giovedì, Dicembre 12, 2024
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Aspetti endocrini delle malattie neuromuscolari

L’approccio diagnostico e terapeutico alle malattie neuromuscolari chiede al clinico di valutare diverse condizioni di malattie che vanno oltre il quadro neuromuscolare specifico che ha portato il paziente all’osservazione del neurologo. Tra gli aspetti extraneurologici sono particolarmente frequenti le alterazioni endocrino-metaboliche, che sono in alcuni casi determinate dalle alterazioni genetiche che causano la malattia neuromuscolare come nelle distrofie miotoniche tipo 1 e tipo 2, in cui frequente e spesso precoce è la comparsa di infertilità e ipogonadismo. Inoltre gli studi più recenti dimostrano che il muscolo è caratterizzato da una funzione endocrina, mediata dal rilascio di miokine, la cui integrità è fondamentale per l’omeostasi di altri metabolismi, come quello osseo e quello glucidico. In questa presentazione si illustrano le acquisizioni più recenti relative a tali aspetti nelle più comuni patologie neuromuscolari.



Ipoparatiroidismo: dalla diagnosi alla terapia

L’ipoparatiroidismo cronico è una condizione caratterizzata da una ridotta o assente secrezione di paratormone, con conseguente ipocalcemia e sintomi ad essa correlati. La terapia si basa sull’assunzione di calcio e forma attiva della vitamina D e, in un prossimo. Futuro, del paratormone umano ricombinante che rappresenta l’ultima terapia sostitutiva delle insufficienze ghiandolari endocrine, in Italia ancora mancante.

Presentiamo una completa disamina della patologia dall’epidemiologia, alla distinzione tra la forma primaria e quella secondaria, per arrivare alla corretta diagnosi. La presentazione di casi clinici aiuta a comprendere come il goal sia quello di mantenere il paziente asintomatico nel tempo con l’impostazione della corretta terapia.


Osso e muscolo: effetti dell’ipovitaminosi D

Approccio multidisciplinare alla gestione del paziente osteoporotico sarcopenico


Terapia sostitutiva con testosterone e BMD nei sopravvissuti a tumore testicolare

Il tumore testicolare è una neoplasia con alta incidenza nei giovani uomini e un tasso di sopravvivenza superiore al 95% grazie ai progressi terapeutici. Tuttavia, i trattamenti possono causare effetti collaterali tardivi, inclusa una ridotta produzione di testosterone. L’insufficienza lieve delle cellule di Leydig, caratterizzata da livelli elevati di ormone luteinizzante (LH) e testosterone basso, è associata a una densità minerale ossea compromessa e a un metabolismo alterato.

Questo studio randomizzato e controllato ha investigato se 12 mesi di terapia sostitutiva con testosterone (TRT) possano migliorare la BMD e i marcatori di turnover osseo nei sopravvissuti a tumore testicolare.

Metodologia

Lo studio ha incluso 69 pazienti con insufficienza lieve delle cellule di Leydig, randomizzati a ricevere TRT (gel al 2% applicato transdermicamente fino a una dose massima giornaliera di 40 mg) o placebo. La BMD è stata misurata con assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA) al corpo intero, colonna lombare e collo femorale, mentre i marcatori di turnover osseo, P1NP e CTX, sono stati analizzati su campioni di siero.

Le valutazioni sono state effettuate al basale, dopo 6 e 12 mesi di trattamento, e a 3 mesi dalla sua conclusione. Modelli lineari a effetti misti sono stati utilizzati per analizzare i cambiamenti.

Risultati

Dopo 12 mesi di trattamento:

  • Densità Minerale Ossea (BMD): Non sono state osservate differenze significative tra il gruppo TRT e il placebo in nessuna delle sedi misurate. Ad esempio, la variazione della BMD totale era di 0,01 g/cm² (IC 95%: -0,01-0,02).
  • Marcatori di Turnover Osseo: Il P1NP ha mostrato un aumento lieve ma statisticamente significativo nel gruppo TRT (+11,65 µg/L, IC 95%: 3,96-19,35). Non sono state rilevate variazioni nel CTX.
  • Tollerabilità: La TRT è stata ben tollerata, senza eventi avversi gravi correlati al trattamento.

Discussione

I risultati indicano che 12 mesi di TRT non sono sufficienti per indurre cambiamenti significativi nella BMD. Sebbene l’aumento del P1NP suggerisca una possibile attivazione del turnover osseo, il cambiamento non ha rilevanza clinica. Studi precedenti su uomini non oncologici con ipogonadismo hanno evidenziato miglioramenti della BMD solo dopo trattamenti più prolungati.

Un altro limite dello studio è stato il range quasi normale dei livelli basali di testosterone nei partecipanti, che potrebbe aver ridotto il potenziale beneficio della TRT. Inoltre, la BMD di base era generalmente nella norma, limitando la capacità di osservare miglioramenti significativi.

Conclusioni

La terapia sostitutiva con testosterone per 12 mesi non ha migliorato significativamente la densità minerale ossea nei sopravvissuti a tumore testicolare con insufficienza lieve delle cellule di Leydig. Questo trattamento non dovrebbe essere considerato standard per la salute ossea in questi pazienti. Studi futuri dovrebbero indagare trattamenti di durata più lunga e identificare sottogruppi di pazienti a maggior rischio di osteoporosi.

Lo studio

Jørgensen, P. L., Kreiberg, M., Jørgensen, N., Juul, A., Oturai, P. S., Dehlendorff, C., … Bandak, M. (2023). Effect of 12-months testosterone replacement therapy on bone mineral density and markers of bone turnover in testicular cancer survivors – results from a randomized double-blind trialActa Oncologica62(7), 689–695.

Romosozumab, valutazione del rischio cardiovascolare nei pazienti con osteoporosi

Con l’approvazione di Romosozumab per il trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa, emerge la necessità di un’attenta valutazione del rischio cardiovascolare. Sebbene il farmaco abbia dimostrato un’efficacia superiore nella riduzione delle fratture rispetto all’Alendronato, come evidenziato dallo studio ARCH, i dati clinici sollevano preoccupazioni circa il rischio di eventi cardiovascolari gravi.

Romosozumab: tra efficacia e rischio

Romosozumab, un inibitore della sclerostina con un doppio meccanismo anabolico e anti-riassorbitivo, ha mostrato una riduzione del 48% del rischio di fratture vertebrali in un periodo di 24 mesi. Tuttavia, lo stesso studio ha rilevato un aumento significativo di eventi cardiovascolari seri. Sebbene altri studi con placebo non abbiano replicato questi risultati, una meta-analisi ha confermato un rischio maggiore, supportato anche da studi genetici che collegano l’inibizione della sclerostina a un incremento del rischio di infarto miocardico.

Metodi

Gli strumenti di valutazione del rischio cardiovascolare, come il QRISK3 e l’ESC SCORE, sono stati al centro di uno studio real-world condotto nel Sud-Ovest dell’Inghilterra. Questo progetto, durato sei mesi, ha analizzato il rischio cardiovascolare decennale di 41 pazienti candidati a Romosozumab.

Risultati principali:

  • QRISK3: Fornisce un rischio medio del 15,9%, significativamente superiore rispetto all’8,2% dell’ESC SCORE.
  • Differenze di calcolo: QRISK3 sovrastima il rischio nei pazienti più anziani, mentre l’ESC SCORE potrebbe sottovalutarlo, ignorando fattori come il diabete.
  • Decisioni cliniche: Nonostante i rischi cardiovascolari, il 95% dei pazienti è stato trattato con Romosozumab, a causa dell’elevato rischio di fratture.

Conclusioni

Lo studio, pubblicato ad ottobre 2024, evidenzia che i due strumenti di valutazione non sono intercambiabili e sottolinea l’importanza di una stratificazione personalizzata del rischio cardiovascolare. La scelta dell’ESC SCORE da parte del gruppo di ricerca locale riflette la necessità di un approccio pragmatico, ma ulteriori studi sono essenziali per creare linee guida condivise.

Prospettive future

Con la crescente adozione di Romosozumab, è fondamentale integrare la valutazione del rischio cardiovascolare nella pratica clinica per ottimizzare i benefici del trattamento e minimizzare i potenziali rischi.

Lo studio 

F. Macrae, E.M. Clark, K. Walsh, S.-J. Bailey, M. Roy, S. Hardcastle, C. Cockill, J.H. Tobias, B.G. Faber, Cardiovascular risk assessment for osteoporosis patients considering Romosozumab, Bone, Volume 190, 2025, 117305, ISSN 8756-3282.

Antidepressivi e salute ossea: un legame critico tra depressione, farmaci e osteoporosi

L’osteoporosi rappresenta una delle principali sfide di salute pubblica, con un’incidenza significativa nelle donne adulte. La depressione, a sua volta, è una delle condizioni psichiatriche più comuni, trattata frequentemente con antidepressivi.

Un’analisi su oltre vent’anni di dati del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) ha rivelato una correlazione significativa tra l’uso di antidepressivi e il rischio di osteoporosi e fratture. In particolar modo, lo studio, condotto su una vasta popolazione femminile negli Stati Uniti, indaga il possibile legame tra uso di antidepressivi e riduzione della densità minerale ossea (BMD), evidenziando i rischi associati a specifiche classi di farmaci.

Metodologia

L’analisi, basata su dati di dieci coorti NHANES (1999–2020), ha incluso oltre 30.000 donne adulte. Sono state raccolte informazioni dettagliate su utilizzo di antidepressivi, BMD e fratture, controllando variabili come età, attività fisica e comorbidità. Sono stati considerati i principali farmaci antidepressivi: SSRI, SNRI, triciclici, fenilpiperazine e antidepressivi “miscellanei”.

Risultati principali

  1. Aumento del rischio di osteoporosi:
    Le donne che assumevano antidepressivi avevano il 44% di probabilità in più di sviluppare osteoporosi rispetto a chi non li utilizzava. Le fenilpiperazine hanno mostrato l’associazione più forte, seguite dagli antidepressivi miscellanei e triciclici.
  2. Durata e numero di farmaci:
    L’aumento del rischio era proporzionale alla durata e al numero di antidepressivi assunti. Ogni anno di utilizzo incrementava il rischio del 6%.
  3. Fratture:
    Gli utenti di antidepressivi presentavano un rischio di fratture superiore del 62%. Anche in questo caso, fenilpiperazine e antidepressivi miscellanei erano associati al rischio maggiore.

Discussione

I risultati confermano che gli antidepressivi, pur essendo fondamentali nel trattamento della depressione, possono avere un impatto negativo sulla salute ossea. Tra i meccanismi ipotizzati vi sono l’interferenza con i recettori serotoninergici e dopaminergici e l’effetto negativo sulla proliferazione delle cellule ossee. Questo impone una maggiore attenzione clinica, soprattutto per donne in post-menopausa, già vulnerabili a causa della riduzione degli estrogeni.

Conclusioni

Questo studio sottolinea la necessità di bilanciare i benefici degli antidepressivi con i loro potenziali effetti avversi sulla salute ossea. Lo studio, esplorando le implicazioni di diverse classi di antidepressivi sulla salute ossea, sottolinea la necessità di un approccio clinico più attento nella prescrizione di farmaci a pazienti con depressione e rischio di osteoporosi: i medici dovrebbero valutare attentamente il rischio di osteoporosi e fratture nei pazienti depressi, adattando le terapie in base alle specifiche necessità cliniche. È urgente, quindi, includere raccomandazioni sull’uso degli antidepressivi nei protocolli per la gestione dell’osteoporosi.

Lo studio

Humam Emad Rajha, Reem Abdelaal, Khouloud Charfi, Aisha O. Alemadi, Alyaa S. Al-Sheraim, Mubarak A. Al-Maadid, Youssef Louati, Suhail Doi, Salma M. Khaled,
Examining depression, antidepressants use, and class and their potential associations with osteoporosis and fractures in adult women: Results from ten NHANES cohorts,
Journal of Affective Disorders, Volume 369, 2025, Pages 1223-1232, ISSN 0165-0327.

Metformina, quale effetto sulla BMD nelle donne con diabete di tipo 2?

Le donne con diabete di tipo 2 hanno una densità minerale ossea (BMD) più elevata, sperimentano una perdita di BMD più lenta, ma hanno un rischio maggiore di fratture. Questo effetto paradossale potrebbe essere spiegato dagli effetti avversi del T2D sulla qualità ossea e dall’aumento del rischio di cadute.

Precedenti studi, non fanno chiarezza sull’impatto dei farmaci per il T2D, che rimane attualmente controverso: come dimostrato da altri studi, i tiazolidinedioni, difatti, hanno un impatto negativo sulla densità minerale ossea e l’aggiunta di tiazolidinedioni alla metformina è stata associata a un peggioramento della BMD in un’analisi di sottogruppi RCT.

Partendo da queste considerazioni, lo studio ha voluto esaminare i cambiamenti longitudinali nella BMD tra le donne di mezza età che iniziano la metformina.

Metodologia

Sono stati valutati i partecipanti allo Study of Women’s Health Across the Nation (SWAN), una coorte statunitense diversificata basata su comunità, con misurazioni della BMD. La corrispondenza del punteggio di propensione ha aiutato a bilanciare le caratteristiche di base degli iniziatori della metformina rispetto ai non iniziatori. La regressione del modello misto ha testato la variazione della BMD tra i gruppi. I 248 soggetti, equamente divisi tra donne che avevano iniziato la metformina e donne non iniziatrici, avevano in media 57,4 anni. 

Risultati

La BMD al basale era leggermente più alta negli utilizzatori di metformina in tutti i siti anatomici rispetto ai non utilizzatori.
L’uso di farmaci che influiscono positivamente o negativamente sulla densità minerale ossea è risultato simile tra i due gruppi: le donne che avevano iniziato la metformina presentavano dati simili alle non-iniziatrici.
Durante i 3 anni di follow-up, la perdita di BMD in tutte le aree anatomiche era simile tra i gruppi e nei sottogruppi, inclusa la glicemia a digiuno al basale: la perdita di BMD in tutte le aree anatomiche era simile tra gli iniziatori della metformina e i non utilizzatori (tutti p > 0,3).
L’inizio della terapia con metformina (rispetto al non utilizzo) nelle donne in peri-menopausa non è stato associato a cambiamenti della BMD.

Conclusioni

Sebbene sia stato riconosciuto da alcuni studi che molti farmaci utilizzati per il T2D potrebbero avere un impatto sulla densità minerale ossea e sul rischio di frattura, l’effetto della metformina sulla densità minerale ossea è meno chiaro.

Le donne di mezza età che hanno iniziato la metformina hanno avuto cambiamenti longitudinali nella densità minerale ossea molto simili ad altre donne che non hanno iniziato la metformina.

In conclusione, si può affermare che la cura con metformina non è associata a differenze nella perdita di densità minerale ossea tra le donne nel periodo peri-menopausale. Questi risultati suggeriscono, quindi, che quando si prendono decisioni terapeutiche per i pazienti con T2D, la metformina dovrebbe essere considerata sicura per le donne ad alto rischio di osteoporosi.

Lo studio

Solomon, D.H., Ruppert, K., Cauley, J.A. et al. The effect of starting metformin on bone mineral density among women with type 2 diabetes in the Study of Women’s Health Across the Nation (SWAN)Osteoporos Int 35, 189–194 (2024).

Ictus, bassa BMD come fattore predittivo di mortalità e infezioni

La letteratura ha presentato vari studi che mostrano una correlazione tra una bassa densità minerale ossea (BMD) e rischi elevati di mortalità e infezioni nella popolazione generale: partendo da questa correlazione, uno studio taiwanese si propone di indagare l’incidenza di un indice basso di densità minerale ossea su mortalità, infezioni e polmonite tra i pazienti con ictus.

Metodologia

Questo studio di coorte retrospettivo si è basato su dati recuperati da 905 pazienti ambulatoriali e ospedalieri, con ictus ischemico ed emorragico, per il periodo dal 1° gennaio 2000 e il 1° gennaio 2022.
I pazienti sono stati raggruppati in base alle misurazioni della BMD del femore e della colonna vertebrale. L’outcome primario dello studio è il dato sulla mortalità per tutte le cause, mentre gli esiti secondari riguardano l’infezione del tratto urinario (UTI) e la polmonite. I pazienti con una storia di infezioni delle vie urinarie o polmonite prima dell’ictus sono stati esclusi dalle analisi degli esiti secondari per ridurre al minimo i potenziali fattori confondenti correlati alle infezioni delle vie urinarie o alla polmonite.
Tutti i pazienti sono stati divisi in 2 gruppi in base alla sopravvivenza e alla comparsa di complicanze per esplorare il possibile predittore.
Le analisi del modello di regressione temporale del fallimento accelerato hanno valutato l’associazione tra BMD e questi risultati, mentre il metodo Kaplan-Meier e il test dei ranghi logaritmici hanno valutato le differenze di sopravvivenza tra i gruppi.

Risultati

Tra i partecipanti (età media 76,1 anni, 70,5% donne), il 33,82% presentava osteopenia e il 55,25% osteoporosi. I pazienti colpiti da ictus con BMD della colonna vertebrale inferiore e del femore destro avevano tassi di sopravvivenza significativamente ridotti, soprattutto quando il valore della BMD scendeva rispettivamente al di sotto di 0,842 g/cm2 (colonna vertebrale) e 0,624 g/cm2 (femore destro).

Per quanto riguarda gli esiti secondari, analizzando la casistica di 663 pazienti, la BMD della colonna vertebrale inferiore risulta significativamente associata a un aumento del rischio di UTI.

Lo studio ha visto l’inclusione di 664 pazienti con ictus nell’analisi dell’incidenza della polmonite successiva all’ictus. Si sono verificati 139 (20,9%) casi di polmonite post-ictus, equivalenti a circa 584 eventi. È stato osservato che questi pazienti avevano un’età più avanzata, una percentuale più elevata di donne e una maggiore prevalenza di ipertensione, storia di ictus ricorrente, fratture osteoporotiche, ma non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa tra i livelli di BMD e l’insorgenza di polmonite.

Conclusione

Come evidenziato da risultati sopra riportati, una bassa densità minerale ossea, in particolare nel femore e nella colonna vertebrale, è un fattore predittivo significativo di mortalità e infezioni delle vie urinarie nei pazienti con ictus; risulta invece non diretta l’associazione tra bassa BMD e polmonite.
In conclusione, quindi, questo studio ha evidenziato, dato la correlazione tra BMD e infezioni urinarie in caso di ictus, l’importanza di valutare e gestire anche la densità minerale ossea in questi pazienti al fine di migliorare i risultati e ridurre le complicanze.

Lo studio

Yu-Lin Tsai, Ya-Chi Chuang, Yuan-Yang Cheng, Ya-Lian Deng, Shih-Yi Lin, Chun-Sheng Hsu, Low Bone Mineral Density as a Predictor of Mortality and Infections in Stroke Patients: A Hospital-Based StudyThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 109, Issue 12, December 2024, Pages 3055–3064.

 

 

Farmaci antilipidici e fragilità ossea: il ruolo degli inibitori di PCSK9 nell’osteoporosi

L’osteoporosi è una patologia progressiva che causa una riduzione della massa ossea e un deterioramento della microstruttura dell’osso, aumentando così la fragilità e il rischio di fratture, particolarmente negli anziani. Recenti ricerche suggeriscono che elevati livelli di colesterolo totale e LDL possono contribuire a questo deterioramento, aumentando i rischi di osteoporosi e fratture. In questo contesto, i farmaci antilipidici, in particolare gli inibitori di PCSK9, mostrano potenziale non solo nel trattamento delle malattie cardiovascolari ma anche nel proteggere la salute delle ossa.

Gli inibitori di PCSK9 riducono il colesterolo LDL e potrebbero indirettamente influenzare positivamente il metabolismo osseo, poiché l’iperlipidemia è collegata alla disfunzione delle cellule ossee. Gli effetti infiammatori di PCSK9 e il ruolo degli agenti antilipidici, come le statine, nel miglioramento della densità minerale ossea (BMD) aprono nuove prospettive terapeutiche. Nonostante il loro buon profilo di sicurezza, ulteriori studi sono necessari per capire appieno l’impatto degli inibitori di PCSK9 sull’osteoporosi, soprattutto per pazienti con comorbilità cardiovascolari e scarsa tolleranza ai trattamenti tradizionali.

Inoltre, le analisi genetiche MR (Mendelian Randomization) stanno emergendo come metodologie promettenti per valutare l’effetto causale di questi farmaci sull’osteoporosi, aprendo la strada alla scoperta di nuovi target terapeutici.

Metodologia

Lo studio ha impiegato un’analisi di randomizzazione mendeliana (MR) per esplorare il legame tra inibitori di PCSK9 e HMGCR e l’osteoporosi, utilizzando la coronaropatia (CHD) come controllo positivo per validare l’affidabilità. I dati di associazione su tutto il genoma (GWAS), che includono i polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) legati ai geni PCSK9 e HMGCR e ai livelli di colesterolo LDL, sono stati raccolti da ampi set di dati di individui europei, garantendo la consistenza e generalizzabilità dei risultati.

Per l’analisi MR, sono stati utilizzati vari metodi statistici, tra cui IVW e MR Egger, per valutare la validità degli strumenti genetici, rilevando eventuale eterogeneità e pleiotropia. Inoltre, il sito PhenoScanner ha aiutato a escludere SNP che potessero confondere i risultati. Per stabilizzare i risultati, è stato applicato un metodo “leave-one-out” che analizza singolarmente l’impatto di ogni SNP.

L’analisi di sensibilità e la meta-analisi finale hanno incluso solo i risultati stabili, e tutte le analisi sono state condotte con il software R, versione 4.3.1.

Discussione

Gli inibitori di PCSK9 (PCSK9i) sono farmaci antilipidici che, oltre a ridurre il colesterolo LDL, possono avere effetti antinfiammatori. Tuttavia, la loro influenza sull’osteoporosi è poco studiata. L’osteoporosi è legata all’infiammazione e al metabolismo dei lipidi; infatti, uno squilibrio lipidico sembra favorire la fragilità ossea. Sorprendentemente, in questo studio, i SNP legati a PCSK9 hanno mostrato un’associazione con un aumento del rischio di osteoporosi, contrariamente alle ipotesi iniziali.

La diminuzione degli estrogeni, particolarmente significativa nelle donne in post-menopausa, è un fattore di rischio per l’osteoporosi; inoltre, i PCSK9i potrebbero influenzare il metabolismo degli estrogeni, impattando negativamente la salute ossea. Al contrario, gli inibitori di HMGCR non hanno mostrato questa associazione con l’osteoporosi e sembrano avere effetti protettivi sulla struttura ossea.

Lo studio ha limitazioni dovute alla dipendenza da analisi basate su database genetici (come l’UKB) che potrebbero non essere generalizzabili a popolazioni non europee. Ulteriori studi clinici e una maggiore diversità dei dati genetici sono necessari per confermare questi risultati e migliorare la comprensione dell’effetto dei PCSK9i sull’osteoporosi.

Conclusione

L’analisi RM suggerisce che la variazione genetica nel gene PCSK9 è associata a un aumento del rischio di osteoporosi, indicando che gli inibitori di PCSK9 potrebbero elevare tale rischio. Al contrario, gli inibitori di HMGCR non mostrano associazioni con l’osteoporosi. Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere i meccanismi alla base di questa relazione.

Lo studio

Chen DQ, Xu WB, Xiao KY, Que ZQ, Feng JY, Sun NK, Cai DX, Rui G. PCSK9 inhibitors and osteoporosis: mendelian randomization and meta-analysis. BMC Musculoskelet Disord. 2024 Jul 16;25(1):548. doi: 10.1186/s12891-024-07674-w. PMID: 39010016; PMCID: PMC11251371.

V Congresso BoneHealth – The Bone Identity: nuove frontiere per la salute ossea

Il 5 aprile 2025, presso l’Enterprise Hotel di Corso Sempione 91 a Milano, si terrà il “V Congresso BoneHealth – The Bone Identity”, un evento di approfondimento dedicato agli specialisti impegnati nella gestione delle patologie che colpiscono il metabolismo osseo. L’appuntamento rappresenta un’importante occasione di aggiornamento scientifico su temi avanzati di salute ossea, pensato per endocrinologi, reumatologi, oncologi e altri professionisti della sanità che quotidianamente affrontano le sfide complesse legate a queste patologie.

Il programma: dalle patologie emergenti alle terapie in arrivo

Durante il congresso saranno trattate questioni cruciali che riguardano le patologie osteo-metaboliche, le loro implicazioni cliniche e le innovazioni terapeutiche emergenti. In primo piano ci sarà il danno endocrino-metabolico associato al trattamento del tumore alla prostata: la deprivazione androgenica in questi pazienti, infatti, aumenta il rischio di compromissione della salute ossea, rendendo sempre più necessaria una collaborazione tra oncologi e specialisti delle ossa per mitigare gli effetti collaterali sia osteo-metabolici che cardiovascolari e andrologici.

In parallelo, il congresso approfondirà le forme più complesse e spesso meno conosciute di patologie osteometaboliche, come l’osteosarcopenia, l’osteoporosi a basso turnover e l’algodistrofia. Queste condizioni richiedono strategie di gestione mirate, che richiedono un’attenzione crescente nella pratica clinica per ridurre il rischio di fratture e migliorare la qualità della vita dei pazienti con fragilità ossea.

Un altro punto focale sarà rappresentato dalla terapia anabolica, un settore che si arricchisce di nuove possibilità terapeutiche. Tra le novità in questo ambito, l’Italia si prepara ad accogliere abaloparatide destinato al trattamento dell’osteoporosi post-menopausale ad alto rischio di frattura. Si discuterà inoltre di romosozumab, farmaco già disponibile, che ha aperto nuovi scenari nella terapia osteoattiva, e della prossima introduzione del palopegteriparatide, un trattamento ormonale sostitutivo pensato per i pazienti con ipoparatiroidismo cronico.

Condivisione di sapere per un approccio multidisciplinare a beneficio del paziente

Il razionale dell’evento si fonda sulla crescente esigenza di un approccio terapeutico avanzato e su misura per condizioni come l’osteoporosi post-menopausale. Le nuove terapie, che offrono maggiore efficacia nella ricostruzione ossea, richiedono agli specialisti una conoscenza approfondita per essere applicate correttamente e massimizzare i benefici per il paziente. Il congresso vuole quindi favorire la condivisione di esperienze e conoscenze su queste nuove opzioni terapeutiche, promuovendo un approccio multidisciplinare che migliori il percorso di cura.

Il V Congresso Bone Health – “The Bone Identity” sarà guidato da due figure di spicco: il Dott. Gregorio Guabello, specialista in endocrinologia presso l’Ambulatorio di Endocrinologia dell’IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio di Milano, e il Dott. Matteo Longhi, specialista in reumatologia presso l’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano. La loro supervisione garantirà una giornata di alto livello scientifico, pensata per offrire ai partecipanti gli strumenti e le conoscenze necessarie ad affrontare le nuove sfide cliniche della salute ossea.

Con un programma ricco di temi attuali e innovativi, il congresso mira a consolidare la rete di competenze tra gli specialisti e a offrire un contributo significativo per una gestione moderna e integrata delle patologie osteo-metaboliche. L’appuntamento è un’opportunità di aggiornamento che gli operatori sanitari del settore non possono mancare.

 

Per maggiori informazioni e iscrizioni: https://congresso.bonehealth.it/

Consumo di farmaci per il trattamento dell’osteoporosi

Secondo i dati pubblicati a novembre 2024 dall’ Agenzia Italiana del Farmaco sull’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali. L’uso dei farmaci in Italia, nel 2023 si è osservata una netta inversione di tendenza nel consumo dei farmaci per l’osteoporosi, comprendenti vitamina D e suoi metaboliti.

Per la prima volta dopo anni di costante crescita, le dosi erogate sono diminuite dell’11,9%, portandosi a 140,7 DDD (Defined Daily Dose) per 1000 abitanti al giorno.

In parallelo, la spesa complessiva si è ridotta del 2,9%, attestandosi a poco meno di 540 milioni di euro, pari a una spesa pro capite di 9,11 euro. Questa diminuzione è da attribuire principalmente al calo nella prescrizione di vitamina D e dei suoi analoghi per il trattamento dell’osteoporosi.

L’impatto dell’uso off-label di vitamina D e analoghi

Nonostante la contrazione di circa il 15% della spesa e della DDD, vitamina D e suoi analoghi rimangono i farmaci più prescritti, coprendo circa il 45% e l’87% dell’intera categoria. Questi dati confermano l’utilizzo di colecalciferolo e metaboliti per indicazioni extra-scheletriche, per le quali gli studi clinici randomizzati (RCT) non hanno sempre fornito evidenze di efficacia. Tra il 2014 e il 2023, infatti, i consumi di vitamina D hanno registrato un aumento medio annuale del 5,3%, suggerendo un utilizzo talvolta non allineato alle evidenze scientifiche disponibili.

La crescita delle terapie monoclonali e dei bifosfonati

Mentre l’utilizzo della vitamina D diminuisce, gli anticorpi monoclonali (denosumab, burosumab e romosozumab), stanno guadagnando terreno. Nel 2023, il romosozumab, somministrato mensilmente per via sottocutanea, ha registrato un aumento superiore al 100%, divenendo uno dei farmaci più costosi della categoria, con un costo medio per DDD di 14,01 euro. Anche i bifosfonati e il teriparatide mostrano una crescita nei consumi del 5,5% e del 15,7% rispettivamente, a conferma di un orientamento verso terapie più mirate e innovative.

Disparità di genere e d’età nell’uso dei farmaci per l’osteoporosi

La prevalenza d’uso dei farmaci per l’osteoporosi rimane significativamente più elevata tra le donne rispetto agli uomini, con un picco tra gli over 75, dove circa il 50% delle donne riceve una terapia contro il 20% degli uomini. La mediana dell’età degli utilizzatori di questi farmaci è di 69 anni, con un range che va dai 67 anni per i modulatori selettivi del recettore degli estrogeni ai 74 anni per i bifosfonati e denosumab. La differenza di genere è particolarmente rilevante, con una prevalenza d’uso di circa 3,5 volte maggiore nelle donne (18% contro 5% negli uomini).

Differenze geografiche nel consumo e nella spesa

A livello territoriale, il Nord Italia presenta un consumo medio giornaliero di 152,4 DDD/1000 abitanti, simile a quello del Sud e delle Isole (141,9 DDD) e superiore di circa il 37% rispetto al Centro Italia. Tuttavia, il calo complessivo del consumo di farmaci per l’osteoporosi è evidente in tutte le macroaree: -8,2% al Nord, -16,0% al Centro e -15,1% al Sud e nelle Isole. Nonostante ciò, la spesa complessiva si è ridotta in misura minore rispetto al consumo, con variazioni comprese tra lo 0,7% al Nord e il 4,9% al Sud e nelle Isole.

Aderenza al trattamento e tempo di persistenza

Nel 2023, il 67,9% degli utenti ha mantenuto un’alta aderenza alla terapia osteoporotica, un dato stabile rispetto all’anno precedente, con percentuali più elevate nelle donne. La persistenza media al trattamento varia tra le aree geografiche e tra i due sessi: le donne hanno una persistenza superiore ai 365 giorni, mentre negli uomini si attesta a 255 giorni. Nel Sud, il tempo mediano alla discontinuazione è inferiore rispetto ad altre aree (266 giorni).

Un settore in transizione

Il Rapporto OsMed 2023 fotografa un settore in transizione, con una riduzione dell’uso di vitamina D e un incremento nell’utilizzo di terapie innovative. I dati evidenziano la necessità di un uso più mirato e basato su evidenze scientifiche, specialmente per i farmaci vitaminici, e confermano la centralità delle terapie personalizzate, in particolare per le fasce di età più avanzate e per la popolazione femminile. L’incremento dell’uso di anticorpi monoclonali e di bifosfonati suggerisce una crescente attenzione alla qualità della terapia, con un focus verso trattamenti più efficaci e meno legati alle indicazioni tradizionali.

AIFA_Rapporto OsMed_2023

Colite ulcerosa e i rischi sul metabolismo osseo

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La colite ulcerosa (CU), Malattia Infiammatoria Cronica Intestinale (MICI), è una condizione complessa e debilitante le cui implicazioni vanno oltre i sintomi gastrointestinali, influenzando significativamente la qualità della vita dei pazienti e perfino il metabolismo osseo. I medici sono quindi chiamati non solo a comprendere a fondo gli aspetti clinici, ma anche le sfide emotive che i pazienti affrontano quotidianamente. La campagna di sensibilizzazione “Voci di pancia” promossa da Lilly con il patrocinio di AMICI ITALIA, IG-IBD (Italian Group for the study of Inflammatory Bowel Diseases) ed EFCCA (European Federation of Crohn’s & Ulcerative Colitis Association), mira a rompere il muro dell’imbarazzo, promuovendo un dialogo aperto tra pazienti e professionisti sanitari​.

La relazione medico-paziente: oltre l’imbarazzo

“La colite ulcerosa (CU) colpisce in Italia più di 150.000 persone, con oltre 4.000 nuove diagnosi all’anno ed è in costante aumento in tutte le fasce d’età. Si tratta di una patologia ‘invisibile’ con sintomi invalidanti e imbarazzanti quali frequenza evacuativa, sanguinamento rettale e urgenza intestinale che hanno un forte impatto sulla qualità di vita e sulla sfera psicologica, con la conseguenza di portare alcuni pazienti a isolamento sociale e autostigma. In alcuni casi, la colite ulcerosa progredisce fino a un grado di malattia da moderata a grave, per cui sono necessari interventi terapeutici in grado di agire rapidamente nel contrastare i sintomi più invalidanti”. È quanto afferma Cristina Bezzio, Medico Gastroenterologo presso IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, IBD Unit e Membro del Direttivo di Italian Group for the study of Inflammatory Bowel Disease (IG-IBD).

Tuttavia oltre al trattamento farmacologico serve un supporto emotivo e un ambiente clinico privo di giudizi, dove il paziente possa sentirsi libero di fare anche le domande più intime.

La campagna “Voci di pancia” sottolinea l’importanza di rompere questo silenzio e il tabù associato alla malattia. Con strumenti come la Guida alla Conversazione e il Diario delle Emozioni, i pazienti possono trovare le parole giuste per condividere le loro esperienze con i medici, migliorando la comprensione reciproca​. Mentre il decalogo delle Domande dell’Imbarazzo aiuta ad affrontare temi delicati come la sessualità e la genitorialità, facilitando un dialogo aperto e completo sulla gestione della malattia.

La Colite Ulcerosa e la Sfida del Metabolismo Osseo

Oltre ai sintomi gastrointestinali, la colite ulcerosa può avere un impatto negativo anche sul metabolismo osseo.

  1. Infiammazione Cronica: La CU è caratterizzata da un’infiammazione sistemica che, attraverso citochine come il TNF-α e l’IL-6, promuove il riassorbimento osseo, aumentando il rischio di osteoporosi. Questo processo avviene perché l’infiammazione stimola l’attività degli osteoclasti, le cellule che degradano il tessuto osseo, e sopprime quella degli osteoblasti, responsabili della formazione dell’osso[1],[2],[3].
  2. Malassorbimento di Nutrienti Essenziali: L’infiammazione intestinale può compromettere l’assorbimento di calcio e vitamina D, due nutrienti chiave per la salute ossea. La carenza di vitamina D, in particolare, può peggiorare la mineralizzazione ossea, rendendo le ossa più fragili[4],[5].
  3. Uso di Corticosteroidi: I farmaci utilizzati per il controllo della malattia, come i corticosteroidi, contribuiscono alla perdita di massa ossea. Questi farmaci riducono la formazione ossea e aumentano il riassorbimento, aggravando il rischio di fratture[6],[7].
  4. Ridotta Attività Fisica e Malnutrizione: La fatica cronica e il dolore associati alla CU spesso limitano l’attività fisica, ulteriore elemento che favorisce la perdita di densità ossea. Inoltre, i pazienti con colite ulcerosa possono sperimentare malnutrizione, che aggrava ulteriormente i danni alle ossa[8],[9].

Un approccio clinico integrato

Per i clinici, affrontare la colite ulcerosa non significa solo trattare i sintomi intestinali ma considerare, e quando prossibile prevenire, anche le complicazioni a lungo termine, come l’osteoporosi. Monitorare la densità ossea, integrare calcio e vitamina D, e incoraggiare un’attività fisica adeguata possono fare una grande differenza nella vita dei pazienti. Inoltre, un dialogo empatico e informato può aiutare i pazienti a superare il senso di isolamento e migliorare il loro benessere globale.

Con Voci di pancia – sottolinea Salvo Leone, Direttore Generale di AMICI Italia e Chairman della European Federation of Crohn’s & Ulcerative Colitis Associations (EFCCA) – vogliamo rompere il silenzio e superare il senso di vergogna e imbarazzo che spesso accompagna la colite ulcerosa. È una condizione che va oltre il semplice disagio fisico, toccando profondamente la qualità della vita e i legami sociali, familiari e professionali di chi ne soffre. Parlarne è essenziale. Il dialogo aperto e informato con il proprio medico e con le persone vicine permette di affrontare la malattia in modo più sereno, di abbattere i pregiudizi e di ridare dignità a chi si sente isolato. Questa campagna non è solo un insieme di strumenti pratici, ma una porta verso la comprensione e l’empatia. Quando condividiamo le nostre storie e normalizziamo i sintomi, rendiamo più forte chi affronta ogni giorno questa battaglia invisibile. La consapevolezza e il coraggio di raccontarsi sono le chiavi per una vita migliore”.

Non da ultimo anche Federico Villa, Associate Vice President Corporate Affairs & Patient Access Lilly Italia, ha esplicitato le motivazioni che hanno spinto l’azienda a credere e sostenere il progetto: “Siamo orgogliosi di essere al fianco dell’Associazione di pazienti AMICI Italia e delle Società scientifiche di riferimento per rispondere ai bisogni di salute delle persone che vivono con la colite ulcerosa, malattia infiammatoria cronica intestinale dai sintomi invisibili quanto invalidanti. Con questo progetto di sensibilizzazione siamo felici di ribadire il diritto alla salute di ognuno, sopra ogni cosa, con la volontà di incidere positivamente sul benessere a tutto tondo, che va oltre l’innovazione terapeutica. Alimentiamo nuove possibilità di dialogo in grado di migliorare la qualità di vita di pazienti e familiari”.

 

Bibliografia

[1] Epsley S, Tadros S, Farid A, Kargilis D, Mehta S, Rajapakse CS. The Effect of Inflammation on Bone. Front Physiol. 2021 Jan 5;11:511799. doi: 10.3389/fphys.2020.511799. PMID: 33584321; PMCID: PMC7874051.

[2] Kałużna A, Olczyk P, Komosińska-Vassev K. The Role of Innate and Adaptive Immune Cells in the Pathogenesis and Development of the Inflammatory Response in Ulcerative Colitis. J Clin Med. 2022 Jan 13;11(2):400. doi: 10.3390/jcm11020400. PMID: 35054093; PMCID: PMC8780689.

[3] Kaur A, Goggolidou P. Ulcerative colitis: understanding its cellular pathology could provide insights into novel therapies. J Inflamm (Lond). 2020 Apr 21;17:15. doi: 10.1186/s12950-020-00246-4. PMID: 32336953; PMCID: PMC7175540.

[4] Ulitsky A, Ananthakrishnan AN, Naik A, Skaros S, Zadvornova Y, Binion DG, Issa M. Vitamin D deficiency in patients with inflammatory bowel disease: association with disease activity and quality of life. JPEN J Parenter Enteral Nutr. 2011 May;35(3):308-16. doi: 10.1177/0148607110381267. PMID: 21527593.

[5] Ali T, Lam D, Bronze MS, Humphrey MB. Osteoporosis in inflammatory bowel disease. Am J Med. 2009 Jul;122(7):599-604. doi: 10.1016/j.amjmed.2009.01.022. PMID: 19559158; PMCID: PMC2894700.

[6] Canalis E, Mazziotti G, Giustina A, Bilezikian JP. Glucocorticoid-induced osteoporosis: pathophysiology and therapy. Osteoporos Int. 2007 Oct;18(10):1319-28. doi: 10.1007/s00198-007-0394-0. Epub 2007 Jun 14. PMID: 17566815.

[7] Kobza AO, Herman D, Papaioannou A, Lau AN, Adachi JD. Understanding and Managing Corticosteroid-Induced Osteoporosis. Open Access Rheumatol. 2021 Jul 2;13:177-190. doi: 10.2147/OARRR.S282606. PMID: 34239333; PMCID: PMC8259736.

[8] Ratajczak AE, Rychter AM, Zawada A, Dobrowolska A, Krela-Kaźmierczak I. Nutrients in the Prevention of Osteoporosis in Patients with Inflammatory Bowel Diseases. Nutrients. 2020 Jun 6;12(6):1702. doi: 10.3390/nu12061702. PMID: 32517239; PMCID: PMC7352179.

[9] Engels M, Cross RK, Long MD. Exercise in patients with inflammatory bowel diseases: current perspectives. Clin Exp Gastroenterol. 2017 Dec 22;11:1-11. doi: 10.2147/CEG.S120816. PMID: 29317842; PMCID: PMC5743119.