giovedì, Novembre 7, 2024
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Tecniche di ingegneria tissutale per la rigenerazione ossea

Al fine di favorire la riparazione di tessuti e organi danneggiati, possono essere utilizzate diverse tecniche di ingegneria tissutale. Un excursus sulle ultime tecnologie

Le patologie muscolo-scheletriche hanno un importante impatto sulla salute delle persone e possono portare al danneggiamento di componenti del sistema scheletrico umano con conseguente perdita di funzionalità e riduzione della qualità della vita. Al fine di favorire la riparazione di tessuti e organi danneggiati, possono essere utilizzate diverse tecniche di ingegneria tissutale.

Metodi di generazione degli scaffold

Per favorire la rigenerazione ossea, la tecnica che viene usata più di frequente è quella che utilizza scaffold biocompatibili. Questi innesti sono delle strutture tridimensionali che possono essere prodotte utilizzando diversi metodi, come l’elettrospinning, che sfrutta forze elettrostatiche per produrre fibre polimeriche che si arrotolano dando luogo alla struttura desiderata.

Il problema principale legato a questo e altri metodi cosiddetti convenzionali è che essi danno origine a un’architettura randomica delle fibre, mentre spesso si vorrebbe riprodurre l’impronta degli organi in maniera geometricamente precisa. Per questo motivo vengono spesso preferite le tecniche di bioprinting, che permettono di stampare, tramite bioinchiostri, delle cellule viventi in grado di ricreare le strutture dei tessuti di interesse.

I metodi più utilizzati sono:

  • Bioprinting a estrusione (EBB). È l’approccio più utilizzato e consente di creare reti 3D tramite l’erogazione di bioinchiostri anche molto viscosi utilizzando dei microiniettori. Questo sistema permette anche di erogare più bioinchiostri simultaneamente, sfruttando un sistema multiplo di testine di stampa. Lo svantaggio principale è che le cellule depositate con questa tecnica vivono meno, in quanto possono essere danneggiate dal maggiore sforzo di taglio.
  • Bioprinting a getto d’inchiostro (IIB). Il processo consiste nel rilascio di piccole goccioline di bioinchiostro da ugelli che non entrano in contatto col tessuto stampato e può essere effettuato e regolato attraverso una modulazione termica o piezoelettrica. Questa tecnica ha il vantaggio di ridurre le possibilità di contaminazione del tessuto, proprio perché gli ugelli non toccano il substrato. Per evitare l’intasamento delle testine di stampa, possono essere utilizzati solo bioinchiostri a bassa viscosità, il che comporta una ridotta vitalità del tessuto.
  • Bioprinting laser-assistito (LAB). La tecnica si basa sul trasferimento di cellule da una cartuccia sorgente a un substrato, senza utilizzare un ugello, ma sfruttando l’energia di un laser pulsato che fa evaporare i materiali biologici trasformandoli in goccioline. In questo modo si possono utilizzare dei bioinchiostri altamente viscosi anche con un’elevata densità cellulare, perché non ci si scontra con il problema dell’intasamento cellulare nel sistema di rilascio. Questa tecnica garantisce un’elevata risoluzione, che permette di ricostruire in maniera accurata i difetti ossei di dimensione critica, ma produce molto calore, il che può risultare nella morte delle cellule.

Indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzata, lo scaffold deve avere dei requisiti fondamentali. Esso deve essere:

  • biocompatibile, quindi non deve interferire negativamente con i processi biologici dell’organismo;
  • biodegradabile, in modo che il tessuto abbia tempo di rigenerarsi senza formarsi attorno allo scaffold;
  • poroso, per garantire la proliferazione cellulare, il trasporto di gas e nutrienti e per raggiungere la capillarizzazione in vivo.

Queste caratteristiche permettono di ottenere la normale rigenerazione del tessuto osseo, che porta alla corretta guarigione delle fratture e all’adattamento dello scheletro all’uso meccanico. È quindi fondamentale riuscire a mantenere l’equilibrio tra il riassorbimento e la formazione ossea, dovute rispettivamente a osteoclasti e osteoblasti, controllando l’apporto di sangue.

L’utilizzo degli scaffold favorisce la riparazione dell’osso danneggiato da un punto di vista strutturale, ma la maggior parte dei biomateriali disponibili spesso non permette una sufficiente vascolarizzazione dei tessuti.

Tecnologia on-chip

Un’altra tecnica che viene spesso utilizzata nel mondo dell’ingegneria tissutale è quella basata sul design on-chip.

I modelli organ-on-a-chip (OOC) sono dei sistemi tridimensionali disegnati e costruiti per imitare in vitro un aspetto della fisiologia umana. Essi sfruttano la tecnologia microfluidica, ovvero lo studio e la manipolazione di piccolissime quantità di fluidi presenti in canali costruiti su chip di pochi centimetri quadrati o meno. Su questi compartimenti vengono seminate diverse tipologie di cellule, che interagiscono tra loro attraverso i piccoli canali, controllati separatamente dall’esterno a partire dai pozzetti del chip. Rispetto agli approcci convenzionali questi metodi consentono di osservare istante per istante il sistema e di ottenere in vitro delle strutture più complesse della fisiologia umana.

Il vantaggio principale di questa nuova tecnologia, infatti, è proprio quello di poter studiare una certa patologia e ricercare un relativo trattamento senza sfruttare modelli animali. Disponendo di una struttura in vitro, che non richiede periodi di wash out o problematiche etiche legate alla sperimentazione, si riesce ad accelerare notevolmente il processo di scoperta di farmaci modificanti le malattie.

Ad esempio, questa tecnologia è stata largamente utilizzata per studiare la patologia dell’artrite. I ricercatori Ma et al., nel 2018 hanno progettato un chip per seguire la migrazione dei sinoviociti, cellule responsabili dell’erosione ossea tipica della malattia. Sfruttando il sistema, hanno testato diversi composti chimici per ridurre i sintomi di infiammazione e l’attività dei sinoviociti e hanno identificato nel celastrolo la migliore terapia.

Un altro esempio di applicazione della tecnologia on-chip riguarda l’esperimento condotto da Occhetta et al., che nel 2019 hanno sviluppato un chip per studiare gli effetti che l’artrite ha sulla cartilagine e per valutare l’efficacia di diversi farmaci al fine di ridurre il deterioramento cartilagineo.

L’obiettivo finale è quello di arrivare a costruire un body-on-chip collegando tra loro diversi OOC in modo da valutare il comportamento e l’effetto farmacocinetico del sistema interconnesso.

Negli ultimi anni la scienza ha fatto enormi passi avanti nello sviluppo di tecniche di ingegneria tissutale. Esse sono varie e in continuo aggiornamento e cercano di catturare sempre meglio le caratteristiche fisiologiche di interesse.

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