sabato, Luglio 27, 2024
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Prevenire la perdita ossea indotta dagli inibitori dell’aromatasi

Gli effetti avversi degli inibitori dell'aromatasi sul metabolismo osseo rappresentano una sfida clinica importante nel trattamento del cancro al seno. Un team di ricercatori tedeschi ha effettuato una review degli approcci clinici disponibili per provare a contrastare il problema

Gli inibitori delle aromatasi hanno un ruolo fondamentale nel trattamento adiuvante delle donne in postmenopausa con tumore al seno positivo al recettore ormonale. Tuttavia, sebbene molte delle pazienti trattate in questo modo abbiano un’eccellente prognosi a lungo termine, gli effetti avversi sul metabolismo osseo rappresentano una sfida clinica importante. Le donne trattate con inibitori dell’aromatasi risultano infatti soggette a una sostanziale riduzione della densità ossea e a fratture da fragilità. Lo studio “Challenges in preventing bone loss induced by aromatase inhibitors” offre una panoramica sugli effetti degli inibitori dell’aromatasi sulla salute delle ossa e fornisce un aggiornamento sugli approcci clinici disponibili per contrastare questa azione.

Inibitori dell’aromatasi

In condizioni fisiologiche, nelle donne in postmenopausa gli ormoni steroidei possono essere convertiti in estrogeni dall’enzima aromatasi (CYP19A1) mediante un’aromatizzazione dell’anello A dello sterano. Nel cancro al seno, un aumento locale dell’aromatizzazione di androgeni all’interno del microambiente tumorale ne favorisce la crescita. L’aromatasi è altamente espressa nel tessuto adiposo e del seno, il che comporta livelli più elevati di estrogeni residui nelle donne obese.
Per limitare l’attività enzimatica del CYP19A1 sono stati sviluppati degli inibitori dell’aromatasi (IA) in grado di sopprimere l’80-95% della sintesi di estrogeni residui nelle donne in postmenopausa, fino a ridurre gli estrogeni circolanti a livelli quasi impercettibili in vivo. Attualmente, vi sono tre IA di terza generazione approvate: anastrozolo, texemestano e letrozol.

Effetti degli inibitori dell’aromatasi sulla salute delle ossa

Anastrozolo

Sono stati pubblicati diversi studi che hanno affrontato in modo specifico gli effetti della IA sullo scheletro. Uno studio ha rilevato che, dopo cinque anni di trattamento con anastrozolo, si è verificata una perdita ossea del 6,1% nel tratto lombare della colonna vertebrale e del 7,2% all’anca. Al contrario il tamoxifene ha mostrato un effetto protettivo osseo con un aumento della densità minerale ossea (BMD) rispettivamente del 2,8% e dello 0,7%. In seguito alla cessazione della terapia con anastrozolo, è stato riportato un parziale recupero della BMD alla colonna vertebrale, ma non all’anca.

Letrozolo ed esemestrano

Uno studio di confronto tra letrozolo e tamoxifene ha riportato un tasso di fratture più elevato tra i pazienti trattati con letrozolo (9,3%). Il passaggio dal tamoxifene all’exemestane ha portato a una perdita ossea già sei mesi dopo l’inizio della terapia e questi effetti si sono prolungati fino al secondo anno. A conferma del ruolo dell’exemestane, i ricercatori riportano il fatto che dopo l’interruzione del trattamento si è osservata una reversione nella BMD e i tassi di frattura sono tornati paragonabili a quelli osservati con tamoxifene. A differenza dell’anastrozolo, l’exemestane esercita effetti blandamente androgenici che potrebbero tradursi in un profilo farmacologico più “favorevole alle ossa” sebbene vi siano poche prove cliniche a sostegno di questa ipotesi. Studi in vitro hanno dimostrato gli effetti stimolanti dell’exemestane sulle linee cellulari osteoblastiche.

Il peso delle genetica

È stato dimostrato che le differenze genetiche possono modulare l’entità della perdita ossea dovuta agli inibitori dell’aromatasi. Il polimorfismo nel gene CYP19A1, infatti, è stato associato a un aumento del rischio di perdita ossea durante la terapia con IA. Inoltre, polimorfismi del gene CYP19A1 sono stati associati a cambiamenti nella composizione corporea nelle donne trattate con inibitori dell’aromatasi. Le donne con il genotipo GG per il polimorfismo rs700518 del gene CYP19A1 hanno sperimentato una significativa diminuzione della massa magra. Tuttavia, i ricercatori auspicano studi più ampi per capire se questi risultati si traducono in anomalie metaboliche clinicamente rilevanti.

Nessuna differenza tra i diversi IA

Non sono molti gli studi che hanno confrontato gli effetti sul metabolismo osseo da parte dei diversi inibitori ma da quei pochi non sono emerse differenze significative. Uno studio di comparazione tra exemestane e anastrozolo ha rivelato una differenza significativa ma ridotta (31% contro il 35%) nel numero di eventi (nuove diagnosi di osteoporosi) riportati dalle pazienti stesse ma un’analisi dettagliata dell’osso non ha registrato altrettante differenze nelle variazioni di BMD tra i due trattamenti.
Anche uno studio che ha confrontat letrozolo con anastrozolo non ha mostrato differenze nella probabilità di sviluppare osteoporosi tra i due farmaci. Questi dati sono supportati da una recente pubblicazione dove non sono state rilevate differenze significative tra anastrozolo, exemestane e letrozolo né per quanto riguarda l’osteoporosi né per le fratture.

Bisfosfonati e denosumab

Attualmente sono disponibili diverse opzioni terapeutiche per mantenere la salute delle ossa nelle pazienti sottoposte a terapia con IA. I due principali trattamenti farmacologici prevedono l’impiego di bisfosfonati o di anticorpi monoclonali diretti contro RANKL (Receptor Activator of Nuclear factor Kappa-B Ligand) ovvero il denosumab.
I bisfosfonati comprendono una varietà di sostanze come l’acido zoledronico o l’acido ibandronico, approvate rispettivamente per il trattamento dell’osteoporosi e delle metastasi ossee.

Bisfosfonati

La serie più ampia di studi è stata eseguita sugli effetti dell’acido zoledronico per via endovenosa.
ZO-FAST, il più ampio di questi studi, ha rilevato un aumento del 5,7% nella BDM rispetto al placebo dopo 24 mesi (p<0,0001). Dopo cinque anni, la BMD della colonna vertebrale lombare era aumentata del 4,3% nel gruppo sottoposto a trattamento immediato rispetto a una perdita del -5,4% verificatasi per i pazienti con trattamento ritardato. Nello studio Z-FAST, l’uso immediato di acido zoledronico ha portato a una crescita della BMD della colonna vertebrale lombare superiore all’8,9% rispetto al gruppo ritardato di 60 mesi. Anche gli studi ZO-FAST e ABSCG-12 hanno ottenuto risultati simili.

Denosumab

In uno studio specifico, pazienti con massa ossea ridotta a seguito dell’utilizzo di IA sono state randomizzate per ricevere denosumab (60 mg sottocutaneo ogni sei mesi) o placebo. Dopo 12 e 24 mesi la BMD della colonna lombare era cresciuta rispettivamente del 5,5% e del 7,6% rispetto al placebo. Un altro studio ha confrontato l’utilizzo di denosumab contro placebo fino al raggiungimento di 247 fratture cliniche in donne in postmenopausa con cancro al seno precoce.
I ricercatori hanno registrato un numero complessivo di fratture nel gruppo denosumab pari a 92 rispetto alle 176 fratture nel gruppo placebo e il raggiungimento del valore limite è stato significativamente ritardato nel gruppo denosumab.
Recentemente, sono stati riportati i risultati in termini di sopravvivenza libera da malattia dopo un follow-up mediano di 73 mesi, significativamente migliori nel gruppo trattato con denosumab rispetto al placebo (HR 0,82, 95% CI 0,69-0,98, Cox p=0,0260).

Scelta del trattamento

Le scelta di farmaci e dosaggi avviene sulla base dell’indicazione per la quale si inizia la terapia. Le pazienti con tumore osseo metastatico da cancro al seno richiedono un trattamento ad alte dosi con acido zoledronico (4 mg al mese) o denosumab (120 mg al mese) con quest’ultimo favorito dai dati relativi alla riduzione di eventi scheletrici correlati. In pazienti con cancro al seno precoce, non metastatico, gli agenti antiriassorbenti possono essere applicati per prevenire (o ridurre) la perdita ossea indotta dal trattamento e per ridurre il rischio di sviluppare metastasi ossee.
Il rischio a lungo termine di sviluppare metastasi ossee può variare da un paziente all’altro, pertanto i medici devono prendere in considerazione anche valutazioni aggiuntive – come lo screening DTC o il profilo genetico del tumore – per definire il rischio individuale.

Una meta-analisi con oltre 18.000 pazienti ha mostrato che nelle donne in postmenopausa, i bifosfonati diminuiscono l’incidenza della metastasi ossea del 28% (p<0,0002) e la mortalità specifica del tumore al seno del 18% (p<0,002). Questi effetti erano indipendenti dal tipo di bifosfonato utilizzato e non si è avuto nessun risultato di questo tipo nelle donne in premenopausa. L’uso adiuvante di bisfosfonati in donne in postmenopausa con tumore al seno precoce è ora raccomandato dalla maggior parte delle organizzazioni europee e nordamericane. Nella maggior parte dei casi si raccomanda l’uso di acido zoledronico a una dose di 4 mg due volte l’anno.
I dato sull’uso di denosumab come coadiuvante per prevenire la recidiva ossea sono invece meno chiari.

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