giovedì, Luglio 17, 2025
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Nuove evidenze per la gestione dell’osteoporosi indotta da glucocorticoidi in età pediatrica

L’osteoporosi indotta da glucocorticoidi (GIO) nei bambini rappresenta una delle complicanze più insidiose delle terapie antinfiammatorie sistemiche. Per decenni sottovalutata, la fragilità scheletrica in età pediatrica ha oggi nuovi strumenti di identificazione e gestione, grazie ai risultati dello studio STOPP (STeroid-induced Osteoporosis in the Pediatric Population) e all’approccio proposto da Leanne Ward e colleghi in un’analisi pubblicata sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

La chiave di volta: la frattura vertebrale

La frattura vertebrale – spesso asintomatica – è emersa come firma clinica della GIO pediatrica. Il dato più eclatante del progetto STOPP, che ha seguito oltre 400 bambini sottoposti a GC per patologie diverse (artriti, distrofie, malattie autoimmuni, leucemie), è che un terzo di questi sviluppa fratture vertebrali entro il primo anno di trattamento. Spesso in silenzio. L’assenza di dolore o di segni clinici e la normalità apparente della densità minerale ossea (BMD) possono trarre in inganno. Solo un imaging vertebrale laterale sistematico – con RX o DXA – può rivelare la presenza di deformità, anche gravi.

Il paradigma si rovescia: dalla BMD alla morfologia vertebrale

Tradizionalmente, la diagnosi di osteoporosi nei bambini si basava su Z-score di BMD ≤−2. Tuttavia, il lavoro dimostra che questo approccio è insufficiente. In molti casi, i bambini affetti da osteoporosi clinicamente significativa presentano Z-score normali, soprattutto nei primi anni di vita, quando il DXA è difficile da eseguire con precisione. La nuova prospettiva propone la frattura (specie vertebrale) come criterio centrale, indipendente dalla densità ossea misurata.

L’importanza del contesto clinico

L’osteoporosi da GC non si manifesta in modo uniforme. L’evoluzione dipende da fattori chiave: durata e intensità dell’esposizione ai GC, età, malattia di base e potenziale residuo di crescita. I pazienti pediatrici si dividono in tre categorie prognostiche:

  1. Rischio transitorio (es. leucemia): esposizione intensa ma limitata nel tempo; alta probabilità di recupero spontaneo.

  2. Rischio variabile (es. artriti autoimmuni): andamento clinico instabile, con possibilità intermedie di guarigione.

  3. Rischio permanente (es. distrofia muscolare di Duchenne): esposizione cronica e progressiva, con necessità pressoché certa di trattamento farmacologico.

La crescita come fattore terapeutico

Un concetto centrale emerso dallo studio è il potenziale di “rimodellamento vertebrale mediato dalla crescita”: bambini molto piccoli, con malattia controllata e una buona riserva di crescita, possono rimodellare in modo completo vertebre fratturate senza bisogno di bisfosfonati. È il caso emblematico della prima paziente descritta nello studio, una bambina con artrite idiopatica sistemica, in grado di recuperare completamente la morfologia vertebrale con la sola sospensione dei GC e un buon controllo clinico.

Quando trattare (e come)

Se il potenziale di recupero è basso o la fragilità è avanzata, si rende necessaria la terapia farmacologica. I bisfosfonati per via endovenosa (pamidronato o zoledronato) sono oggi il gold standard. I risultati dello studio dimostrano:

  • Riduzione del dolore e miglioramento della qualità di vita;

  • Rimodellamento vertebrale in corso di terapia, con densificazione dell’endplate e ripristino dell’altezza vertebrale;

  • Incremento della densità minerale ossea in diversi distretti (LS, TBLH, femore).

Nel secondo caso esemplificativo (bambina con dermatomiosite giovanile), l’introduzione precoce di pamidronato ha permesso una normalizzazione completa della colonna vertebrale, anche dopo una recidiva della malattia.

I limiti del trattamento nei casi ad alto rischio

Nel terzo caso clinico, un bambino con distrofia muscolare di Duchenne, la terapia con zoledronato ha migliorato la BMD e risolto il dolore lombare, ma non ha impedito una progressione delle deformità vertebrali. Il fallimento parziale è attribuibile all’associazione tra miopatia, ritardo di crescita severo e trattamento steroideo cronico. L’assenza di crescita sufficiente rende inefficace la componente “rimodellante” del trattamento.

Verso nuove terapie?

Nonostante i buoni risultati dei bisfosfonati, emerge il bisogno di trattamenti più efficaci per i casi refrattari. Le future prospettive terapeutiche includono agenti anabolizzanti, in grado di stimolare direttamente la formazione ossea, attualmente in fase di studio per l’età pediatrica.

Conclusioni operative per lo specialista

  • Qualsiasi bambino in trattamento con GC per oltre 3 mesi deve essere monitorato con imaging vertebrale entro il primo anno.

  • Le fratture vertebrali, anche asintomatiche, sono criterio sufficiente per porre diagnosi di osteoporosi.

  • Nei pazienti con elevato potenziale di crescita e malattia ben controllata, si può considerare un approccio watchful waiting.

  • Nei casi ad alto rischio o con segni di progressione, è indicato iniziare tempestivamente bisfosfonati EV, monitorando attentamente il metabolismo minerale e la funzione renale.

  • Il trattamento deve proseguire finché permangono i fattori di rischio osteoporotico (es. GC, disabilità motoria, miopatie).

Questo nuovo modello di presa in carico, centrato sulla frattura vertebrale più che sulla densitometria, segna un cambiamento culturale profondo nella gestione della salute ossea pediatrica. Un cambio di paradigma che ogni specialista del metabolismo osseo è oggi chiamato a conoscere e applicare.

Lo studio

Leanne M Ward, Sarah A Bakhamis, Khaldoun Koujok, Approach to the Pediatric Patient With Glucocorticoid-Induced OsteoporosisThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 2, February 2025, Pages 572–591.

Artrite reumatoide e osteoporosi: un legame importante

L’artrite reumatoide è una malattia infiammatoria cronica che colpisce le articolazioni, ma può avere effetti anche sulla salute delle ossa. Le persone con artrite reumatoide hanno un rischio più elevato di sviluppare osteoporosi e fratture.

Il legame tra artrite e ossa

L’infiammazione cronica, tipica dell’artrite reumatoide, accelera il processo di perdita di massa ossea. Inoltre, i farmaci utilizzati per controllare l’artrite, come i cortisonici, possono indebolire ulteriormente le ossa.

Chi è più a rischio

Le donne in post-menopausa, chi ha familiarità con fratture e chi assume cortisonici a lungo termine sono particolarmente vulnerabili. Anche la ridotta attività fisica dovuta al dolore articolare contribuisce a rendere le ossa più fragili.

Segnali da non trascurare

Dolori alla schiena o alle anche, perdita di statura o fratture “banali” possono essere segnali di osteoporosi. È importante parlarne con il medico, soprattutto se si convive con l’artrite reumatoide.

Come proteggere le ossa

L’alimentazione ricca di calcio e vitamina D è fondamentale. Latte, yogurt, verdure a foglia verde e pesce azzurro sono ottimi alleati. Anche l’attività fisica dolce – come camminate, yoga o tai chi – aiuta a rinforzare le ossa e a migliorare la postura.

Il ruolo delle terapie

Il medico può valutare la necessità di farmaci specifici per l’osteoporosi, come i bisfosfonati o il denosumab, in aggiunta ai farmaci per l’artrite. È importante seguire un percorso personalizzato, basato sulle proprie esigenze e condizioni.

Conclusioni

L’artrite reumatoide non colpisce solo le articolazioni, ma può mettere a rischio anche la salute delle ossa. Con un’alimentazione equilibrata, l’attività fisica e le terapie adeguate, è possibile proteggere lo scheletro e vivere meglio.

La menopausa e le ossa: consigli pratici

La menopausa è una fase naturale della vita di ogni donna, ma comporta cambiamenti significativi nella salute delle ossa. Con la diminuzione degli estrogeni, le ossa diventano più fragili e aumenta il rischio di osteoporosi.

Il legame tra menopausa e ossa

Gli estrogeni hanno un ruolo fondamentale nel mantenere la densità minerale ossea. Durante la menopausa, il loro calo accelera la perdita di massa ossea, rendendo le ossa più vulnerabili a fratture e cedimenti.

Segnali da non sottovalutare

Dolori alla schiena, perdita di statura e cambiamenti nella postura possono essere segni di fragilità ossea. Anche in assenza di sintomi, è importante parlarne con il medico e valutare la densitometria ossea (MOC).

La dieta giusta per ossa forti

Un’alimentazione equilibrata, ricca di calcio e vitamina D, è essenziale. Il calcio si trova in latticini, verdure a foglia verde e legumi. La vitamina D, che facilita l’assorbimento del calcio, si assume con il sole e con alimenti come pesce azzurro e uova.

Muoversi fa bene alle ossa

L’attività fisica regolare, come camminate, ginnastica dolce o yoga, aiuta a stimolare il metabolismo osseo, migliorare l’equilibrio e la postura. Anche piccoli gesti quotidiani, come evitare di stare troppo sedute, fanno la differenza.

Parla con il tuo medico

Il medico può consigliare integratori o terapie farmacologiche, soprattutto in presenza di osteopenia o osteoporosi. Esistono farmaci specifici che aiutano a rallentare la perdita di massa ossea e a prevenire le fratture.

Conclusioni

La menopausa è un momento delicato per la salute delle ossa, ma con la giusta attenzione è possibile proteggersi. Alimentazione sana, attività fisica e controlli regolari sono le chiavi per vivere questa fase in modo sereno e attivo.

Sbloccare il potenziale dei biosimilari: implicazioni cliniche e gestionali nell’osteoporosi

L’osteoporosi è una delle principali cause di fragilità scheletrica, con oltre 8,9 milioni di fratture osteoporotiche stimate ogni anno a livello globale. La patologia, legata a un progressivo deterioramento della microarchitettura ossea, comporta costi sanitari diretti in Europa superiori ai 56 miliardi di euro e un impatto significativo sulla qualità di vita. In questo scenario, i farmaci biologici hanno dimostrato un ruolo fondamentale, ma la sostenibilità economica è diventata una sfida cruciale per i sistemi sanitari.

Biosimilari e gestione dell’osteoporosi

I biosimilari rappresentano un’opportunità per ampliare l’accesso alle terapie biologiche, riducendo i costi e favorendo l’adozione di trattamenti efficaci come il denosumab. Secondo IQVIA, l’introduzione dei biosimilari del denosumab, prevista dal 2025, potrà generare risparmi complessivi tra 309 milioni e 1,7 miliardi di euro in Europa entro il 2030. Questo potenziale economico potrebbe essere reinvestito in programmi di screening e prevenzione delle fratture, favorendo una gestione più proattiva dell’osteoporosi.

Percorsi di cura complessi: una sfida per l’adozione

L’adozione dei biosimilari nel trattamento dell’osteoporosi è strettamente legata alla complessità dei percorsi di cura. Oltre alla gestione farmacologica, il trattamento richiede un’integrazione tra diagnosi precoce, follow-up strumentale e personalizzazione delle terapie. Le figure coinvolte – medici di medicina generale, reumatologi, endocrinologi, ortopedici e ginecologi – hanno ruoli diversi, e la loro familiarità con i biosimilari risulta disomogenea. Il sondaggio IQVIA, condotto su 266 medici in 8 Paesi europei, evidenzia come solo il 5% dei medici di base si dichiari altamente consapevole dei biosimilari disponibili, a fronte di una maggiore esperienza tra reumatologi e ortopedici.

Barriere percepite e ruolo dei dati real-world

Il 33% dei clinici intervistati lamenta una mancanza di esperienza diretta con i biosimilari, mentre la carenza di linee guida aggiornate e la scarsità di dati real-world rappresentano ulteriori ostacoli alla loro adozione. In particolare, la mancanza di studi post-marketing mirati ai pazienti osteoporotici genera incertezza, soprattutto nelle figure mediche che hanno minore esperienza con i farmaci biologici.

Strategie proposte: reti di collaborazione e gainsharing

Il report IQVIA propone una serie di interventi per favorire un uptake sostenibile dei biosimilari:

  • Aggiornamento delle linee guida cliniche post-approvazione EMA, con raccomandazioni chiare sull’intercambiabilità e l’uso dei biosimilari nel trattamento dell’osteoporosi.
  • Creazione di reti europee di scambio di buone pratiche, con webinar e formazione continua dedicati agli specialisti.
  • Sviluppo di programmi di gainsharing, dove i risparmi generati dall’adozione dei biosimilari vengono reinvestiti in attività di prevenzione, diagnostica e gestione delle fratture.
  • Implementazione di studi real-world per rassicurare i clinici sulla comparabilità in termini di efficacia e sicurezza.

Implicazioni cliniche: un’opportunità per la gestione dell’osteoporosi

L’adozione dei biosimilari offre la possibilità di ampliare l’uso dei farmaci biologici anche in pazienti a rischio elevato ma finora esclusi per motivi economici. Inoltre, la maggiore disponibilità di trattamenti biologici può favorire strategie di trattamento precoce e personalizzato, migliorando gli esiti clinici e riducendo l’incidenza di fratture da fragilità.

Il report IQVIA fornisce un quadro dettagliato delle sfide e delle opportunità connesse all’introduzione dei biosimilari nel trattamento dell’osteoporosi. Per gli specialisti del metabolismo osseo, l’adozione di questi farmaci rappresenta un’occasione per ottimizzare i percorsi di cura, contribuendo al contempo alla sostenibilità economica del sistema. L’integrazione di dati real-world, la formazione clinica mirata e la collaborazione multi-stakeholder saranno fondamentali per tradurre questo potenziale in benefici concreti per i pazienti.

Vitamina D e omega-3 non migliorano le performance fisiche negli anziani sani

Il declino della funzione muscolare in età avanzata è un predittore noto di cadute, fratture, disabilità e mortalità precoce. Di qui l’interesse per strategie preventive, tra cui la supplementazione con vitamina D e omega-3, che secondo numerosi studi osservazionali mostrano associazioni positive con la salute muscolo-scheletrica. Tuttavia, l’evidenza da trial randomizzati controllati (RCT) rimane controversa.

Lo studio ancillare del VITamin D and OmegA-3 TriaL (VITAL) — recentemente pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism — ha cercato di colmare questo vuoto conoscitivo. Il trial, condotto su una coorte di 1054 partecipanti residenti nell’area di Boston e arruolati nello studio madre VITAL, ha valutato l’effetto di due anni di supplementazione quotidiana con vitamina D3 (2000 UI) e/o acidi grassi omega-3 (1 g) su parametri oggettivi di performance fisica.

Metodo e popolazione

I partecipanti erano uomini ≥50 anni e donne ≥55 anni, senza storia di patologie oncologiche o cardiovascolari. I parametri analizzati includevano forza di prensione, velocità del cammino (normale e veloce), equilibrio statico, test di risalita dalla sedia e Timed-Up and Go (TUG). Tutti i test sono stati eseguiti al baseline e a due anni.

Il disegno era a 2×2 fattoriale, con randomizzazione doppio cieco. Le analisi statistiche hanno considerato le variazioni nei punteggi in un’ottica intention-to-treat, con aggiustamenti per età e sesso.

Risultati principali

Dopo due anni, tutti i gruppi (vitamina D, omega-3, combinazione e placebo) hanno mostrato un lieve peggioramento della velocità del cammino e dei tempi TUG, in linea con un fisiologico declino legato all’età. Tuttavia, non è stata osservata alcuna differenza significativa tra i gruppi trattati e quelli placebo in nessuno degli endpoint primari: forza di prensione, velocità del cammino, equilibrio statico, test TUG e punteggio SPPB.

Unica eccezione marginale: nei partecipanti con livelli basali di vitamina D più alti, la supplementazione ha peggiorato lievemente i tempi TUG (P per interazione = 0,04). Un dato che, secondo gli autori, potrebbe riflettere un falso positivo dovuto alla molteplicità dei confronti.

Interpretazione e limiti

I risultati vanno interpretati nel contesto di una popolazione relativamente sana, con pochi soggetti fragili o carenti. Il livello medio di 25(OH)D al baseline era di 28,1 ng/mL, sufficiente nella maggior parte dei casi. Inoltre, circa il 45% dei partecipanti assumeva già vitamina D in forma personale (≤800 UI/die), riducendo il contrasto tra gruppi.

Lo studio si distingue per l’elevato numero di partecipanti, l’aderenza al trattamento e la qualità delle misure. Tuttavia, non tutti i partecipanti hanno completato l’intero set di test funzionali, e i test TUG e SPPB sono stati introdotti solo in una fase successiva.

Conclusioni cliniche

Nel complesso, i risultati non supportano l’uso di vitamina D o omega-3 per il miglioramento delle performance fisiche in adulti sani di mezza età o anziani non selezionati per fragilità o ipovitaminosi D. Il messaggio è chiaro: in assenza di carenze diagnosticate o condizioni cliniche specifiche, l’integrazione di vitamina D o omega-3 non offre vantaggi misurabili in termini di funzione muscolare.

Per la salute ossea e muscolare dell’anziano, l’identificazione precoce della sarcopenia, l’ottimizzazione del profilo nutrizionale e l’attività fisica personalizzata rimangono i pilastri di una strategia efficace.

Lo studio

Sharon H Chou, Nancy R Cook, Gregory Kotler, Eunjung Kim, Trisha Copeland, I Min Lee, Peggy M Cawthon, Julie E Buring, JoAnn E Manson, Meryl S LeBoff, Effects of Supplemental Vitamin D3, Omega-3 Fatty Acids on Physical Performance Measures in the VITamin D and OmegA-3 TriaLThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 1, January 2025, Pages e44–e5.

Le fratture vertebrali: come riconoscerle e curarle

Le fratture vertebrali rappresentano una delle principali complicanze dell’osteoporosi e colpiscono spesso le donne dopo la menopausa, ma possono verificarsi anche in altre situazioni. Riconoscerle e curarle in tempo è fondamentale per evitare conseguenze sulla postura e sulla qualità di vita.

Cos’è la frattura vertebrale

Si parla di frattura vertebrale quando una delle vertebre della colonna si schiaccia o si deforma, spesso a seguito di un trauma lieve o di un carico eccessivo. Può interessare una sola vertebra o più di una, con un impatto significativo sulla statura e sulla curvatura del dorso.

Come riconoscerla

I sintomi più comuni sono dolore alla schiena improvviso e persistente, difficoltà a mantenere la postura eretta e riduzione dell’altezza. A volte il dolore può essere scambiato per un semplice mal di schiena o per affaticamento muscolare, ma se persiste è importante parlarne con il medico.

Diagnosi e esami

La diagnosi si basa sulla radiografia della colonna, che permette di visualizzare eventuali cedimenti vertebrali. In alcuni casi può essere utile una risonanza magnetica per valutare meglio la situazione. La densitometria ossea (MOC) aiuta a capire se la frattura è legata all’osteoporosi.

Come si cura

La terapia varia in base alla gravità della frattura e alla condizione generale del paziente. In molti casi si utilizzano busti o corsetti ortopedici per sostenere la colonna e ridurre il dolore. La fisioterapia è fondamentale per rinforzare la muscolatura e migliorare la postura.

Il ruolo della terapia farmacologica

Quando la frattura è legata all’osteoporosi, è importante trattare anche la causa sottostante. Farmaci come i bisfosfonati, il denosumab o le terapie anabolizzanti possono aiutare a rinforzare l’osso e prevenire nuove fratture.

Conclusioni

Le fratture vertebrali non devono essere sottovalutate. Riconoscere i sintomi, fare gli esami giusti e seguire una terapia adeguata significa proteggere la schiena e la propria autonomia. Parla con il tuo medico per un percorso di cura personalizzato e sicuro.

Ipoparatiroidismo e salute delle ossa

L’ipoparatiroidismo è una malattia rara che colpisce le ghiandole paratiroidi, responsabili della produzione dell’ormone paratormone (PTH). Questo ormone regola i livelli di calcio e fosforo nel sangue, fondamentali per la salute delle ossa.

Cos’è l’ipoparatiroidismo

Quando le paratiroidi non funzionano correttamente o sono state rimosse chirurgicamente (ad esempio dopo un intervento alla tiroide), si verifica una carenza di PTH. Senza il PTH, i livelli di calcio nel sangue si abbassano (ipocalcemia) e aumenta il fosforo (iperfosfatemia). Questo squilibrio può avere effetti importanti su muscoli, nervi e ossa.

Sintomi e segnali

I sintomi dell’ipoparatiroidismo sono legati principalmente all’ipocalcemia e possono includere formicolii, crampi muscolari, spasmi (tetania), ansia e, nei casi più gravi, convulsioni. Sul lungo termine, anche la salute delle ossa può essere compromessa, con un aumento del rischio di fragilità e fratture.

Come si diagnostica

La diagnosi si basa su esami del sangue che rilevano bassi livelli di calcio e PTH e alti livelli di fosforo. Nei casi cronici, il medico può prescrivere anche la densitometria ossea (MOC) per valutare la salute dello scheletro e monitorare eventuali segni di osteoporosi.

Le cure disponibili

Il trattamento si basa su integratori di calcio e vitamina D attiva (calcitriolo) per mantenere i livelli di calcio nel sangue nella norma. In casi particolari, si può ricorrere alla terapia sostitutiva con PTH ricombinante, un farmaco che “mima” l’azione dell’ormone mancante e migliora la salute delle ossa e dei tessuti.

L’importanza del monitoraggio

Chi soffre di ipoparatiroidismo deve seguire controlli regolari con il medico per tenere sotto controllo i livelli di calcio e fosforo e per valutare la salute delle ossa. Una dieta ricca di calcio e un’adeguata esposizione al sole possono essere utili, ma vanno sempre integrate con la terapia personalizzata prescritta dal medico.

Conclusioni

L’ipoparatiroidismo è una condizione rara, ma gestibile grazie a cure mirate e controlli periodici. Conoscere la malattia e collaborare attivamente con i professionisti della salute aiuta a mantenere un buon equilibrio e a prevenire complicanze per lo scheletro e la qualità di vita.

Osteopenia: cos’è e come si previene

L’osteopenia è una condizione caratterizzata da una riduzione della densità minerale ossea che, pur non rappresentando ancora un’osteoporosi, è un segnale importante da non sottovalutare. Il termine “osteopenia” significa letteralmente “osso poco denso” e indica uno stato intermedio tra la normalità e l’osteoporosi conclamata.

Cos’è l’osteopenia

L’osteopenia si diagnostica con la densitometria ossea (MOC), un esame che misura la densità minerale dello scheletro. Si parla di osteopenia quando il valore di T-score si colloca tra -1 e -2,5. Sotto questa soglia si parla invece di osteoporosi. È quindi un campanello d’allarme che invita a rivedere lo stile di vita e a valutare eventuali interventi con il medico.

Fattori di rischio

I fattori di rischio per l’osteopenia sono gli stessi dell’osteoporosi: l’età avanzata, la menopausa precoce, la familiarità per fratture, una dieta povera di calcio e vitamina D, il fumo e la sedentarietà. Anche alcune malattie croniche e l’uso prolungato di farmaci come i cortisonici possono favorire questa condizione.

Come riconoscerla

L’osteopenia di solito non dà sintomi: per questo è importante sottoporsi a controlli, soprattutto se si hanno fattori di rischio. La perdita di statura o dolori alla schiena possono comparire solo in fase avanzata, quando le fratture da fragilità sono già presenti.

Prevenzione e stile di vita

La prevenzione è fondamentale. Una dieta equilibrata e ricca di calcio (latticini, verdure a foglia verde, legumi) e vitamina D (pesce azzurro, uova, esposizione al sole) aiuta a proteggere le ossa. L’attività fisica regolare – anche solo camminate quotidiane – stimola il metabolismo osseo e migliora l’equilibrio, riducendo il rischio di cadute.

Il ruolo del medico

In caso di osteopenia diagnosticata, il medico può consigliare un monitoraggio più frequente e, in base ai fattori di rischio, anche una terapia preventiva. L’alleanza medico-paziente è fondamentale per mantenere ossa forti e prevenire l’evoluzione verso l’osteoporosi.

Conclusioni

L’osteopenia non deve spaventare, ma deve essere uno stimolo a prendersi cura delle proprie ossa. Piccoli gesti quotidiani e controlli regolari possono fare una grande differenza per la salute scheletrica e la qualità della vita.

Gestione a lungo termine dell’ipotiroidismo congenito in sede

L’ipotiroidismo congenito (CH) rappresenta la più comune patologia endocrina dell’età pediatrica e richiede un intervento tempestivo per evitare ritardi nello sviluppo fisico e cognitivo. Tuttavia, la durata a lungo termine della terapia sostitutiva con L-tiroxina (LT4) nei bambini con CH e una tiroide di dimensioni e sede normali (ghiandola in sede, GIS) è sempre stata un tema controverso. Uno studio retrospettivo del Centro di Endocrinologia dell’Università di Pisa fornisce ora nuove evidenze, invitando a un approccio più personalizzato nella gestione di questi pazienti.

Rivalutare l’evoluzione clinica del CH con GIS

Lo studio ha preso in esame 77 pazienti con CH confermato e GIS, diagnosticati attraverso lo screening neonatale italiano. Sono stati esclusi i casi con disgenesia tiroidea o anomalie cromosomiche, concentrandosi esclusivamente su bambini con tiroide normodimensionata e normolocalizzata. Tutti i pazienti hanno iniziato la terapia sostitutiva con LT4 entro il primo mese di vita.

Dopo i tre anni di età, 55 di questi bambini sono stati sottoposti a un trial di sospensione di LT4 della durata di quattro settimane, seguito da una rivalutazione completa: profilo ormonale, ecografia tiroidea e, dove possibile, test di scarico del perclorato con scintigrafia al radioiodio. Nei controlli successivi, sono stati raccolti ulteriori dati sul profilo tiroideo, permettendo di monitorare nel tempo la stabilità della funzione tiroidea.

Principali risultati e implicazioni cliniche

Tra i 55 pazienti rivalutati dopo la sospensione della terapia, 18 (33%) hanno mantenuto una funzione tiroidea normale (eutiroidismo) senza necessità di LT4. Tuttavia, questo equilibrio non è stato sempre stabile: durante un follow-up mediano di sei anni, alcuni di questi bambini hanno sviluppato un’ipotiroidismo biochimico che ha richiesto la ripresa della terapia.

Complessivamente, il 49% dei pazienti ha potuto sospendere in modo definitivo la terapia, mentre il restante 51% ha continuato a necessitarla. Sorprendentemente, parametri neonatali come i livelli iniziali di TSH o le caratteristiche alla nascita non si sono dimostrati predittivi della permanenza o della transitorietà dell’ipotiroidismo.

Lo studio ha anche evidenziato come i difetti parziali e totali nell’organificazione dello iodio (rispettivamente PIOD e TIOD), rilevati con il test di scarico del perclorato, abbiano un ruolo differenziato nella prognosi: il TIOD è risultato sempre associato a CH permanente, mentre i casi di PIOD hanno mostrato una variabilità significativa.

Il dosaggio di LT4 come marcatore di ipotiroidismo permanente

Un elemento predittivo importante emerso dallo studio riguarda la dose di LT4 necessaria prima dell’ultimo tentativo di sospensione: i bambini con CH permanente richiedevano dosi più elevate (1,58 µg/kg/die) rispetto a quelli con CH transitorio (1,2 µg/kg/die). Questo suggerisce che un fabbisogno ormonale più alto potrebbe riflettere una maggiore probabilità di dover proseguire la terapia a lungo termine.

Nessun ruolo predittivo chiaro per i parametri neonatali

Nonostante le ipotesi iniziali, fattori come età gestazionale, peso alla nascita e anche i valori di TSH neonatali non si sono rivelati utili per prevedere l’evoluzione del quadro clinico. Persino i bambini con TSH neonatale relativamente basso (sotto i 20 mIU/L) hanno mostrato un ampio spettro di evoluzioni, confermando la necessità di valutazioni periodiche piuttosto che basarsi solo sui dati iniziali.

Strategie per una gestione a lungo termine

Questi risultati indicano che, nei bambini con CH e GIS, la funzione tiroidea iniziale e la risposta alla terapia non bastano per una valutazione definitiva. Alcuni bambini considerati transitoriamente eutiroidi hanno sviluppato ipotiroidismo nel tempo, mentre altri con ipertirotropinemia lieve hanno normalizzato spontaneamente la funzione.

Per i clinici, lo studio raccomanda un approccio dinamico alla gestione terapeutica: sospendere la terapia sostitutiva intorno ai 3 anni di età e proseguire con un follow-up regolare. Questa strategia consente di evitare un eccesso di trattamento nei casi transitori, ma anche di intervenire tempestivamente in quelli in cui la funzione tiroidea tende a peggiorare.

Prospettive future e riflessioni

Le conclusioni dello studio supportano le linee guida internazionali che consigliano rivalutazioni periodiche nei bambini con CH e ghiandola in sede. Tuttavia, evidenziano anche la necessità di protocolli standardizzati per il follow-up e la mancanza di marcatori affidabili per prevedere la permanenza dell’ipotiroidismo.

Il messaggio chiave per i professionisti della salute ossea e pediatrica è che, in circa la metà dei casi, i bambini con CH e GIS possono evitare la terapia a vita—un aspetto rassicurante per famiglie e pazienti. Tuttavia, la vigilanza clinica resta fondamentale, poiché la funzione tiroidea può cambiare anche dopo anni di apparente stabilità.

Lo studio

Luisa Pignata, Brunella Bagattini, Caterina Di Cosmo, Patrizia Agretti, Giuseppina De Marco, Eleonora Ferrarini, Lucia Montanelli, Massimo Tonacchera, Clinical Course of Congenital Hypothyroidism With Gland In Situ and Necessity of L-Thyroxine Therapy After Re-evaluationThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 5, May 2025, Pages 1258–1265.

PM2.5 e vitamina D in gravidanza, quali effetti sulla salute ossea?

La vitamina D è una molecola essenziale per la salute scheletrica e lo sviluppo dell’organismo. Durante la gravidanza, la sua importanza si amplifica, poiché un adeguato apporto di vitamina D contribuisce alla mineralizzazione ossea del feto e alla prevenzione di complicanze materne come il diabete gestazionale, la preeclampsia e il parto pretermine. Livelli subottimali di 25-idrossivitamina D (25(OH)D) – la forma circolante della vitamina – sono stati associati, infatti, a esiti sfavorevoli sia per la madre sia per il bambino, tra cui obesità, asma, autismo e disturbi neuropsichici nell’infanzia.

Ma cosa accade quando l’aria che respiriamo durante la gravidanza è inquinata? Un’ampia meta-analisi condotta su cinque coorti di nascita (Olanda, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti), recentemente pubblicata sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha esplorato questa domanda cruciale. Lo studio ha incluso i dati di 15.935 donne in gravidanza, indagando l’esposizione a inquinanti atmosferici come il particolato fine (PM2.5) e gli ossidi di azoto (NO2 e NOx), e i livelli di vitamina D misurati nel primo o secondo trimestre di gravidanza.

I risultati principali: il ruolo del PM2.5

L’analisi ha rivelato un’associazione significativa tra l’esposizione al PM2.5 e un rischio aumentato di avere livelli subottimali di vitamina D (<20 ng/mL). In particolare, per ogni incremento di 5 μg/m³ di PM2.5, il rischio di carenza di vitamina D aumentava del 43% (odds ratio 1,43; intervallo di confidenza al 95%: 1,02-1,99). Non sono state invece osservate associazioni significative con altri inquinanti, sebbene le stime degli odds ratio per NO2 e PM10 rimanessero superiori a 1 in tutte le coorti.

La scoperta più rilevante dello studio è che questi effetti si manifestano anche a livelli di inquinamento tipici dell’Europa e degli Stati Uniti, molto inferiori rispetto a quelli di precedenti studi condotti in Cina. Questo suggerisce che, anche in ambienti con standard di qualità dell’aria più elevati, il particolato fine può comunque compromettere la produzione cutanea e la biodisponibilità della vitamina D.

Meccanismi ipotizzati: una catena di eventi

Il legame tra esposizione al PM2.5 e riduzione dei livelli di vitamina D si basa su più meccanismi biologici e ambientali. Innanzitutto, le particelle sospese nell’aria possono schermare i raggi ultravioletti B (UVB), fondamentali per la sintesi cutanea della vitamina D. Ma c’è di più: i metalli pesanti e i composti tossici presenti nel particolato possono interferire direttamente con il metabolismo della vitamina D, inibendo gli enzimi responsabili della sua conversione nella forma attiva e riducendo l’assorbimento intestinale.

I limiti dello studio e le prospettive future

Lo studio si distingue per l’ampiezza del campione e la rigorosità dei metodi statistici utilizzati. Tuttavia, gli autori riconoscono alcune limitazioni: l’esposizione all’inquinamento è stata stimata solo in base all’indirizzo di residenza, senza considerare il tempo trascorso fuori casa. Inoltre, non sono state incluse variabili come la pigmentazione cutanea o l’assunzione di integratori di vitamina D, che potrebbero aver agito come fattori confondenti residui.

Un altro punto critico è la variabilità nella composizione del particolato fine tra le diverse aree geografiche. Il PM2.5 può derivare da fonti differenti (traffico, industria, combustione di biomasse), con potenziali differenze nella tossicità e negli effetti biologici. Non a caso, lo studio ha riscontrato una certa eterogeneità nei risultati tra le coorti analizzate.

Implicazioni cliniche e sanitarie

Alla luce di questi dati, emerge un messaggio chiaro: la riduzione dell’esposizione al PM2.5 durante la gravidanza dovrebbe essere una priorità per la salute pubblica. Livelli subottimali di vitamina D possono avere effetti a lungo termine sullo sviluppo scheletrico e metabolico del bambino e aumentare la vulnerabilità materna a complicanze ostetriche.

Per i clinici e gli operatori sanitari, queste evidenze sollecitano una maggiore attenzione al monitoraggio dei livelli di vitamina D nelle donne in gravidanza, soprattutto in aree urbane ad alta densità di traffico. L’integrazione mirata di vitamina D e la promozione di comportamenti salutari (ad esempio, l’esposizione solare controllata in contesti meno inquinati) potrebbero rappresentare strategie preventive efficaci.

Quali conclusioni?

Questo studio rappresenta un passo avanti nella comprensione dell’impatto dell’inquinamento atmosferico sui determinanti biologici della salute materna e fetale. Mentre la ricerca prosegue per chiarire i meccanismi di azione e le possibili strategie di mitigazione, una cosa è certa: respirare aria più pulita non è solo una questione ambientale, ma una priorità per la salute delle generazioni future.

Lo studio

Anne-Claire Binter, Akhgar Ghassabian, Runyu Zou, Hanan El Marroun, Aitana Lertxundi, Karen M Switkowski, Marisa Estarlich, Ana Cristina Rodríguez-Dehli, Ana Esplugues, Tanja Vrijkotte, Jordi Sunyer, Loreto Santa-Marina, Ana Fernández-Somoano, Kinga Polanska, Rosemary R C McEachan, Emily Oken, Henning Tiemeier, Mònica Guxens, Associations of Gestational Exposure to Air Pollution With Maternal Vitamin D Levels: A Meta-AnalysisThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 110, Issue 5, May 2025, Pages 1410–1418.