venerdì, Luglio 18, 2025
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Le fratture da fragilità: come evitarle

Le fratture da fragilità sono un evento temuto e purtroppo frequente, soprattutto con l’avanzare dell’età. Riconoscerne le cause e attuare strategie preventive può fare la differenza per mantenere la propria autonomia e qualità della vita.

Che cos’è la frattura da fragilità

Si definisce “frattura da fragilità” quella che avviene in seguito a un trauma lieve, come una caduta da posizione eretta. Le ossa più frequentemente colpite sono il femore, il polso e le vertebre. Queste fratture sono spesso la conseguenza di un’osteoporosi non diagnosticata o non trattata.

Chi è più a rischio

Le donne in post-menopausa sono le più esposte, ma anche gli uomini possono essere colpiti. Fattori di rischio importanti includono l’età avanzata, la familiarità per osteoporosi o fratture, l’uso prolungato di cortisonici, il fumo e la sedentarietà.

Strategie di prevenzione

La prevenzione inizia con una dieta equilibrata e ricca di calcio e vitamina D. L’esposizione regolare al sole stimola la produzione di vitamina D, mentre l’attività fisica rafforza ossa e muscoli, migliorando l’equilibrio e riducendo il rischio di cadute.

Semplici abitudini quotidiane

Piccoli gesti possono fare la differenza: rimuovere i tappeti scivolosi in casa, installare maniglie di sostegno in bagno, usare scarpe chiuse e con suola antiscivolo. Mantenere un buon tono muscolare e una postura corretta aiuta a muoversi con sicurezza.

Vivi sicuro, vivi meglio

Le fratture da fragilità non sono un destino inevitabile. Con un’attenzione costante alla prevenzione e la collaborazione con il medico, è possibile ridurre il rischio e mantenere uno stile di vita attivo e indipendente.

Ipoparatiroidismo, è tempo di dare una risposta

«Si può parlare di normalità?» È questa la domanda che campeggia sulla nuova campagna di sensibilizzazione lanciata da APPI, l’Associazione Pazienti con Ipoparatiroidismo, in occasione della Giornata Internazionale dedicata a questa rara patologia endocrina, celebrata ogni anno il 1° giugno. Ma la domanda non è retorica. Racchiude, al contrario, l’urgenza concreta di ridefinire le aspettative di vita di oltre 10.000 persone in Italia che convivono con una malattia spesso invisibile, sottostimata, mal diagnosticata e priva, ancora oggi, di un trattamento sostitutivo approvato e rimborsato.

All’evento istituzionale che si è svolto a Roma lo scorso 28 maggio presso la Sala Perin del Vaga di Palazzo Baldassini, con il contributo non condizionante di Ascendis Pharma, si è fatta strada una consapevolezza nuova: la normalità non è un’utopia, ma un obiettivo di politica sanitaria.

Oltre il calcio e la vitamina D

L’ipoparatiroidismo cronico è una condizione causata da un’insufficiente secrezione di ormone paratiroideo (PTH), spesso dovuta a danni chirurgici alle paratiroidi. L’assenza di questo regolatore critico del metabolismo calcio-fosforo comporta gravi squilibri biochimici e complicanze multiple: da spasmi muscolari e convulsioni, fino a nefrocalcinosi, calcificazioni cerebrali, depressione, aritmie e compromissione cognitiva. L’attuale terapia convenzionale – a base di calcio e vitamina D attiva – risulta spesso inefficace nel replicare la funzione fisiologica del PTH. A lungo termine, i pazienti pagano il prezzo di una gestione subottimale della malattia.

«Il teriparatide, oggi usato off label, non ha studi clinici sull’ipoparatiroidismo. Noi clinici vogliamo poter accedere a un farmaco sostitutivo», ha affermato la Dr.ssa Maria Luisa Brandi, Medico Chirurgo Specialista in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Presidente di Fondazione FIRMO (Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso) e di OFF (Osservatorio Fratture da Fragilità) e Presidente del Comitato Scientifico di APPI, associazione per i pazienti con ipoparatiroidismo. Il riferimento è a palopegteriparatide (TransCon PTH), la nuova molecola sviluppata da Ascendis Pharma e approvata da FDA ed EMA, oggi ancora in attesa di classificazione AIFA. In Italia è presente in fascia Cnn, e quindi non rimborsabile.

La voce dei pazienti

Proprio per favorire un’informazione trasparente e accessibile, APPI ha presentato in anteprima il sito www.ipopara.it, punto di riferimento digitale per pazienti, caregiver e operatori sanitari. Il portale raccoglie risorse aggiornate, testimonianze e strumenti utili alla comprensione di una patologia rara e complessa, spesso confusa con altri disturbi.

«Siamo orgogliosi di sostenere APPI e di contribuire alla diffusione di informazioni cruciali per i pazienti», ha dichiarato Paola Stagni, Direttore Medico di Ascendis Pharma Italia. «Il nostro obiettivo è migliorare la qualità della vita delle persone con ipoparatiroidismo, attraverso l’ascolto e la conoscenza».

Un obiettivo condiviso anche dalla prof.ssa Maria Luisa Brandi, che ha rilanciato il ruolo delle associazioni nell’interlocuzione politica: «Noi ci siamo e vogliamo portare la soluzione. Insieme all’Associazione Pazienti dialogheremo con il decisore per non perdere l’opportunità di avere a rimborso la terapia sostitutiva».

Linee guida italiane in arrivo

Il quadro clinico è chiaro. E anche quello regolatorio comincia a muoversi. L’AME (Associazione Medici Endocrinologi) sta lavorando alla redazione delle prime Linee Guida italiane sull’ipoparatiroidismo. Al momento si è conclusa la fase di revisione sistematica della letteratura; a settembre si riunirà il panel multidisciplinare, con l’obiettivo di pubblicare le linee guida entro novembre 2025. Fondamentale sarà anche il contributo di APPI, per la produzione di una versione “patient-friendly”, pensata per i non addetti ai lavori.

Secondo l’on. Ylenia Zambito, membro dell’Intergruppo Parlamentare Fratture da Fragilità, le Linee Guida sono uno strumento importantissimo. Ma serve un passo in più: il legislatore deve riconoscere pienamente l’impatto di questa patologia sulla vita delle persone e tradurre la conoscenza clinica in atti concreti.

Un’innovazione terapeutica made in Europe

A rendere tutto ciò possibile è anche la scienza. Ascendis Pharma, azienda danese con sede italiana a Milano, ha sviluppato la piattaforma TransCon®, una tecnologia capace di prolungare l’effetto terapeutico delle molecole e di migliorarne il profilo farmacocinetico. Il palopetiterparatide, frutto di questa tecnologia, è oggi la prima terapia sostitutiva per l’ipoparatiroidismo approvata sia da EMA che da FDA. Una terapia che sostituisce, non semplicemente compensa, l’ormone mancante.

L’azienda è già attiva in Italia con 14 centri coinvolti in studi clinici e una solida rete di relazioni con la comunità scientifica endocrinologica. Con l’apertura della nuova sede a Milano nel 2024, Ascendis Pharma ha consolidato la propria presenza nel nostro Paese, facendo dell’Italia un mercato strategico per la crescita europea.

Una nuova alleanza per la salute

L’incontro di Roma ha rappresentato un punto di svolta. Non solo per i contenuti scientifici o le prospettive regolatorie, ma soprattutto per il messaggio politico che ne è emerso: la cronicità invisibile ha diritto a essere vista. Non bastano farmaci innovativi se non vengono resi accessibili. Non basta riconoscere i bisogni se poi restano fuori dai radar del Servizio Sanitario Nazionale. Serve una rete che unisca clinici, pazienti, istituzioni e aziende.

Acidosi, microarchitettura ossea compromessa nei pazienti con dRTA ereditaria da mutazione SLC4A1

Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism ha analizzato con tecnica HR-pQCT le alterazioni della microarchitettura ossea in 11 pazienti con acidosi tubulare distale ereditaria (dRTA) associata a mutazione del gene SLC4A1. I risultati mostrano una compromissione significativa del comparto trabecolare, più marcata rispetto a quella osservata nella rachitismo ipofosfatemico legato all’X (XLH). L’analisi ha evidenziato una riduzione della densità minerale ossea volumetrica (vBMD) e della qualità trabecolare a livello di radio e tibia distali, sottolineando l’importanza della diagnosi precoce e della terapia alcalinizzante.

Acidosi tubulare distale ereditaria

L’acidosi tubulare distale ereditaria (dRTA) associata a mutazione SLC4A1 rappresenta una rara ma insidiosa condizione metabolica con manifestazioni ossee spesso gravi, tra cui rachitismo, dolore, deformità e bassa statura. Meno noto, tuttavia, è l’impatto di questa condizione sulla microarchitettura ossea. A colmare questa lacuna interviene uno studio condotto presso il Peking Union Medical College Hospital e pubblicato sul JCEM, che ha impiegato la tomografia computerizzata periferica ad alta risoluzione (HR-pQCT) per valutare, per la prima volta, la struttura trabecolare e corticale in questi pazienti.

Uno studio comparativo con controlli e pazienti XLH

Lo studio ha incluso 11 pazienti con dRTA ereditaria confermata da mutazione SLC4A1, di cui 7 sottoposti ad HR-pQCT a livello di radio e tibia distali. I dati sono stati confrontati con quelli di 7 controlli sani e 21 pazienti affetti da XLH (X-linked hypophosphatemic rickets). I risultati hanno mostrato che nei pazienti con dRTA, la densità minerale ossea volumetrica trabecolare (Tb.vBMD) e il volume trabecolare relativo (Tb.BV/TV) erano significativamente ridotti, mentre la separazione trabecolare (Tb.Sp) risultava aumentata.

In particolare, al livello della tibia distale, la Tb.vBMD dei pazienti dRTA era di 91,7 mg HA/cm³ contro i 157,4 mg HA/cm³ dei controlli (p=0,015). La trabecolar number (Tb.N) era inferiore (1.037/mm vs 1.314/mm, p=0,004), mentre la trabecolar separation (Tb.Sp) risultava significativamente maggiore (0,962 mm vs 0,736 mm, p=0,004). Alterazioni simili, anche se meno marcate, sono state rilevate anche al radio distale.

dRTA vs XLH: danno trabecolare più severo

Il confronto con i pazienti XLH ha ulteriormente rafforzato le conclusioni. Nonostante entrambe le condizioni conducano a rachitismo e disfunzione scheletrica, i pazienti dRTA hanno mostrato una microarchitettura ossea trabecolare più compromessa. Alla tibia distale, il Tb.BV/TV era del 14,1% nei pazienti dRTA contro il 20,1% nei pazienti XLH (p=0,040), con trabecole più sottili e separate. Anche al radio, la Tb.Th era inferiore (0,206 mm vs 0,250 mm, p<0,001) e la porosità corticale significativamente più bassa nei dRTA (Ct.Po: 0,3% vs 1,4%, p=0,020), indicando una prevalente sofferenza trabecolare.

Terapia alcalinizzante: benefici concreti ma non risolutivi

I dati raccolti prima e dopo la somministrazione di terapia alcalinizzante (citrati o bicarbonato) mostrano un miglioramento clinico evidente. La crescita staturale (altezza Z-score da −2,5 a −1,7, p=0,043) e il sollievo dal dolore osseo sono stati riportati nella maggior parte dei pazienti. Tuttavia, nonostante l’aumento del pH ematico (da 7,26 a 7,37, p=0,017), gli indicatori di turnover osseo (ALP e β-CTX) non hanno mostrato variazioni statisticamente significative. Il miglioramento della densità ossea areale è stato osservato solo nei pochi pazienti con follow-up completo tramite DXA.

Un danno da acidosi cronica sottostimato

Il razionale patogenetico dello studio poggia sull’effetto della acidosi metabolica cronica sulla struttura ossea. In condizioni di acidemia persistente, il comparto scheletrico agisce da tampone, rilasciando bicarbonato e fosfato e generando una compromissione della mineralizzazione e un’alterazione della funzione osteocitaria. Risultati analoghi a quelli ottenuti nello studio HR-pQCT erano già stati osservati in modelli animali e in studi istomorfometrici su pazienti dRTA, che avevano evidenziato un’osteomalacia con incremento dell’osteoid volume e riduzione del bone formation rate.

Implicazioni cliniche: attenzione precoce e follow-up dedicato

Questo studio fornisce un contributo cruciale alla comprensione delle complicanze ossee nei pazienti con dRTA ereditaria da mutazione SLC4A1. La severità della compromissione trabecolare, superiore a quella osservata in pazienti XLH, suggerisce che la sola terapia alcalinizzante non sia sufficiente a ripristinare completamente la qualità ossea, sebbene rappresenti la prima e più importante linea di intervento. L’utilizzo sistematico della HR-pQCT, sebbene ancora confinato all’ambito della ricerca, potrebbe evolvere in futuro verso un uso clinico selettivo per monitorare questi pazienti in modo più accurato.

Quali scenari?

La dRTA da mutazione SLC4A1 deve essere considerata a tutti gli effetti una patologia ossea rara con fenotipo scheletrico importante. La sua diagnosi precoce, l’avvio tempestivo della terapia alcalinizzante e un monitoraggio radiologico mirato sono fondamentali per ridurre l’impatto delle alterazioni ossee, migliorare la qualità della vita e prevenire le deformità scheletriche permanenti. La severità del danno trabecolare osservato suggerisce inoltre la necessità di sviluppare approcci terapeutici complementari, mirati alla rimodulazione del turnover osseo e alla promozione della mineralizzazione.

Lo studio

Rong Chen, Lijia Cui, Juan Du, Shujie Zhang, Yan Jiang, Mei Li, Xiaoping Xing, Ou Wang, Weibo Xia, Alteration of Bone Microarchitecture in Hereditary Distal RTA Patients With SLC4A1 Gene Mutation: Assessed by HR-pQCTThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 5, May 2025, Pages e1358–e1366.

Burosumab e il trattamento dell’ipofosfatemia legata all’X nei bambini

L’ipofosfatemia legata all’X (XLH) è una forma ereditaria di rachitismo ipofosfatemico causata da mutazioni inattivanti del gene PHEX, con conseguente aumento di FGF23, fosfaturia renale e deficit di 1,25(OH)₂D. I bambini affetti presentano deformità scheletriche, ritardo di crescita e compromissione della qualità di vita. La terapia convenzionale, basata su fosfato orale e vitamina D attiva, è stata per anni l’unica opzione terapeutica, nonostante l’evidenza limitata della sua efficacia sugli esiti clinici più rilevanti. L’avvento di burosumab, anticorpo monoclonale diretto contro FGF23, ha aperto nuove prospettive.

La revisione sistematica condotta da Ali et al. (2025) ha valutato, con metodologia GRADE, gli effetti di burosumab rispetto alla terapia convenzionale e al non trattamento in soggetti pediatrici con diagnosi clinica o genetica di XLH, focalizzandosi su esiti rilevanti per i pazienti: dolore muscoloscheletrico, deformità ossee, mobilità, QoL, crescita staturale, sintomi dentari, eventi avversi, e altri.

Pochi studi ma di buona qualità

Dopo uno screening iniziale di oltre 4000 pubblicazioni, solo due studi hanno soddisfatto i criteri di inclusione per il confronto tra burosumab e terapia convenzionale: un RCT open-label e una sua analisi post hoc. Il RCT, finanziato dai produttori del farmaco, ha coinvolto 61 bambini seguiti per 64 settimane. I pazienti trattati con burosumab hanno mostrato benefici significativi nella guarigione del rachitismo (misurata tramite RGI-C ≥+2), con un miglioramento del 70% rispetto al braccio convenzionale (moderata certezza dell’evidenza). Il farmaco ha anche migliorato la qualità della vita fisica (SF-10) con una differenza media di 5,49 punti (oltre il MID di 2), e, con minore certezza, la statura (Δ Z-score +0.14).

Eventi avversi e incertezze residue

Sul fronte della sicurezza, burosumab ha mostrato un aumento moderato degli eventi avversi (38% in più rispetto al controllo), soprattutto reazioni al sito di iniezione e disturbi gastrointestinali. La frequenza di ascessi dentari era maggiore nel gruppo trattato (19% in più), sebbene l’evidenza sia di bassa certezza. Non è stato possibile trarre conclusioni robuste sull’efficacia del farmaco rispetto al dolore, alla mobilità e alla QoL psicosociale, a causa dell’imprecisione dei dati.

Gli autori hanno inoltre tentato di inferire l’impatto della terapia sulla progressione verso la malattia renale cronica basandosi su miglioramenti nel punteggio ecografico di nefrocalcinosi, ma l’evidenza è risultata di qualità molto bassa.

La terapia convenzionale resta poco documentata

Per quanto riguarda la terapia tradizionale rispetto all’assenza di trattamento, è stato incluso solo uno studio osservazionale argentino retrospettivo su 43 bambini, divisi in base alla compliance. I risultati sull’altezza finale, unico parametro valutato, non hanno consentito di stabilire con certezza un effetto terapeutico, data l’elevata suscettibilità a bias.

Un cambio di paradigma possibile, ma non ancora definitivo

L’analisi di Ali et al. suggerisce che burosumab rappresenti oggi l’opzione più efficace per migliorare la qualità di vita fisica e correggere le deformità ossee nei bambini con XLH. Tuttavia, le incertezze su eventi avversi e costo-efficacia, unite all’insufficienza di dati di lungo termine, richiedono cautela prima di adottarlo come standard universale.

Sarà fondamentale promuovere studi indipendenti, con follow-up prolungato e campioni più ampi, in grado di valutare anche esiti come fratture sintomatiche, necessità di chirurgia ortopedica, udito e salute orale. Solo allora sarà possibile stabilire se burosumab rappresenti davvero un nuovo paradigma nella gestione della XLH pediatrica.

Lo studio

Dalal S Ali, Reza D Mirza, Salma Hussein, Farah Alsarraf, R Todd Alexander, Hajar Abu Alrob, Natasha M Appelman-Dijkstra, Martin Biosse-Duplan, Maria Luisa Brandi, Thomas O Carpenter, Catherine Chaussain, Karel Dandurand, Guido Filler, Pablo Florenzano, Seiji Fukumoto, Corinna Grasemann, Erik A Imel, Suzanne M Jan de Beur, Emmett Morgante, Leanne M Ward, Aliya A Khan, Gordon Guyatt, Systematic Review: Efficacy of Medical Therapy on Outcomes Important to Pediatric Patients With X-Linked HypophosphatemiaThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 5, May 2025, Pages 1205–1217.

Il ruolo della vitamina D e del sole

La vitamina D è un elemento chiave per la salute delle ossa e svolge un ruolo fondamentale nel metabolismo del calcio. Una sua carenza può compromettere la solidità dello scheletro e aumentare il rischio di osteoporosi.

Vitamina D: a che cosa serve

La vitamina D favorisce l’assorbimento intestinale del calcio e del fosforo, elementi fondamentali per la formazione e il mantenimento delle ossa. Partecipa anche alla regolazione del metabolismo osseo, aiutando a mantenere la densità minerale ossea. In sua assenza, anche una dieta ricca di calcio non è sufficiente per garantire ossa forti.

Come si assume

Il nostro organismo produce vitamina D quando la pelle è esposta alla luce solare, in particolare ai raggi ultravioletti di tipo B (UVB). Tuttavia, l’esposizione solare può essere insufficiente, soprattutto durante i mesi invernali o per chi trascorre molto tempo al chiuso. Per questo motivo, una parte della vitamina D deve essere assunta attraverso l’alimentazione.

Il sole e la vitamina D

Esporsi al sole per 15-30 minuti al giorno, evitando le ore più calde e proteggendo sempre la pelle, stimola la produzione naturale di vitamina D. Le aree più esposte (viso, braccia, gambe) sono quelle più efficaci per la sintesi. Tuttavia, le creme solari e l’età avanzata possono ridurre questa capacità.

Integrare con la dieta

Alimenti come pesce grasso (salmone, sgombro, sardine), tuorlo d’uovo, fegato e alcuni formaggi rappresentano le principali fonti alimentari di vitamina D.

Nei casi di carenza documentata, il medico può consigliare integratori specifici, sempre sotto controllo medico per evitare sovradosaggi.

Conclusioni pratiche

La vitamina D è essenziale per la salute dello scheletro e la prevenzione dell’osteoporosi. Una corretta esposizione al sole, un’alimentazione equilibrata e, se necessario, una supplementazione mirata rappresentano la strategia vincente per garantire ossa forti e prevenire fratture.

Piccoli segnali, grande attenzione

La fragilità ossea è un problema spesso sottovalutato, ma riconoscere in tempo i segnali che il corpo invia è fondamentale per prevenire le complicazioni e intervenire precocemente. Anche piccoli segnali possono indicare la necessità di un approfondimento.

I sintomi più comuni

L’osteoporosi, definita “ladra silenziosa”, spesso non dà sintomi finché non compaiono fratture. Tuttavia, ci sono piccoli segnali da non ignorare: dolori alla schiena persistenti, perdita di statura o postura curva. Questi sintomi possono indicare fratture vertebrali da compressione, frequenti nell’osteoporosi avanzata.

Quando preoccuparsi

La presenza di questi sintomi, soprattutto se associati a fattori di rischio come menopausa precoce, familiarità per fratture o uso prolungato di cortisonici, deve spingere a parlarne con il medico. Anche la comparsa di fratture apparentemente banali (ad esempio, dopo una caduta lieve) può essere un campanello d’allarme importante.

L’importanza dell’ascolto

Ascoltare il proprio corpo e non sottovalutare piccoli cambiamenti è la chiave per una diagnosi tempestiva. Anche un semplice dolore articolare o un senso di debolezza ossea possono meritare attenzione, soprattutto se persistenti o ricorrenti.

Diagnosticare precocemente

La densitometria ossea (MOC) è l’esame principale per valutare la densità minerale dello scheletro e individuare l’osteopenia o l’osteoporosi in fase precoce.

Il medico può inoltre valutare eventuali esami del sangue per capire se ci sono carenze nutrizionali (calcio, vitamina D) o segni di malattie metaboliche.

Proteggi la tua salute

Riconoscere i segnali, parlarne con il medico e seguire un percorso di prevenzione e diagnosi precoce permette di intervenire prima che si verifichino fratture. La salute delle ossa si costruisce giorno dopo giorno, con l’attenzione a questi piccoli segnali e la voglia di prendersi cura di sé.

Terapie spiegate in parole semplici

Le terapie per la salute delle ossa rappresentano un pilastro nella prevenzione e nel trattamento delle fratture e dell’osteoporosi. Conoscere le opzioni disponibili aiuta a sentirsi più sicuri e informati.

Perché le terapie sono importanti

L’osteoporosi e la fragilità ossea non vanno sottovalutate. Le terapie hanno l’obiettivo di ridurre il rischio di fratture, rallentare la perdita di massa ossea e, in alcuni casi, stimolare la formazione di nuovo tessuto osseo. È importante parlarne con il medico per capire quale sia la più adatta alla propria situazione.

Farmaci di base

I farmaci più utilizzati per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi comprendono i bisfosfonati, che rallentano il riassorbimento osseo, e il denosumab, un anticorpo monoclonale che agisce sul metabolismo dell’osso. Questi farmaci aiutano a mantenere la densità ossea e ridurre il rischio di fratture, soprattutto vertebrali e femorali.

Nuove opzioni terapeutiche

Negli ultimi anni, la ricerca ha portato allo sviluppo di farmaci innovativi come il romosozumab, un anticorpo monoclonale che stimola la formazione di nuovo tessuto osseo e contemporaneamente riduce il riassorbimento osseo. Anche i farmaci anabolizzanti, come la teriparatide e l’abaloparatide, hanno mostrato efficacia nel migliorare la densità minerale ossea e ridurre il rischio di fratture.

Parlane con il medico

La scelta della terapia dipende da vari fattori: l’età, la densità ossea misurata dalla MOC, la presenza di fratture pregresse e altri problemi di salute. Il medico potrà spiegare i benefici e i potenziali effetti collaterali dei farmaci, e valutare la necessità di integratori di calcio e vitamina D.

Un percorso personalizzato

Non esiste una terapia “giusta” valida per tutti: ogni persona è diversa e ha bisogni specifici. Seguire le indicazioni del medico, mantenere uno stile di vita sano e fare controlli regolari sono passi fondamentali per proteggere la salute delle ossa.

Conoscere le opzioni di cura, chiederne spiegazione e confrontarsi con uno specialista aiuta a vivere con maggiore consapevolezza e serenità.

Caso TCIRG, una nuova frontiera genetica per l’osteopetrosi dominante

Uno studio clinico e genetico recentemente pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism analizza per la prima volta tre soggetti affetti da osteopetrosi autosomica dominante (ADO) associata a una variante missenso del gene TCIRG1. Storicamente legato alla forma recessiva della malattia, il gene TCIRG1 si dimostra in questo contesto responsabile di fenotipi dominanti con una variabilità espressiva notevole, sia sul piano clinico sia radiologico e funzionale. L’analisi comparativa di tre membri di una stessa famiglia apre nuovi scenari di diagnosi, interpretazione fenotipica e implicazioni terapeutiche per una patologia ancora largamente misconosciuta.

Osteopetrosi autosomica dominante

L’osteopetrosi autosomica dominante (ADO), nota anche come malattia di Albers-Schönberg, è una rara condizione genetica caratterizzata da un difetto del riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti. Le ossa diventano paradossalmente dense ma fragili, predisponendo il soggetto a fratture, osteonecrosi, infezioni ossee e talvolta insufficienza midollare. Il gene principalmente coinvolto è da sempre considerato CLCN7, con mutazioni missenso che agiscono attraverso meccanismi dominanti negativi. Tuttavia, un nuovo studio condotto presso l’Indiana University School of Medicine e pubblicato nel 2024 ha identificato per la prima volta una variante missenso nel gene TCIRG1 come causa di ADO in età adulta.

Il gene TCIRG1 codifica per la subunità a3 della pompa protonica V-ATPasi, essenziale per l’attività di acidificazione degli osteoclasti. Mutazioni bialleliche in TCIRG1 sono ben note nel causare la forma recessiva (ARO) della malattia, spesso severa e a insorgenza infantile. L’osservazione in tre membri di una famiglia di una variante eterozigote c.1735G>A (p.Gly579Arg) ha permesso di ridefinire le potenzialità patogenetiche di questo gene anche in modalità dominante.

Tre volti della stessa mutazione

Il quadro clinico dei soggetti studiati mette in luce un’evidente eterogeneità di espressione. Il paziente II-1, maschio di 45 anni, ha manifestato numerose fratture atraumatiche, inclusi femore e metatarso, oltre a osteonecrosi della mandibola. La sorella, II-2, di 51 anni, ha avuto oltre 20 fratture nella vita, un andamento progressivamente invalidante e presenta attualmente una grave osteomielite della mandibola. In entrambi i soggetti sono stati rilevati livelli elevati dell’isoenzima cerebrale della creatinchinasi (CK-BB), anemia normocitica e densità ossea vertebrale estremamente aumentata (Z-score fino a +31).

Il terzo soggetto, III-1, figlio della paziente II-2, di 28 anni, ha invece un fenotipo quasi asintomatico: una singola frattura vertebrale in adolescenza, densitometria ossea moderatamente aumentata e funzione fisica normale. Non presentava anemia, alterazioni radiografiche significative né elevazione del CK-BB. Questa ampia variabilità intra-familiare ribadisce quanto già noto per le mutazioni in CLCN7, ma finora mai dimostrato nel contesto TCIRG1.

Radiologia e microarchitettura: tra iperostosi e normalità

La stratificazione fenotipica è stata ulteriormente approfondita mediante DXA, QCT e HR-pQCT. I due soggetti gravemente affetti mostravano aBMD e vBMD eccezionalmente elevati (es. 4,13 g/cm² alla colonna lombare e oltre 1000 mg/cm³ al QCT). Le immagini microarchitetturali evidenziavano un riempimento pressoché completo dello spazio midollare e un pattern sclerotico massivo, con rarefazione trabecolare e ridotta porosità corticale. Invece, il soggetto III-1 presentava immagini HR-pQCT del tutto nella norma, confermando l’assenza di compromissione osteoclastica significativa.

La funzione fisica come parametro clinico complementare

Le differenze si riflettono anche sulla capacità funzionale. Mentre II-1 e II-2 presentavano andatura lenta, scarsa resistenza al cammino e ridotta forza muscolare (valutata con chair stands test e dinamometria), III-1 risultava sostanzialmente nella norma in tutti i parametri. L’autovalutazione con PROMIS-PF confermava un impatto funzionale da moderato a severo nei soggetti più compromessi.

Analisi genetica: verso una nuova classificazione

L’identificazione della variante p.Gly579Arg in tutti e tre i soggetti, in assenza di alterazioni in CLCN7, rappresenta un cambio di paradigma. I test predittivi bioinformatici (PolyPhen-2, SIFT, SNAP2, FATHMM) hanno indicato un impatto potenzialmente deleterio sulla funzione proteica. Il residuo di arginina sostituisce una glicina in una posizione altamente conservata della subunità a3, alterando verosimilmente la struttura e l’attività della pompa protonica osteoclastica.

È interessante notare che la stessa variante è già stata riportata in soggetti con ARO a espressione attenuata, suggerendo che in determinati contesti possa esprimersi in modalità dominante. Questo studio documenta per la prima volta un pattern autosomico dominante associato a questa specifica mutazione.

Implicazioni cliniche e future prospettive

I dati raccolti spingono verso un aggiornamento delle strategie diagnostiche e classificative dell’osteopetrosi. TCIRG1 entra ufficialmente tra i geni da considerare anche in presenza di fenotipi dominanti, specie in casi non spiegati da CLCN7. Inoltre, l’ampia variabilità intra-familiare osservata impone una valutazione individualizzata del rischio clinico, che non può basarsi esclusivamente sul dato genetico.

Sul piano terapeutico, si aprono interrogativi interessanti: in che misura trattamenti antiresorptivi possono aggravare la condizione? La misurazione di biomarcatori come CK-BB potrà avere un valore prognostico? E ancora: l’approccio funzionale integrato – che combina imaging avanzato, test fisici e qualità di vita – potrebbe diventare standard nella valutazione e nel follow-up di questi pazienti?

Lo studio

Wade Jodeh, Amy J Katz, Marian Hart, Stuart J Warden, Paul Niziolek, Imranul Alam, Steven Ing, Lynda E Polgreen, Erik A Imel, Michael J Econs, Autosomal Dominant Osteopetrosis (ADO) Caused by a Missense Variant in the TCIRG1 GeneThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 109, Issue 7, July 2024, Pages 1726–1732.

Le nuove linee guida sulla Vitamina D dell’Endocrine Society

La vitamina D è spesso prescritta dai bone specialist per pazienti con patologie osteometaboliche e carenze. Sebbene esistano studi che associano la carenza di vitamina D a malattie autoimmuni, neoplastiche e infiammatorie, non è stato stabilito un nesso causale.

Il dott. Gregorio Guabello, specialista in endocrinologia presso l’ambulatorio di Endocrinologia, IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio di Milano e direttore scientifico di BoneHealth, ha riassunto in questo video i punti chiave che emergono dalle nuove linee guida pubblicate dall’Endocrine Society, raccomandazioni da utilizzare nella pratica clinica per i pazienti sani che non hanno patologie.

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