Romosozumab è una molecola relativamente nuova nel panorama farmacologico italiano, è infatti stata approvata nel 2019 da FdA e da EMA, ma solo nel 2022 da AIFA, e si colloca all’interno del gruppo dei farmaci biologici per la prevenzione delle fratture in donne affette da osteoporosi post-menopausale.
Come denosumab, anche romosozumab è un anticorpo monoclonale, ma va a legarsi alla sclerostina, una proteina espressa agli osteociti che inibisce la produzione di nuovo materiale osseo da parte degli osteoblasti. Impedendo il legame della sclerostina ai recettori LRP 5/6 si incrementa la proliferazione e la sopravvivenza degli osteoblasti e quindi la formazione ossea ma anche, in misura minore, si riduce il riassorbimento osseo.
Combinazione romosozumab alendronato
In uno degli studi più importanti che hanno portato all’approvazione di questa molecola, Saag et al nel 2017 hanno provato a combinare l’effetto del romosozumab con alendronato, il principio attivo più comunemente usato nel trattamento dell’osteoporosi femminile facente parte del gruppo dei bifosfonati, confrontando il risultato con quello ottenuto con la sola somministrazione di alendronato.
Il trial clinico
In questo trial clinico di fase 3, multicentrico, randomizzato e in doppio cieco (1:1) sono state arruolate 4093 donne con età media di 74 anni, selezionate tramite criteri relativi al loro bone mineral density (BMD) T score e alle precedenti fratture vertebrali e femorali avvenute dai 45 anni in su.
I soggetti sono quindi stati trattati con una dose di romosozumab sottocutanea (210 mg) al mese oppure con una dose di alendronato orale ( 70 mg) alla settimana per 12 mesi, al termine dei quali a tutte le 4093 donne sono stati somministrati settimanalmente 70 mg di alendronato sino alla fine del trial (durata totale 24 mesi). Tutte le pazienti hanno assunto calcio e vitamina D per tutta la durata del trattamento.
Ogni 12 mesi sono state svolte radiografie toraciche e lombari così come è stata analizzata la BMD delle vertebre lombari, bacino e collo del femore.
Come end point primario è stata valutata l’incidenza di nuove fratture vertebrali a 24 mesi dall’inizio del trattamento, mentre gli end points secondari comprendevano l’analisi della BMD delle vertebre lombari, tutto il bacino e collo del femore.
Risultati ed efficacia
Delle 4093 donne prese in esame hanno completato il trial clinico il 77%, di queste il 96% aveva avuto precedentemente fratture vertebrali e il loro BMD T score medio era compreso tra -2,8 e -2,96 (viene confermata la diagnosi di osteoporosi quando il T score scende al di sotto del -2,5).
Al termine dei 24 mesi di trial è stato osservato che il trattamento con romosozumab seguito da alendronato ha portato ad un abbassamento del rischio di fratture vertebrali del 48% rispetto al solo trattamento con alendronato. Al primo check up il trattamento con romosozumab abbassava il rischio di frattura vertebrale del 27% e del 19% per quanto riguarda le fratture non vertebrali, rispetto al trattamento con solo alendronato.
La BMD delle pazienti trattate con romosozumab è risultato fortemente aumentata in tutte le parti scheletriche prese in considerazione, e questo risultato è stato mantenuto anche dopo lo shift ad alendronato per i successivi 12 mesi.
Per quanto riguarda l’insorgenza di effetti collaterali non gravi tutto sommato le due terapie si equivalgono, mentre effetti collaterali gravi sul sistema cardiovascolare sono stati riscontrati maggiormente nelle pazienti trattate con romosozumab (2,5%) mentre solo 1,9% delle pazienti trattate con alendronato da solo sono andate incontro a complicanze cardiovascolari.
Che cosa si evince dallo studio
Ripercorrendo questo trial clinico di fase 3 su donne con osteoporosi post-menopausale ed una storia di fratture ossee alle spalle, la differenza tra il trattamento con solo alendronato rispetto al trattamento con romosozumab seguito, dopo 12 mesi, da alendronato è evidente e pone ottimi presupposti per la cura di questa malattia.
Già dopo 6 mesi la somministrazione di romosozumab ha incrementato significativamente il BMD nelle vertebre lombari, bacino e collo del femore rispetto al solo alendronato, e questa differenza si mantiene anche dopo il passaggio al bifosfonato dopo 12 mesi di romosozumab.
Gli effetti collaterali sono stati riscontrati in entrambi i gruppi di pazienti con una maggior gravità, seppure in basse percentuali, nelle donne trattate con romosozumab; bisogna però tenere presente che questo trial clinico non era stato strutturato tenendo conto di criteri cardiovascolari.
Il grande impatto di questo studio che ha contribuito a lanciare romosozumab sta sicuramente nell’aver raggiunto risultati molto soddisfacenti in termini di BMD e riduzione di fratture in meno di un anno, combinando l’effetto dell’anticorpo monoclonale al già collaudato alendronato.
Per un maggior approfondimento il commento su questo trial clinico da parte del dott. Gregorio Guabello.