Il Giappone vanta una delle aspettative di vita più alte al mondo, oltre gli 80 anni; tuttavia è necessario tenere in considerazione che superati i 70 anni la maggior parte delle persone ha bisogno di assistenza medica, e una delle malattie che condiziona maggiormente la qualità di vita delle persone anziane è l’osteoporosi e la fragilità ossea che ne consegue.
Questo studio retrospettivo è andato a valutare la densità minerale ossea (BMD) come indice per la comparazione tra l’efficacia del trattamento con denosumab e quello con romosozumab, con un aumento della BMD che sta a significare una maggior prevenzione delle fratture da fragilità ossea. 69 pazienti con osteoporosi postmenopausale sono stati trattati con denosumab (60 mg sottocutanei ogni 6 mesi) e romosozumab (210 mg sottocutanei una volta al mese) per 12 mesi, alla diagnosi presentavano una o più fratture vertebrali, del bacino o del femore e un T-score della BMD nelle suddette localizzazioni inferiore a -2.5 misurato con DXA. Inoltre ai pazienti con valori di 25OHD più bassi è stata raccomandata l’assunzione di integratori commerciali a base di vitamina D3 e calcio.
Risultati
Come esito primario è stato valutato il cambiamento rispetto alla baseline nella BMD della spina dorsale, misurandola con DXA a 6 e 12 mesi; rispettivamente è stato osservato un incremento del 6.0% ± 4.1 e del 7.2% ± 4.3 nei pazienti trattati con denosumab e un incremento del 7.4 ± 1.7 e del 12.5% ± 2.4 nel gruppo di pazienti a cui è stato somministrato romosozumab. Per quanto riguarda la BMD in particolare della zona lombare è significativamente aumentata nel gruppo romosozumab rispetto al gruppo denosumab sia a 6 che a 12 mesi.
L’esito secondario interessava il cambiamento della BMD del bacino, misurata con DXA dopo 6 e 12 mesi e paragonata al livello basale. I gruppi denosumab e romosozumab hanno mostrato rispettivamente un aumento del 2.4% e 3.4% e un aumento del 3.4% e 6.0%, similmente ai dati ottenuti nella misurazione della BDM del collo del femore. Per entrambi i trattamenti i risultati confrontati con il livello basale alla diagnosi si sono rivelati significativi, con un P value inferiore a 0.01.
Un altro fattore molto importante nella valutazione dell’osteoporosi e che è stato valutato in questo studio è la presenza dei marker di turnover osseo nel siero, in particolare P1NP e TRACP. Per quanto riguarda i livelli sierici di P1NP dei pazienti trattati con denosumab sono significativamente diminuiti già dopo 6 mesi (-63.1%) e dopo 12 mesi (-68%) se paragonai ai livelli alla diagnosi. Per quanto riguarda i pazienti trattati con romosozumab, i livelli di P1NP si sono invece alzati dopo 6 mesi (5-9%) per poi normalizzarsi nell’analisi dei 12 mesi (-5.6%). Per quanti riguarda il marker TRACP i livelli sierici si sono abbassati in entrambi i gruppi in analisi: dopo 6 e 12 mesi rispettivamente -56.0% e -60.5% rispetto ai livelli basali nei pazienti trattati con denosumab e -32.1% e -42.9% in quelli trattati con romosozumab.
Eventi avversi
Reazioni avverse nel sito di iniezione si sono verificate con maggior frequenza nella somministrazione di romosozumab, ma non sono state ritenute sufficienti per interrompere il trattamento. Due pazienti per ogni gruppo ha subito una nuova frattura vertebrale durante il trattamento, diagnosticata tramite regolare imaging con raggi X.
Conclusioni
Il presente studio ha rilevato che i tassi di aumento della BMD della colonna lombare, dell’anca totale e del collo del femore si sono rivelati significativamente più alti con romosozumab che con denosumab dopo un periodo di trattamento di 12 mesi, con pochi effetti avversi gravi per entrambi i farmaci.
Tre fattori sono coinvolti nell’aumento della BMD:
- la chiusura iniziale dello spazio di rimodellamento osseo
- il successivo aumento della mineralizzazione
- il contributo costante della formazione ossea basata sulla modellazione.
Soprattutto nel rimodellamento osseo, la transizione dei marcatori del metabolismo osseo influisce sulla dimensione della finestra anabolica a causa della differenza tra i livelli dei marcatori di formazione ossea e quelli di riassorbimento osseo. Il denosumab sopprime fortemente il riassorbimento osseo, che a sua volta inibisce anche la formazione ossea. Al contrario, romosozumab promuove la formazione ossea e sopprime il riassorbimento osseo determinando una finestra anabolica più ampia e presumibilmente un effetto maggiore sull’aumento della densità ossea. In questo studio, denosumab ha ridotto sia il marcatore di formazione ossea che quello di riassorbimento osseo, mentre il marcatore di formazione ossea non è diminuito per 12 mesi e solo il marcatore di riassorbimento osseo è diminuito per romosozumab. Di conseguenza, abbiamo confermato che si fosse creata una finestra anabolica più ampia. Nel complesso, i considerevoli effetti di romosozumab sul rimodellamento e sulla modellazione ossea sembrano più efficaci per aumentare i livelli di densità ossea rispetto a denosumab, e i risultati clinici primari e secondari dello studio confermano la teoria.
Come punto degno di nota, i bassi livelli di vitamina D nella coorte non sono circostanze uniche in Giappone; infatti è noto che approssimativamente il 90% dei pazienti giapponesi soffrono di una carenza da vitamina D come complicanza dell’osteoporosi.