La vitamina D non funziona allo stesso modo per tutti: questa constatazione, da tempo osservata nella pratica clinica, trova oggi conferma e spiegazione genetica in uno studio pubblicato nel gennaio 2025 su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Il lavoro ha coinvolto 427 soggetti anziani (età media 73 anni) di diverse etnie, trattati con 2000 UI/die di colecalciferolo per 16 settimane. L’obiettivo: individuare i polimorfismi genetici associati alla risposta biochimica alla supplementazione.
Un trial su misura
Lo studio, denominato INVITe (Individualized Response to Vitamin D Treatment), ha adottato un disegno randomizzato, controllato con placebo e stratificato per etnia. I ricercatori hanno misurato le variazioni nei livelli sierici di 25(OH)D3 (la forma di stoccaggio della vitamina), 1,25(OH)2D3 (la forma attiva) e PTH, concentrandosi sul legame tra queste risposte biochimiche e le varianti genetiche dei partecipanti.
La variabilità genetica conta
L’analisi genomica ha evidenziato almeno otto regioni del genoma associate in modo significativo alla risposta alla vitamina D3. In particolare:
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Il polimorfismo rs16867276 (regione 2q31, intergenica) è risultato associato a un aumento di +8,37 pg/mL di 1,25(OH)2D3 per allele effetto (P = 4,93E-08), con significatività genome-wide nella metanalisi transetnica.
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Il polimorfismo rs114044709, adiacente al gene FAM20A, è stato associato a un aumento del PTH (+20,32 pg/mL) nei partecipanti afroamericani.
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Polimorfismi nei geni SULT2A1 e CYP24A1, coinvolti rispettivamente nella solfatazione e nel catabolismo della vitamina D, sono stati associati alle variazioni di 1,25(OH)2D3 e PTH.
La chiave è nella via metabolica
SULT2A1 è una sulfotransferasi altamente espressa nel fegato e nell’intestino, nota per metabolizzare steroidi e acidi biliari. Studi pregressi avevano ipotizzato un suo ruolo anche nel metabolismo della vitamina D. I nuovi dati lo confermano: i soggetti portatori di una variante intronica (rs2637116) mostravano un incremento di 4,88 pg/mL di 1,25(OH)2D3 in risposta alla supplementazione.
CYP24A1, invece, codifica l’enzima responsabile della degradazione della vitamina D. Una sua variante è risultata correlata a una riduzione minore del PTH, soprattutto nei partecipanti bianchi, suggerendo un ruolo critico nella modulazione del feedback endocrino.
Non solo genetica nota
Sorprendentemente, molti dei loci identificati non erano collegati ai classici geni della via della vitamina D (come CYP2R1, CYP27B1 o VDR). Questo suggerisce l’esistenza di vie metaboliche ancora sconosciute, o di interazioni con altri assi endocrini, come quello tiroideo. È il caso del polimorfismo rs17543143, vicino al gene THRB (recettore della tiroide), associato a un aumento della risposta in 25(OH)D3. Una possibile spiegazione risiede nell’interazione tra recettori nucleari comuni, come RXR, che lega sia il recettore della vitamina D sia quello della tiroide.
Il ruolo del background etnico
Le associazioni genetiche mostravano una forte eterogeneità etnica. Alcuni polimorfismi erano significativi solo in sottogruppi specifici (ad esempio afroamericani o caucasici), confermando quanto il patrimonio genetico individuale – e non solo lo stile di vita o l’aderenza terapeutica – influenzi l’efficacia della supplementazione.
I risultati evidenziano anche i limiti dei test genomici “pan-razza”: alcune varianti erano presenti solo in specifici gruppi etnici, con frequenze alleliche differenti. Questo rafforza l’importanza di includere popolazioni etnicamente diverse negli studi clinici.
Implicazioni per la salute ossea
La vitamina D3 è un presidio fondamentale nella prevenzione e trattamento dell’osteoporosi, soprattutto postmenopausale. Tuttavia, la risposta biologica varia ampiamente tra i pazienti. Questo studio indica che la farmacogenomica potrebbe, in futuro, guidare un approccio più personalizzato alla terapia con vitamina D. Non tutti i pazienti traggono lo stesso beneficio, e una “one size fits all” potrebbe non essere più accettabile nella pratica clinica.
Cosa ci insegna lo studio MESA INVITe?
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La risposta biochimica alla vitamina D3 è fortemente eterogenea.
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Varianti genetiche non canoniche possono influenzare la sintesi e l’attività della vitamina D.
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I classici indicatori di status vitaminico (come 25(OH)D3) potrebbero non riflettere tutta la complessità della risposta individuale.
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La stratificazione etnica è fondamentale nella ricerca, ma va accompagnata da approcci più raffinati come l’analisi dei polimorfismi e dei polygenic risk score (PRS).
Conclusioni e prospettive
Lo studio MESA INVITe apre scenari promettenti nella medicina personalizzata. Se validati in coorti più ampie e con follow-up più lunghi, questi risultati potrebbero rivoluzionare la gestione dell’ipovitaminosi D e dei suoi effetti sul metabolismo osseo. L’uso clinico di test genetici predittivi, al momento ancora prematuro, potrebbe in futuro orientare dosaggi, formulazioni e target terapeutici più efficaci.
In un’epoca in cui l’integrazione è spesso autoprescritta e non monitorata, comprendere perché un paziente risponde e un altro no alla stessa dose di vitamina D3 è un passo decisivo verso una supplementazione più intelligente, basata non su linee guida generiche ma sul genoma di ciascuno di noi.