giovedì, Aprile 24, 2025
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Oltre la razza

Le differenze ossee tra gruppi etnici sono più complesse di quanto si pensasse. Nell’osteodistrofia renale, la “razza” si rivela un indicatore imperfetto ma utile per ripensare la medicina ossea di precisione. Superare categorie generiche è oggi essenziale per offrire terapie davvero personalizzate

Le differenze razziali ed etniche nella struttura scheletrica, nel rischio di frattura e nei biomarcatori dell’osteodistrofia renale sollevano interrogativi fondamentali sull’adeguatezza degli approcci terapeutici attuali. Alla luce di nuove evidenze, emerge la necessità di superare i parametri tradizionali — tra cui la stessa categoria di “razza” — per abbracciare una medicina davvero personalizzata, capace di rispondere alla complessità biologica dell’individuo.

Un paradigma da rivedere

L’osteodistrofia renale (Renal Osteodystrophy, ROD) è una complicanza centrale della malattia renale cronica (CKD), con impatti clinici importanti: fratture, deformità, disabilità. L’attuale classificazione, fondata su biopsia ossea dell’osso iliaco, distingue quadri a elevato o ridotto rimodellamento osseo, con o senza difetti di mineralizzazione. Ma nella pratica, la limitata accessibilità alla biopsia ha portato a sostituirla con biomarcatori surrogati come il paratormone (PTH) e l’alcalina fosfatasi ossea.

Tuttavia, l’eterogeneità della ROD — amplificata da marcate differenze tra individui — sta mettendo in discussione l’efficacia di questi approcci. Lo studio firmato da Marciana Laster propone un punto di svolta: le differenze razziali ed etniche osservate nella microarchitettura ossea, nel rischio di frattura e nei biomarcatori non sono solo una questione epidemiologica, ma un’occasione per ripensare l’intera strategia terapeutica. In altre parole, la razza non è (solo) una variabile da considerare, ma un sintomo della necessità urgente di una medicina di precisione.

Densità, forza, fratture: cosa dice la biologia

Nella popolazione sana, le differenze razziali sono evidenti già nei bambini: i soggetti neri mostrano un’accresciuta densità ossea vertebrale rispetto ai bianchi, con una maggiore forza ossea in adolescenza e un profilo microarchitetturale favorevole (maggiore spessore corticale e trabecolare, minore porosità). Risultati simili si osservano negli adulti, in particolare nelle donne nere post-menopausali, che presentano un rischio di frattura inferiore rispetto a donne bianche, ispaniche o asiatiche.

Nella CKD, queste differenze si confermano: in uno studio su biopsie ossee iliache, i pazienti neri con insufficienza renale avevano più frequentemente volumi ossei normali o elevati rispetto ai bianchi, nei quali predominava un basso volume osseo. In ambito pediatrico, bambini neri in dialisi presentavano uno spessore corticale superiore del 36% rispetto ai bianchi, pur a parità di età, sesso e livelli di PTH.

Anche i dati sul rischio di frattura parlano chiaro. Il CRIC Study ha rilevato che negli adulti con CKD la razza nera è un fattore protettivo per fratture vertebrali e dell’anca. Nei bambini con CKD pre-dialitica, il rischio di frattura era inferiore del 74% nei soggetti neri e del 66% in quelli ispanici rispetto ai bianchi.

Il paradosso biochimico e i suoi limiti

Sorge però un paradosso: i soggetti neri presentano livelli meno favorevoli di biomarcatori classici — minore vitamina D, PTH più alto — ma mostrano una struttura ossea più robusta e un minor rischio di frattura. Questo fenomeno, noto come “skeletal paradox”, sfida l’attuale paradigma terapeutico che si fonda su target uniformi di PTH e vitamina D per tutti i pazienti CKD, indipendentemente dalla loro biologia individuale.

In passato si è ipotizzato che tali discrepanze derivassero da livelli inferiori di proteina legante la vitamina D (VDBP) nei neri, con conseguente maggiore disponibilità biologica della vitamina. Tuttavia, recenti metodi basati su spettrometria di massa hanno smentito questa ipotesi, mostrando livelli simili di VDBP tra i gruppi etnici. Altri studi hanno evidenziato una maggiore attività dell’enzima CYP27B1 e una minore attività di CYP24A1 nei soggetti neri, con un impatto positivo sull’omeostasi del calcio e sulla produzione della forma attiva della vitamina D (1,25-diidrossivitamina D).

Superare la razza: la sfida della personalizzazione

L’insieme di queste evidenze ci obbliga a una riflessione profonda: la razza e l’etnia, pur essendo utili nel descrivere tendenze a livello di popolazione, sono strumenti troppo grossolani per guidare terapie individuali. Il futuro della cura della ROD risiede nella capacità di identificare biomarcatori predittivi dell’attività ossea e della mineralizzazione che vadano oltre le categorie etniche, riflettendo la vera complessità biologica del paziente.

Anche l’impiego del PTH, ancora centrale nelle linee guida KDIGO, dovrebbe evolversi verso un’interpretazione più dinamica: il valore ottimale di PTH potrebbe variare da individuo a individuo, e solo l’osservazione combinata con l’alcalina fosfatasi — meglio ancora se ossea specifica — può offrire una finestra utile sull’attività ossea reale. Tuttavia, anche questo marker ha dei limiti, specie in età pediatrica, dove le alterazioni della mineralizzazione sono frequenti.

La razza è un campanello d’allarme, non una risposta

La vera lezione che emerge da questi studi è che la razza, più che una variabile da inserire negli algoritmi, è un segnale della nostra ignoranza sulle vere determinanti biologiche dell’osteodistrofia renale. Il passo avanti non consiste nel trattare diversamente i pazienti neri o bianchi, ma nel comprendere cosa rende unico ciascun paziente: il suo assetto genetico, la sua biochimica ossea, il suo metabolismo della vitamina D, la sua risposta al PTH.

Una medicina della precisione, dunque, che parta dalla complessità dell’individuo e non dai confini storici delle categorie razziali.

Lo studio

Laster M. Precision Renal Osteodystrophy: What’s Race Got to do With It? Curr Osteoporos Rep. 2024 Dec 2;23(1):5. doi: 10.1007/s11914-024-00894-y. PMID: 39621165; PMCID: PMC11612005.

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