L’esame di elezione nella diagnostica di lesioni nodulari a carico del parenchima tiroideo è rappresentato dalla citologia agoaspirativa. Si tratta di un esame altamente sensibile, che però esige di essere sempre richiesto in maniera appropriata, sulla base di un sospetto ecografico concreto. Il risultato consiste in una valutazione probabilistica del rischio di malignità atteso, sulla cui base si procederà a ripetizione (l’esame soffre anche dell’eventualità di diagnosi indeterminate), semplice follow-up, o approccio chirurgico. La classificazione istologica italiana va indicativamente da TIR1 (reperto non diagnostico), passando per TIR2 (rischio atteso di malignità <3% ≡ benigno), fino a TIR5 (rischio atteso di malignità 95% ≡ maligno). La diagnosi definitiva rimane esclusivamente quella istologica.
Tra le indicazioni non oncologiche, sono contemplate forme mono o multinodulari (gozzo multinodulare tossico, tipico dell’anziano), in grado di portare a disturbi compressivi a carico delle vie aeree o dell’esofago, e come alternativa alla terapia radiometabolica (comunque la prima scelta) o farmacologica della principale forma di ipertiroidismo autoimmune, la malattia di Graves-Basedow.
Le alternative alla chirurgia sono già state in parte delineate: un approccio tipo wait and see è adottabile solo in caso di microcarcinomi e nel management dei casi locali di recidiva. Le tecniche minimamente invasive (non per questo prive di complicanze) percutanee come alcolizzazione, laser e, più recentemente, radiofrequenza hanno dimostrato efficacia nel controllo locale della massa e dei sintomi a essa correlati ma richiederanno ulteriori validazioni per poter essere contemplate definitivamente all’interno della pratica routinaria.
Per quanto riguarda le tecniche di approccio chirurgico alla tiroide, l’approccio di base è quello classico, che prevede un accesso diretto alla ghiandola a partire da un’incisione centrale a livello cervicale. Negli ultimi anni si è assistito all’introduzione della chirurgia endoscopica, che permette di accedere alla tiroide (in presenza di lesioni circoscritte) a partire da una piccola incisione sul collo, e, ultimamente, anche di quella robotica, in grado di fornire nuovi accessi extracervicali.
Complicanze in seguito a chirurgia della tiroide
Da ultime, le complicanze: vengono qui considerate due problematiche di particolare interesse, non tanto per la frequenza, quanto per la possibile gravità e la specificità con cui possono correlarsi alla procedura in esame. Più comuni sono infatti complicanze normalmente legate a qualsiasi intervento chirurgico: dolore, gonfiore, ematoma. Si tenga peraltro presente che, normalmente, il paziente viene dimesso a 1-2 giorni di distanza e può riprendere le proprie attività quotidiane nel giro di una decina.
Una complicanza temibile è quella legata al coinvolgimento dei nervi laringei. La disfonia in forma temporanea va in effetti paventata anche al paziente come complicanza comune (25–84%) dei casi. Sono contemplate metodiche come il monitoraggio intraoperatorio (IONM) volte a prevenire danni gravi e potenzialmente permanenti.
Dal punto di vista endocrinologico, è naturale che il paziente sottoposto a tiroidectomia diventi automaticamente dipendente dalla supplementazione farmacologica di ormoni tiroidei. Il coinvolgimento, obbligato o accidentale, delle ghiandole paratiroidi, magari anche a causa di alterazioni anatomiche quali ad esempio ectopie, comporta necessariamente l’instaurarsi di ipoparatiroidismo, cui segue un’ipocalcemia anche grave. Quella iatrogena risulta in effetti essere la più comune tra le forme di ipoparatiroidismo (7-36% dei casi) è, considerando le tipologie di intervento, la prima voce (38% degli episodi) consiste proprio nella tiroidectomia totale.