Gli scompensi che derivano dalla nefropatia cronica, come l’aumento nei livelli di fosforo, diminuiscono significativamente la qualità e la durata della vita dei pazienti. Le strategie per controllare l’iperfosfatemia, che includono sia emodialisi, sia trattamenti farmacologici, sia cambiamenti nello stile di vita, danno spesso scarsi risultati. La soluzione potrebbe risiedere in un approccio più integrato, che includa analisi più approfondite sulle condizioni della persona. Lo studio di Rastogi e colleghi riassume le ricerche sull’argomento per migliorare la terapia dell’iperfosfatemia, focalizzandosi anche sui livelli sierici di calcio e paratormone.
Nefropatia, iperfosfatemia e ipercalcemia
Il metabolismo del calcio e del fosforo hanno come protagonisti reni, tratto digerente e alcuni ormoni, tra cui l’ormone paratiroideo (paratormone). Il malfunzionamento renale nella nefropatia cronica porta quindi alla compromissione del metabolismo osseo (nell’osteodistrofia renale od osteodistrofia uremica, nota anche come CKD-MBD dall’inglese Cronic Kidney Disease-Mineral Bone Disorder). L’ormone paratiroideo viene prodotto in maggiori quantità come risposta adattativa, per mantenere i normali livelli di fosforo e calcio. Sul lungo termine, questo conduce all’iperparatiroidismo secondario, portando a un aumento nei livelli di fosforo nello stadio finale della nefropatia.
La terapia per l’iperfosfatemia
La terapia tradizionale per il controllo dell’iperfosfatemia prevede un iniziale intervento tramite la dieta, in cui occorre tenere in considerazione sia il contenuto totale di fosforo sia la biodisponibilità di questo minerale dell’alimento. Bisogna inoltre porre attenzione al fosforo presente negli additivi alimentari e nei farmaci, come quelli per il sistema nervoso. Al contempo, è importante badare a evitare la malnutrizione, dal momento che gli alimenti che contengono più fosforo (cereali, uova, latticini e carni) sono ricchi anche di altri nutrienti. Ad esempio, una dieta troppo povera di carni e pesce potrebbe interferire con il metabolismo del calcio.
Se la sola dieta risulta insufficiente per ridurre il problema, il medico aggiunge la dialisi al trattamento, ma questa è poco efficace. Quindi, spesso risulta necessario intervenire anche con farmaci. Le tre classi di farmaci contro l’iperfosfatemia sono chelanti del fosfato, vitamina D (attiva o analoghi) e calcimimetici.
In seguito a questa terapia, un paziente su tre non scende sotto i 5,5 mg/dL, valore superiore al massimo del range ottimale consigliato. Questo potrebbe dipendere dal fatto che i contributi della salute ossea e dei livelli di calcio e di paratormone nell’iperfosfatemia sono spesso sottovalutati, nonostante abbiano forti ripercussioni sul metabolismo del fosforo. Il nuovo approccio integrato tiene in considerazione tutti questi fattori.
Un nuovo approccio integrato all’iperfosfatemia
Le raccomandazioni KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes) del 2017 suggeriscono di:
- abbassare i livelli di fosforo al normale range (soprattutto intorno ai 4,4 mg/dL);
- evitare l’ipercalcemia;
- mantenere i livelli di paratormone tra le due e le nove volte sopra il limite massimo della normale concentrazione,
tramite un approccio in cui si considerano sia i valori di fosforo sia quelli di calcio e paratormone. Gli andamenti di questi parametri andrebbero considerati periodicamente, in particolare prima di qualsiasi variazione nel trattamento.
Nell’approccio integrato proposto da Rastogi e colleghi, le 3 D (Dieta, Dialisi e Drugs, farmaci) devono essere adottate insieme per gestire i livelli di tutti i valori di laboratorio legati alla CKD-MBD (fosforo, calcio e paratormone). Secondo gli scienziati, l’uso dei farmaci dovrebbe essere congiunto perché se usati insieme potrebbero minimizzare gli effetti avversi e ottimizzare gli esiti.
Queste indicazioni e lo studio del rapporto tra fosforo, calcio e paratormone potrebbero risultare molto importanti per la salute dei pazienti con CKD-MBD.
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