giovedì, Settembre 4, 2025
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Aspetti endocrini delle malattie neuromuscolari

L’approccio diagnostico e terapeutico alle malattie neuromuscolari chiede al clinico di valutare diverse condizioni di malattie che vanno oltre il quadro neuromuscolare specifico che ha portato il paziente all’osservazione del neurologo. Tra gli aspetti extraneurologici sono particolarmente frequenti le alterazioni endocrino-metaboliche, che sono in alcuni casi determinate dalle alterazioni genetiche che causano la malattia neuromuscolare come nelle distrofie miotoniche tipo 1 e tipo 2, in cui frequente e spesso precoce è la comparsa di infertilità e ipogonadismo. Inoltre gli studi più recenti dimostrano che il muscolo è caratterizzato da una funzione endocrina, mediata dal rilascio di miokine, la cui integrità è fondamentale per l’omeostasi di altri metabolismi, come quello osseo e quello glucidico. In questa presentazione si illustrano le acquisizioni più recenti relative a tali aspetti nelle più comuni patologie neuromuscolari.



Ipoparatiroidismo: dalla diagnosi alla terapia

L’ipoparatiroidismo cronico è una condizione caratterizzata da una ridotta o assente secrezione di paratormone, con conseguente ipocalcemia e sintomi ad essa correlati. La terapia si basa sull’assunzione di calcio e forma attiva della vitamina D e, in un prossimo. Futuro, del paratormone umano ricombinante che rappresenta l’ultima terapia sostitutiva delle insufficienze ghiandolari endocrine, in Italia ancora mancante.

Presentiamo una completa disamina della patologia dall’epidemiologia, alla distinzione tra la forma primaria e quella secondaria, per arrivare alla corretta diagnosi. La presentazione di casi clinici aiuta a comprendere come il goal sia quello di mantenere il paziente asintomatico nel tempo con l’impostazione della corretta terapia.


Osso e muscolo: effetti dell’ipovitaminosi D

Approccio multidisciplinare alla gestione del paziente osteoporotico sarcopenico


Quando il fegato pesa sulle ossa

Quando si pensa al fegato, vengono in mente funzioni come la digestione, la detossificazione e la produzione di bile. Ma in pochi sanno che il fegato gioca anche un ruolo importante nella salute delle ossa. Alcune malattie epatiche croniche possono, infatti, portare a osteoporosi o osteopenia, aumentando il rischio di fratture.

Le malattie epatiche che colpiscono lo scheletro

Le condizioni epatiche che più frequentemente influenzano la densità ossea sono:

  • Cirrosi epatica, indipendentemente dalla causa (alcolica, virale, autoimmune)
  • Colestasi cronica, come nella colangite biliare primitiva o nella colangite sclerosante
  • Epatite cronica (soprattutto autoimmune o B/C cronica)
  • Trapianto di fegato, a causa di terapie immunosoppressive

Il rischio maggiore è legato all’infiammazione cronica, all’alterato metabolismo della vitamina D e del calcio e all’effetto di alcuni farmaci sul tessuto osseo.

L’osteoporosi epatica

Con il termine “osteoporosi epatica” si indica la riduzione della massa ossea nei pazienti con epatopatie croniche. Questa condizione può essere silente per anni, fino alla comparsa improvvisa di fratture, soprattutto a livello vertebrale o femorale.

Diagnosi e controlli

Per chi soffre di malattie epatiche croniche, è consigliabile sottoporsi periodicamente a una densitometria ossea (MOC-DEXA) per monitorare la salute dello scheletro. Il medico può anche richiedere esami ematochimici per valutare i livelli di vitamina D, calcio, fosfato e PTH (paratormone).

Strategie di prevenzione

La buona notizia è che si può fare molto per proteggere le ossa, anche in presenza di una malattia epatica:

  • Adeguato apporto di calcio e vitamina D, attraverso dieta e integrazione
  • Attività fisica regolare, compatibilmente con le condizioni cliniche
  • Evitar fumo e alcol, che aggravano sia il danno epatico che la fragilità ossea
  • Uso prudente dei corticosteroidi, quando indicati
  • Trattamento specifico per l’osteoporosi, in caso di diagnosi accertata

Un approccio integrato

In presenza di una patologia epatica cronica, è fondamentale una gestione multidisciplinare che includa epatologi, reumatologi o endocrinologi e, se necessario, specialisti in metabolismo osseo. L’obiettivo è proteggere non solo il fegato, ma anche lo scheletro.

CRPS-1 e neridronato, lo studio che cambia la prospettiva a lungo termine

CONTENUTO RISERVATO AGLI OPERATORI SANITARI

Il Complex Regional Pain Syndrome di tipo 1 (CRPS-1), noto anche come algodistrofia, è una delle patologie dolorose e invalidanti più difficili da trattare. Uno studio osservazionale condotto presso l’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano e pubblicato nel 2024 ha valutato gli esiti a lungo termine di pazienti trattati con infusioni endovenose di neridronato.

Dopo un follow-up medio di quattro anni, oltre tre quarti dei pazienti hanno recuperato completamente la funzione dell’arto colpito, con remissione dei criteri diagnostici della malattia. I risultati rafforzano l’evidenza sul ruolo del neridronato come terapia di riferimento, sottolineando l’importanza decisiva di un trattamento tempestivo.

L’analisi completa con i dati e le implicazioni per la pratica clinica è disponibile nell’area riservata ai medici.

ACCEDI ALL’AREA RISERVATA PER LEGGERE L’APPROFONDIMENTO

Osteopenia: il momento giusto per prevenire l’osteoporosi

La riduzione della massa ossea è un processo fisiologico associato all’invecchiamento. Dopo il raggiungimento del picco di massa ossea, che si verifica tra i 25 e i 30 anni, si osserva un progressivo declino, generalmente considerato parte del normale processo di senescenza. Tale fenomeno assume particolare rilevanza nelle donne in menopausa, che si presenta in media intorno ai 51 anni, quando la perdita ossea subisce un’accelerazione, a causa del calo di livelli estrogenici (1). Tuttavia, la riduzione della densità minerale ossea (BMD) ha inizio già negli anni precedenti, con un tasso medio annuo compreso tra lo 0,5% e l’1% (2).

Le attuali strategie di prevenzione delle fratture si concentrano principalmente sui soggetti ad alto rischio come gli anziani, pazienti con fratture pregresse o con valori di BMD compatibili con osteoporosi (T-score ≤ -2,5). Questo approccio, tuttavia, limita fortemente l’impatto della prevenzione: soltanto il 20% delle fratture avviene in soggetti osteoporotici, mentre circa l’80% si verifica in individui con osteopenia (T-score tra -1,0 e -2,5) (1). Inoltre, con l’invecchiamento della popolazione, l’osteopenia rappresenta una condizione sempre più diffusa: dopo i 60 anni, oltre il 60% delle donne e degli uomini presenta una BMD tra -1 e -2,5, ma inizia a essere già presente nella fascia tra i 45-50 anni, prima del calo estrogenico menopausale, con una prevalenza superiore al 20% (1).

L’osteopenia ha dunque un impatto rilevante, sia in termini epidemiologici sia clinici. Intervenire precocemente in questa fase potrebbe rappresentare una strategia fondamentale per ridurre l’incidenza di fratture da fragilità, come recentemente dimostrato dallo studio pubblicato su NEJM da Bolland et al. (2). Generalmente la soglia di intervento viene stabilita in base al rischio di frattura a 10 anni: ad esempio in un paziente di 50 anni con osteopenia (T score -1), questo rischio risulta basso; tuttavia, il rischio di frattura stimato nel corso della vita può raggiungere il 40%, secondo modelli predittivi epidemiologici. Questi dati suggeriscono che le soglie di intervento non dovrebbero basarsi esclusivamente sul T-score, ma integrarsi con una valutazione del rischio globale (1).

In questa direzione si muove anche la nuova raccomandazione della US Preventive Services Task Force, che oltre a confermare l’importanza dello screening per l’osteoporosi nelle donne ≥65 anni, raccomanda per “beneficio moderato” lo screening nelle donne in menopausa <65 anni in presenza di almeno un fattore di rischio (fumo, alcol, basso BMI, familiarità) (3).

Attualmente, i criteri di accesso alla densitometria ossea in Italia includono le donne in menopausa con almeno tre dei seguenti fattori di rischio minori: età > 65 anni, familiarità per osteoporosi severa, periodi >6 mesi di amenorrea premenopausale, inadeguato apporto di calcio, carenza di vitamina D, fumo, abuso di alcol. Un approccio che limita l’accesso all’esame a una porzione ristretta della popolazione.

In questo contesto, il monitoraggio e la correzione dei livelli di vitamina D può rappresentare una strategia accessibile e di facile implementazione per intercettare precocemente lo squilibrio del metabolismo osseo.

Valori inferiori a 30 ng/mL compromettono l’attivazione del recettore nucleare della vitamina D, inibendo l’espressione di geni chiave come quello dell’osteocalcina (coinvolta nella mineralizzazione ossea) e quelli deputati al trasporto intestinale del calcio. Ne consegue una carenza di calcio nel circolo sistemico, che l’organismo compensa mobilizzando il minerale dallo scheletro, sua principale riserva. I livelli sierici di vitamina D, pertanto, rappresentano un marker specchio della salute ossea, un segnale precoce di un’alterazione dell’equilibrio osseo (4).

Oggi l’osteopenia è considerata una finestra terapeutica strategica per la prevenzione delle fratture, rappresentando un punto di svolta clinico: il rischio di una seconda frattura, soprattutto vertebrale o femorale, aumenta in modo significativo (5). Tuttavia, l’osteopenia si colloca in un’area grigia: non è ancora universalmente considerata una condizione che giustifichi interventi farmacologici standardizzati, ma è sufficientemente rilevante da richiedere un’attenzione clinica.

Le raccomandazioni delle società scientifiche prevedono interventi sullo stile di vita e l’integrazione di vitamina D (800–2000 UI/die) e calcio (800–1200 mg/die) (6). Inoltre, la ricerca sta mettendo in luce il potenziale osteoprotettivo di diverse molecole naturali. Tra queste, il D-chiro-inositolo, ha mostrato in studi recenti di interferire con il meccanismo di maturazione degli osteoclasti, mediato dalla cascata di segnalazione RANK–RANKL, contribuendo così al mantenimento della massa ossea (7).

Riconoscere precocemente l’osteopenia e intervenire in modo mirato può fare la differenza nel preservare la salute ossea, prevenendo l’evoluzione verso l’osteoporosi e riducendo il rischio di fratture da fragilità (1). A questa riflessione si lega l’inno omerico di Eos e Titone, che racconta come la dea dell’aurora ottiene l’immortalità per il suo amato, dimenticando però di chiedere anche l’eterna giovinezza. Titone invecchia all’infinito, fino a ridursi a una voce, incapace di muoversi. Nel contesto della salute ossea, questa immagine evoca il rischio di una vita priva di qualità, in cui la perdita di forza, mobilità e autonomia possono trasformare la longevità in una condanna anziché in un dono.

 “Eos e Titone” (XVIII sec.) di Francesco de Mura (1698-1784), Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

Referenze

  1. Reid IR & McClung MR. Osteopenia: a key target for fracture prevention. Lancet Diabetes Endocrinol. 2024 Nov;12(11):856-864.
  2. Bolland MJ et al. Fracture Prevention with Infrequent Zoledronate in Women 50 to 60 Years of Age. N Engl J Med. 2025 Jan 16;392(3):239-248.
  3. US Preventive Services Task Force. Screening for Osteoporosis to Prevent Fractures: US Preventive Services Task Force Recommendation Statement. 2025;333(6):498–508.
  4. Giustina A et al. Consensus Statement on Vitamin D Status Assessment and Supplementation: Whys, Whens, and Hows. Endocr Rev. 2024 Sep 12;45(5):625-654.
  5. Bliuc D et al. Risk of subsequent fractures and mortality in elderly women and men with fragility fractures with and without osteoporotic bone density: the Dubbo Osteoporosis Epidemiology Study. J Bone Miner Res. 2015 Apr;30(4):637-46.
  6. Rossini M et al. Linee guida per la diagnosi, la prevenzione ed il trattamento dell’osteoporosi. Reumatismo, 2016; 68 (1): 1-42.
  7. Cipriani F et al. Inositols and Bone Health: Potential Therapeutic Applications in Osteoporosis Prevention and Treatment. Nutrients 2025, 17, 1999.

 

Articolo realizzato con il contributo non condizionante di LO.LI. pharma:

Ipogonadismo e sviluppo puberale nella Sindrome di Alström

La Sindrome di Alström (AS) è una malattia autosomica recessiva rara, causata da mutazioni nel gene ALMS1, con un’incidenza stimata di 1 caso per milione. Nota per le sue manifestazioni multisistemiche – dalla cecità precoce all’obesità infantile, dalla cardiomiopatia dilatativa alla steatosi epatica – la AS include anche una costellazione di disfunzioni endocrine. Tra queste, l’ipogonadismo rappresenta una delle complicanze meno caratterizzate, soprattutto nei suoi aspetti longitudinali. Un recente studio osservazionale condotto tra il Regno Unito e l’Italia ha cercato di colmare questa lacuna, fornendo una mappatura dettagliata dello sviluppo puberale e della funzione gonadica nei maschi affetti da AS.

Lo studio: coorte, metodi e strumenti

La ricerca ha coinvolto 69 pazienti maschi (28 pediatrici, 41 adulti) seguiti nei due principali centri di riferimento per la AS in Europa: il Queen Elizabeth Hospital di Birmingham e il Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova. L’età media dei pazienti pediatrici era 14,8 anni, mentre quella degli adulti era 34 anni. Sono stati raccolti dati clinici, auxologici e ormonali, accompagnati da indagini ecografiche e – in quattro casi – esami post mortem. Parallelamente, è stato utilizzato un modello murino knock-out (Alms1 S701X) per approfondire i meccanismi alla base dell’ipogonadismo.

Pubertà: un inizio nei tempi, una fine interrotta

Contrariamente a quanto riportato da alcuni studi precedenti, tutti i pazienti pediatrici hanno mostrato un esordio puberale compatibile con le attese cronologiche. Tuttavia, la progressione si arresta sistematicamente attorno al Tanner stage 4, senza mai raggiungere il completamento puberale. Questo quadro è confermato sia da parametri fisici (volume testicolare massimo 9 ± 3 mL) che biochimici (incremento anomalo di LH e FSH già durante l’adolescenza). In particolare, si osserva una tendenza precoce all’ipergonadotropinemia, potenziale indice di disfunzione testicolare incipiente.

Un altro dato rilevante riguarda la crescita staturale: lo studio documenta una precoce perdita dello z-score di altezza durante la pubertà, con un picco di velocità di crescita (PHV) anticipato (media 11,8 anni vs 14 anni nei controlli sani) e significativamente inferiore (5,5 cm/anno contro 9,5 cm/anno). Questo dato suggerisce un impatto combinato del deficit gonadico e di altre disfunzioni endocrine, come deficit di GH o ipotiroidismo, entrambi già noti nella AS.

Ipogonadismo adulto: quasi un destino ineluttabile

Nel campione adulto, il 95% dei soggetti presenta ipogonadismo, nella quasi totalità dei casi di tipo primario. Solo il 22% era in trattamento sostitutivo con testosterone al momento della valutazione. L’ecografia testicolare ha rivelato volumi estremamente ridotti (1,7 mL in media) o testicoli assenti, dato confermato anche nei riscontri autoptici. È significativo notare che nessuno dei 41 adulti con AS aveva avuto figli.

Il contributo del modello murino

I topi Alms1 S701X/S701X hanno mostrato un fenotipo simile: testicoli atrofici, conta spermatica ridotta (29 milioni/mL vs 110 milioni nei controlli) e motilità significativamente compromessa. Tuttavia, l’analisi istologica ha escluso la presenza di fibrosi testicolare, contrariamente a quanto ipotizzato in altri modelli murini (es. foz/foz), suggerendo che la disfunzione testicolare nella AS non sia legata a meccanismi fibrotici primari, ma piuttosto a un’alterazione precoce dello sviluppo gonadico.

Il ruolo del gene ALMS1 nello sviluppo testicolare

I dati suggeriscono che ALMS1, fortemente espresso nelle cellule di Leydig umane, possa avere un ruolo chiave nella differenziazione e maturazione testicolare. La presenza di testicoli ipoplastici, micopenis e criptorchidismo in diversi soggetti rafforza questa ipotesi. In letteratura, espressioni elevate del gene sono state correlate anche allo sviluppo testicolare nel cavallo, suggerendo un ruolo evolutivamente conservato.

Un nuovo standard di sorveglianza clinica

Alla luce di questi dati, è auspicabile che il follow-up endocrinologico dei maschi con AS includa una valutazione sistematica della funzione gonadica già in età prepuberale, con monitoraggio di LH, FSH e testosterone, ma anche di marker come inibina B e AMH, che in questo studio non sono stati analizzati. Inoltre, il mancato trattamento sostitutivo nella maggior parte dei pazienti adulti suggerisce una sottostima clinica dell’ipogonadismo e delle sue implicazioni, che vanno ben oltre la fertilità, coinvolgendo densità minerale ossea, rischio cardiovascolare e qualità di vita.

Conclusioni

Lo studio offre una descrizione senza precedenti dello sviluppo puberale e della funzione gonadica nei maschi con Sindrome di Alström. Se da un lato l’esordio puberale avviene nei tempi attesi, dall’altro la sua progressione è compromessa e si associa a una quasi costante disfunzione testicolare in età adulta. Le implicazioni cliniche sono molteplici e chiamano endocrinologi, pediatri e specialisti della salute ossea a un approccio più proattivo nel monitoraggio e trattamento di questa complicanza endocrina. In questo senso, l’ipogonadismo nella AS non è solo una manifestazione clinica: è un campanello d’allarme per la presa in carico globale del paziente.

Lo studio

Sadaf Ali, Qianwen Zhang, Ijeoma Anwunah, Shanat Baig, Gabriela da Silva Xavier, Charlotte Dawson, Francesca Dassie, Yijun Tang, Libo Wang, Guoying Chang, Paul Gleeson, Adrian T Warfield, Richard Paisey, Timothy G Barrett, Pietro Maffei, Xiumin Wang, Victoria Homer, Melanie Kershaw, Tarekegn Geberhiwot, Defining Puberty and Spectrum of Hypogonadism in Alström SyndromeThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2025; dgaf356.

Nuovi valori di riferimento per la calciuria e implicazioni cliniche

L’escrezione urinaria di calcio nelle 24 ore (24h-UCaE) rappresenta un indicatore cruciale per valutare l’equilibrio del metabolismo calcico e il rischio di patologie ossee come l’osteoporosi. Tuttavia, l’assenza di intervalli di riferimento validati per popolazioni specifiche e la scarsità di dati sulla relazione tra UCaE e metabolismo osseo ne hanno limitato l’impiego clinico. Un nuovo studio multicentrico condotto in Cina — il CHinA National Calcium lEvel Survey (CHANCES) — colma questa lacuna, offrendo un contributo fondamentale alla clinica e alla ricerca endocrinologica e osteometabolica.

Disegnato su scala nazionale

Lo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha coinvolto 1239 adulti sani provenienti da nove ospedali di terzo livello, con esclusione di soggetti affetti da patologie endocrine o renali, neoplasie, o in trattamento con farmaci che potessero alterare l’escrezione urinaria di calcio.

I partecipanti hanno fornito un campione di urina raccolta nelle 24 ore, validato tramite metodiche standardizzate, e sono stati sottoposti a valutazione ematochimica e nutrizionale, con particolare attenzione all’introito di calcio e vitamina D.

Intervalli di riferimento e fattori influenzanti

Il valore mediano di UCaE è risultato pari a 2.27 mmol/24h nella popolazione generale, con differenze minime tra uomini (2.24 mmol) e donne (2.28 mmol). Tuttavia, l’indicatore UCaE/Ucr (escrezione di calcio rapportata alla creatinina urinaria) ha evidenziato una differenza significativa tra i sessi: 0.55 negli uomini e 0.79 nelle donne (P < .001).

L’escrezione urinaria è risultata influenzata da numerosi fattori, tra cui età, stagione, assunzione alimentare di calcio, supplementazione di vitamina D e regione geografica. In entrambi i sessi, la UCaE/Ucr era maggiore in estate e autunno rispetto a primavera e inverno, e aumentava con il consumo di calcio alimentare. Nelle donne, un ruolo addizionale era svolto dalla supplementazione di vitamina D e dai livelli di fosforo e fosfatasi alcalina.

Correlazioni con il metabolismo osseo

L’aspetto più rilevante del lavoro riguarda le correlazioni tra escrezione urinaria di calcio e marcatori del metabolismo osseo. Nei modelli multivariati, la UCaE/Ucr risultava:

  • Positivamente associata ai livelli sierici di 25-idrossivitamina D [25(OH)D] in entrambi i sessi (P = .032 negli uomini; P < .001 nelle donne);

  • Negativamente associata, solo negli uomini, ai livelli di PTH (P = .031), β-CTX (P = .021) e P1NP (P = .048), noti marker di riassorbimento e formazione ossea.

L’analisi con modelli a spline cubicamente ristretti ha confermato un’andamento non lineare di queste associazioni, suggerendo un potenziale impatto diretto della calciuria sull’attività di rimodellamento osseo.

Differenze di genere: un focus necessario

L’assenza di correlazioni significative tra UCaE e marker ossei nelle donne apre interrogativi sulla diversa fisiologia calcica e ormonale tra i sessi. Gli autori ipotizzano che la presenza di estrogeni — noti regolatori del metabolismo osseo — possa attenuare l’effetto negativo dell’elevata calciuria sull’osso nelle donne, soprattutto prima della menopausa.

Questo risultato si allinea con dati precedenti (Vezzoli et al., Kidney Int, 2005) che indicano come la calciuria influenzi negativamente la densità minerale ossea in soggetti maschi ma non nelle donne.

Ipercalciuria: prevalenza e implicazioni cliniche

Nel campione esaminato, la prevalenza di ipercalciuria era dell’11.6%, ma con un chiaro gradiente di genere: 7.5% negli uomini e 14.0% nelle donne. Le differenze si accentuano anche con l’età (dal 3.3% tra i 18-29 anni al 21.8% sopra i 60) e tra le regioni cinesi, ma non mostrano variazioni stagionali significative.

Lo studio suggerisce che gli attuali cut-off per definire l’ipercalciuria (>7.5 mmol/24h per gli uomini e >6.25 mmol/24h per le donne) potrebbero non essere adeguati per la popolazione cinese: il limite superiore proposto è 6.7 mmol per gli uomini e 8.1 mmol per le donne, in base all’analisi dei percentili.

Implicazioni cliniche

I dati suggeriscono che la valutazione dell’escrezione urinaria di calcio nelle 24 ore debba entrare a pieno titolo tra gli strumenti di screening e monitoraggio nei pazienti a rischio di osteoporosi e disturbi del metabolismo osseo. In particolare, negli uomini, livelli elevati di UCaE possono indicare un’aumentata attività di riassorbimento osseo, anche in assenza di alterazioni della densità minerale ossea.

Il dato sulla correlazione positiva con i livelli sierici di 25(OH)D, confermato in entrambi i sessi, supporta l’uso della calciuria anche come biomarcatore indiretto di adeguatezza vitaminica.

Prospettive

Il CHANCES study costituisce un fondamentale punto di partenza per lo sviluppo di linee guida più precise nella valutazione della calciuria nelle diverse fasce di popolazione. Le differenze di genere osservate meritano ulteriori indagini, anche per comprendere il ruolo di ormoni sessuali e fattori genetici nella regolazione del metabolismo calcico.

In un’ottica di medicina personalizzata, l’integrazione tra calciuria, biomarcatori sierici e caratteristiche individuali (età, sesso, dieta, supplementazioni) potrà rafforzare le strategie di prevenzione e trattamento delle patologie ossee, dalla perdita ossea postmenopausale all’osteoporosi senile e secondaria.

Lo studio

Li Shen, Hao Zhang, Qi Lu, Shanshan Li, Yazhao Mei, Chao Gao, Hua Yue, Xiangtian Yu, Qi Yao, Yanan Huo, Yuhong Zeng, Yin Jiang, Zhongjian Xie, Aijun Chao, Xiaolan Jin, Guangjun Yu, Li Mao, Zhenlin Zhang, Reference Intervals for 24-Hour Urinary Calcium Excretion and Its Association With Bone Metabolism: A Multicenter StudyThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2025; dgae805.

Qual è il ruolo del testosterone nella salute ossea maschile?

Quando si parla di osteoporosi, l’uomo resta spesso invisibile. Eppure, circa un quinto delle fratture da fragilità interessa pazienti di sesso maschile, con un tasso di mortalità post-frattura addirittura superiore rispetto alle donne. A dispetto di questi numeri, la salute ossea maschile rimane un’area sottovalutata nella prevenzione e nella clinica.

Una recente review pubblicata sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism da un team italiano (Tenuta, Hasenmajer, Gianfrilli e Isidori) offre un’analisi approfondita delle interazioni tra testosterone e tessuto osseo, svelando un sistema regolatorio ben più articolato di quanto si pensasse.

Oltre il testosterone: un gioco di squadra endocrino

Il testosterone è tradizionalmente considerato il principale ormone sessuale maschile, responsabile di caratteristiche fenotipiche e riproduttive. Tuttavia, a livello osseo la sua azione si intreccia con quella degli estrogeni, derivati per aromatizzazione del testosterone stesso, e con altri mediatori cellulari e genetici.

Il punto centrale della review è che non esiste una sola “via” attraverso cui il testosterone agisce sull’osso, ma una rete di interazioni che coinvolge:

  • la conversione in estradiolo tramite l’enzima aromatasi, cruciale per la chiusura delle cartilagini di accrescimento e per la conservazione della massa ossea;

  • l’azione diretta sugli osteoblasti (cellule che costruiscono l’osso) e sugli osteoclasti (cellule che lo riassorbono), mediata dai recettori androgenici;

  • l’influenza su fattori di crescita come IGF-1, e pathway intracellulari che regolano il turnover osseo.

Ipogonadismo: quando l’osso soffre

Nell’uomo adulto, il declino del testosterone — fisiologico con l’età o patologico in caso di ipogonadismo — si associa a un aumento del riassorbimento osseo e a una riduzione della massa minerale.

Gli autori distinguono tre quadri principali:

  1. Ipogonadismo congenito (es. sindrome di Kallmann): il picco di massa ossea non viene mai raggiunto, con conseguente bassa BMD sin dall’età giovanile.

  2. Ipogonadismo acquisito (es. tumori ipofisari, chemioterapia, obesità grave): porta a un deterioramento progressivo dell’architettura ossea.

  3. Ipogonadismo funzionale legato all’invecchiamento: più subdolo, ma epidemiologicamente rilevante, contribuisce alla fragilità ossea nell’uomo anziano.

In tutti questi scenari, la terapia sostitutiva con testosterone ha dimostrato benefici sulla densità minerale ossea, ma va calibrata con attenzione per evitare effetti collaterali cardiovascolari o prostatici.

Il ruolo centrale dell’aromatizzazione

Uno degli aspetti più interessanti discussi nella review riguarda l’importanza della conversione del testosterone in estradiolo tramite l’enzima aromatasi, attiva nel tessuto adiposo, osseo e cerebrale.

Nei casi di deficit dell’aromatasi o di resistenza recettoriale agli estrogeni, l’uomo sviluppa una grave osteoporosi, pur avendo livelli normali di testosterone. Questo conferma che l’estradiolo è un regolatore chiave del metabolismo osseo maschile, e che il testosterone agisce anche attraverso la sua trasformazione.

Inoltre, in uomini anziani o con obesità viscerale — dove l’attività dell’aromatasi è alterata — questo meccanismo può contribuire all’aumento del rischio osteoporotico.

Cellule ossee e recettori: una comunicazione sofisticata

A livello cellulare, sia gli osteoblasti che gli osteoclasti esprimono recettori per gli androgeni, e la loro attivazione modula i processi di formazione e riassorbimento. Tuttavia, la sensibilità recettoriale varia con l’età, lo stato infiammatorio e la presenza di altre patologie croniche.

Il testosterone stimola la proliferazione degli osteoblasti e inibisce l’apoptosi, promuovendo una maggiore deposizione di matrice ossea. Parallelamente, sopprime l’attività degli osteoclasti, contribuendo a un bilancio osseo positivo.

La review suggerisce che questi effetti sono più evidenti nei periodi di rapido turnover osseo, come la pubertà, e meno marcati nell’età avanzata, dove prevalgono fattori infiammatori e degenerativi.

Quali implicazioni cliniche?

Il messaggio della review è chiaro: la salute ossea maschile non può prescindere da un’attenta valutazione ormonale, e in particolare del sistema testosterone–estradiolo. Le implicazioni cliniche sono numerose:

  • In presenza di fratture da fragilità o osteoporosi maschile, l’ipogonadismo deve essere sempre escluso.

  • La terapia sostitutiva con testosterone, in casi selezionati, può rappresentare una strategia efficace per preservare la massa ossea, soprattutto nei soggetti giovani o di mezza età.

  • In età avanzata, va prestata attenzione anche alla valutazione degli estrogeni e dell’aromatasi, soprattutto in condizioni come l’obesità o il diabete di tipo 2.

Considerazioni finali

Il testosterone emerge come un potenziale “custode” della salute ossea nell’uomo adulto. Lo studio  compone i pezzi di un puzzle complesso, dove androgeni, estrogeni, recettori e segnali intracellulari collaborano per costruire, mantenere e proteggere l’integrità dell’osso.

In un contesto clinico ancora centrato sulla donna, è tempo di riconoscere che anche lo scheletro maschile ha i suoi ormoni da difendere. E il testosterone, sotto questo profilo, merita un’attenzione nuova.

Lo studio

Marta Tenuta, Valeria Hasenmajer, Daniele Gianfrilli, Andrea M Isidori, Testosterone and Male Bone Health: A Puzzle of InteractionsThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 7, July 2025, Pages e2121–e2135.

Quando il dolore non passa: cos’è l’algodistrofia

L’algodistrofia, nota anche come Sindrome Dolorosa Regionale Complessa (CRPS, Complex Regional Pain Syndrome), è una condizione poco conosciuta ma fortemente invalidante. Colpisce solitamente un arto (mano, piede, gamba o braccio) e può insorgere dopo una frattura, un intervento chirurgico, una distorsione o anche un trauma banale.

Il dolore è il sintomo predominante: intenso, bruciante, sproporzionato rispetto al trauma iniziale. Ma non è l’unico. La zona colpita può diventare gonfia, calda o fredda, sudata, rigida. La pelle può cambiare colore e si può perdere mobilità.

Una diagnosi difficile

Il problema principale dell’algodistrofia è che viene spesso scambiata per un dolore “normale” post-trauma o post-operatorio. Questo porta a ritardi nella diagnosi, proprio quando sarebbe fondamentale intervenire tempestivamente.

Non esistono esami diagnostici specifici, ma alcuni test come la scintigrafia ossea trifasica, la RMN e la valutazione clinica possono orientare il medico. Riconoscerla precocemente può fare la differenza nel trattamento.

Perché colpisce?

Non è ancora del tutto chiaro perché alcune persone sviluppino algodistrofia. Si ipotizza un malfunzionamento del sistema nervoso autonomo, una reazione infiammatoria esagerata o fattori genetici predisponenti.

Spesso colpisce le donne tra i 40 e i 60 anni, ma può verificarsi a qualsiasi età.

Come si cura

Il trattamento deve essere precoce e multidisciplinare. Le terapie includono:

  • Riabilitazione precoce e mirata, con esercizi graduali per ripristinare il movimento;
  • Farmaci per il dolore (come analgesici, antinfiammatori, gabapentinoidi);
  • In alcuni casi, bisfosfonati per ridurre la componente infiammatoria ossea;
  • Tecniche di neuromodulazione, come TENS o stimolazioni del midollo;
  • Supporto psicologico, se il dolore cronico incide sull’umore e sulla qualità della vita.

Cosa può fare il paziente

È fondamentale non ignorare il dolore se persiste oltre i tempi di guarigione attesi. Rivolgersi a un medico specialista in reumatologia, fisiatria o terapia del dolore può aiutare a ottenere una diagnosi e un percorso di cura personalizzato.

Anche il ruolo del caregiver è centrale: osservare, incoraggiare il movimento (senza forzare), aiutare a comunicare i sintomi e sostenere emotivamente il paziente può fare una grande differenza.

GPT-5 e medicina: risultati oltre le aspettative

CONTENUTO RISERVATO AGLI OPERATORI SANITARI

Un recente studio dell’Emory University ha valutato le capacità di GPT-5, il nuovo modello di intelligenza artificiale di OpenAI, nel ragionamento clinico. Messo alla prova su domande d’esame mediche e casi multimodali che integrano testi, dati e immagini, GPT-5 ha mostrato performance superiori non solo ai suoi predecessori, ma anche a gruppi di medici esperti in contesti standardizzati.

Si tratta di un risultato che apre prospettive interessanti per il futuro dell’AI in sanità, dalla diagnosi alla gestione dei dati clinici, pur con le dovute cautele legate a validazione, etica e responsabilità professionale.

L’analisi completa con i dati e le implicazioni per la pratica clinica è disponibile nell’area riservata ai medici.

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Forza ritrovata: il muscolo dopo la paratiroidectomia

L’iperparatiroidismo primario (pHPT), terzo disordine endocrino più comune dopo diabete e ipotiroidismo, colpisce fino al 5% delle donne postmenopausali. Le manifestazioni classiche della malattia — ipercalcemia, osteoporosi, calcolosi renale — guidano le decisioni cliniche, mentre sintomi più sfumati come la debolezza muscolare restano spesso marginalizzati nelle linee guida per la chirurgia. Eppure, la compromissione della forza muscolare ha impatti significativi sulla qualità della vita e sul rischio di fragilità e disabilità.

Lo studio del Karolinska: una fotografia pre e post intervento

In questo contesto si inserisce lo studio prospettico condotto dal gruppo svedese presso il Karolinska Institutet, volto a valutare gli effetti della paratiroidectomia sulla funzione e sul profilo molecolare del muscolo scheletrico in 15 donne postmenopausali con pHPT. L’analisi ha integrato test di forza muscolare, risonanza magnetica (MRI) del muscolo vasto laterale e biopsie per l’analisi trascrizionale, prima e tre mesi dopo l’intervento chirurgico.

Risultati clinici: forza in crescita, grasso in calo

I risultati sono inequivocabili. A tre mesi dall’intervento, le pazienti mostravano un miglioramento statisticamente significativo nei test di forza delle gambe: nel Timed Stands Test, il tempo medio per alzarsi da una sedia dieci volte si è ridotto da 25,5 a 20,1 secondi. Anche la forza isocinetica del quadricipite, misurata a 60°/s e 240°/s, è aumentata rispettivamente dell’11% e del 14%. Parallelamente, la risonanza magnetica ha mostrato un aumento del volume muscolare (da 1193 a 1217 cm³) e una riduzione della frazione di grasso intramuscolare (da 9,7% a 9,2%).

Sorprendentemente, questi miglioramenti si sono verificati senza variazioni significative nei livelli di attività fisica riportati dalle pazienti, indicando che i cambiamenti osservati sono direttamente attribuibili alla normalizzazione del metabolismo calcio-fosforo e alla risoluzione dello stato iperparatiroideo.

La firma molecolare della guarigione

Il dato più affascinante emerso dallo studio riguarda il profilo molecolare dei muscoli. L’analisi RNA-seq delle biopsie del vasto laterale ha rivelato 981 geni espressi in modo differenziale dopo l’intervento. L’arricchimento genico ha evidenziato vie biologiche coinvolte in angiogenesi, respirazione mitocondriale, omeostasi del calcio e ristrutturazione della matrice extracellulare.

Il confronto con il database MetaMEx — che raccoglie dati trascrizionali di muscoli sottoposti ad allenamento aerobico o di resistenza — ha mostrato una sorprendente concordanza tra il profilo post-paratiroidectomia e quello tipico dell’esercizio fisico. In particolare, sono risultate modificate le espressioni di geni come VEGFA (angiogenesi), ANGPTL4 (metabolismo lipidico), HK2 (glicolisi), COL1A1 e COL3A1 (rimodellamento tissutale).

Transcription factors in azione: attivazione anabolica e antinfiammatoria

Tra i fattori di trascrizione attivati si segnalano STAT3 e CREB1, noti regolatori di infiammazione, metabolismo e risposte allo stress. Inoltre, i ricercatori hanno osservato l’attivazione di fattori GATA, associati a ipertrofia muscolare e regolazione immunitaria. Questo suggerisce che la chirurgia non solo risolve l’ipercalcemia ma induce una complessa riorganizzazione dei programmi genetici muscolari, verosimilmente attraverso meccanismi endocrino-paracrini.

Un nuovo criterio per l’intervento chirurgico?

Le attuali linee guida europee sull’iperparatiroidismo raccomandano la chirurgia principalmente nei casi con danno osseo o renale evidente. Tuttavia, i dati di questo studio mettono in discussione questa visione restrittiva, proponendo di includere la valutazione della funzione muscolare — anche attraverso test semplici come il Timed Stands Test — nella selezione dei pazienti candidabili all’intervento.

Non si tratta solo di migliorare la qualità della vita: prevenire la sarcopenia e il rischio di cadute può ridurre la morbilità, la dipendenza e il carico assistenziale negli anziani. La chirurgia, quando indicata, offre un miglioramento clinico e molecolare a basso rischio e con benefici sistemici che vanno oltre l’osso.

Il muscolo come target nascosto del pHPT

Lo studio del Karolinska rappresenta un punto di svolta nella comprensione degli effetti sistemici del pHPT e del ruolo terapeutico della paratiroidectomia. Mostra come un intervento mirato a correggere uno squilibrio endocrino possa riattivare il metabolismo muscolare con esiti comparabili a quelli dell’allenamento fisico — ma senza sforzo.

Nel disegnare il futuro delle raccomandazioni cliniche, sarà essenziale considerare la funzione muscolare come parametro chiave nella valutazione del beneficio chirurgico, specie nella popolazione geriatrica. Perché, come dimostrato, la forza ritrovata non è solo un dato funzionale, ma un segnale biologico di salute ritrovata.

Lo studio

Sofia Björnsdotter-Öberg, Anna Koman, Mikael Skorpil, Henric Rydén, Johanna T Lanner, Anna Krook, Inga-Lena Nilsson, Nicolas J Pillon, Carolina Nylén, Parathyroidectomy Restores Muscle Strength and Transcriptome in Individuals with Primary HyperparathyroidismThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2025; dgaf418.

Quando la scoliosi colpisce in età adulta

La scoliosi dell’adulto è una deviazione laterale della colonna vertebrale, associata spesso a rotazione dei corpi vertebrali, che compare o peggiora dopo i 40 anni. Può essere l’evoluzione di una scoliosi giovanile non trattata o insorgere per degenerazione della colonna (scoliosi de novo).

Cause principali

  • Scoliosi idiopatica progressiva: peggioramento di una curva già presente in adolescenza
  • Scoliosi degenerativa: dovuta all’invecchiamento delle strutture vertebrali (dischi, legamenti, faccette articolari)
  • Osteoporosi: può favorire fratture vertebrali e deformità
  • Patologie neuromuscolari o infiammatorie

Sintomi da non sottovalutare

A differenza dei giovani, negli adulti la scoliosi può causare:

  • Dolore lombare o dorsale cronico
  • Asimmetria posturale (spalle o fianchi disallineati)
  • Affaticamento nella stazione eretta o nella deambulazione
  • Difficoltà respiratorie nei casi più gravi
  • Compressione di radici nervose, con formicolii o debolezza agli arti

Diagnosi

Il medico può sospettare la scoliosi in base alla visita e ai sintomi. Gli esami utili sono:

  • Radiografia in ortostatismo (in piedi) dell’intera colonna
  • Risonanza magnetica, se c’è sospetto di compressioni nervose
  • MOC-DEXA, se si sospetta osteoporosi

Come si cura

Il trattamento dipende dalla gravità della curva e dai sintomi:

  • Fisioterapia personalizzata: esercizi di rinforzo, stretching e controllo posturale
  • Farmaci antinfiammatori o miorilassanti
  • Infiltrazioni spinali, se c’è dolore irradiato
  • Bustini ortopedici, solo in alcuni casi
  • Chirurgia, nei casi gravi o invalidanti

Conviverci si può

La scoliosi dell’adulto non sempre richiede un intervento invasivo. Con controlli regolari, uno stile di vita attivo e trattamenti personalizzati, è possibile convivere con la patologia mantenendo una buona qualità della vita.