predittivo della salute ossea futura. Se confermati da ulteriori studi, questi risultati potrebbero cambiare radicalmente l’approccio alla prevenzione dell’osteoporosi, spostando l’attenzione su una valutazione precoce durante gli anni della fertilità.
In un contesto in cui la diagnosi di osteopenia o osteoporosi arriva spesso troppo tardi, l’AMH potrebbe diventare uno strumento prezioso per proteggere le ossa delle donne… molto prima che inizino a rompersi.