Uno studio pubblicato a gennaio 2025 sulla rivista Bone dimostra che l’associazione di romosozumab e raloxifene offre un duplice beneficio—morfologico e meccanico—sullo scheletro di topi maschi affetti da nefropatia diabetica. Romosozumab incrementa la massa ossea, mentre raloxifene migliora le proprietà meccaniche a livello tissutale. I risultati aprono nuove prospettive per strategie terapeutiche combinate nei pazienti con diabete e insufficienza renale cronica, condizioni ad alto rischio di frattura e con patologie ossee complesse da trattare.
Un doppio colpo alla fragilità ossea nella nefropatia diabetica
La fragilità ossea nei pazienti con diabete e insufficienza renale cronica (CKD) rappresenta una sfida terapeutica complessa. Il mantenimento di una massa ossea apparentemente normale o persino aumentata nel diabete di tipo 2 non si traduce necessariamente in una protezione dal rischio di frattura, mentre la CKD è nota per alterare profondamente il turnover osseo e accelerare la perdita di qualità scheletrica. Affrontare simultaneamente entrambe le componenti—massa e qualità ossea—è essenziale in questo scenario.
Il team di ricerca della Purdue University ha dimostrato che la combinazione di romosozumab, anticorpo monoclonale anti-sclerostina ad azione anabolizzante, con raloxifene, modulatore selettivo del recettore estrogenico (SERM), migliora sia la quantità che la qualità ossea in un modello murino maschile di nefropatia diabetica.
Il modello murino di DKD: realismo preclinico
Il modello sperimentale adottato riproduce in modo fedele la coesistenza di diabete mellito e malattia renale cronica, ottenuta mediante somministrazione di streptozotocina (per indurre iperglicemia) seguita da dieta arricchita in adenina (per indurre danno renale). I topi sono stati successivamente trattati per quattro settimane con romosozumab, raloxifene, entrambi i farmaci, oppure placebo.
Le valutazioni hanno incluso analisi morfometriche mediante micro-CT, test biomeccanici su tibie e vertebre, dosaggi biochimici e analisi termogravimetriche per valutare l’idratazione ossea.
Romosozumab costruisce, raloxifene rifinisce
I dati mostrano che romosozumab esercita il suo noto effetto anabolizzante, incrementando significativamente la massa ossea sia corticale che trabecolare, soprattutto nel compartimento vertebrale e metafisario delle ossa lunghe. Parallelamente, raloxifene esercita un’azione più mirata sulla qualità tissutale: migliora le proprietà meccaniche intrinseche del tessuto osseo, come lo stress di snervamento e di rottura, senza modificare sensibilmente il volume.
La combinazione delle due molecole ha fornito i migliori risultati in assoluto, sia in termini di morfologia che di resistenza meccanica. In particolare, si è osservato un incremento additivo della densità minerale, della forza di compressione vertebrale e dello spessore corticale tibiale, con benefici sia a livello di struttura che di materiale.
Oltre la densità: la sfida della qualità ossea
Uno degli aspetti più rilevanti emersi dallo studio è la dissociazione tra incremento di massa ossea e miglioramento della qualità meccanica intrinseca. La sola romosozumab, pur aumentando significativamente il volume osseo, non migliora in modo paragonabile le proprietà tissutali, che invece risultano sensibilmente potenziate dalla presenza di raloxifene. Questo suggerisce un effetto sinergico in cui il nuovo tessuto generato sotto stimolo anabolizzante viene “qualitativamente rifinito” dal SERM.
Interessante anche il dato sull’incremento dell’idratazione ossea suggerito dai trend nella termogravimetria, anche se non statisticamente significativo, e la relativa indipendenza dagli accumuli di prodotti finali della glicazione avanzata (AGEs), che spesso vengono chiamati in causa nella fragilità diabetica.
Verso un nuovo paradigma terapeutico?
L’efficacia della combinazione RAL–Romo in un modello di malattia ossea complessa come la DKD pone le basi per nuove strategie terapeutiche anche nella pratica clinica. Mentre romosozumab è già approvato per l’osteoporosi post-menopausale ad alto rischio di frattura, e raloxifene mantiene un ruolo consolidato in pazienti selezionate, la loro combinazione potrebbe offrire un’opzione in pazienti con diabete e compromissione renale, per i quali le scelte attuali sono limitate e spesso subottimali.
Naturalmente, sono necessari studi clinici per confermare la sicurezza e l’efficacia di tale approccio in ambito umano, specie in pazienti con CKD avanzata o in dialisi. Tuttavia, i dati preclinici evidenziano come agire su massa e qualità ossea in modo simultaneo possa rappresentare la chiave per prevenire efficacemente le fratture in contesti ad alto rischio.
Lo studio offre una nuova prospettiva su come affrontare la fragilità scheletrica in condizioni complesse come la nefropatia diabetica. La combinazione di un agente anabolizzante come romosozumab e di un modulatore tissutale come raloxifene potrebbe rappresentare una strategia vincente, capace di rafforzare lo scheletro in termini sia quantitativi che qualitativi. Un approccio promettente, che merita di essere esplorato anche nell’uomo.
Lo studio
Rachel Kohler, Dyann M. Segvich, Olivia Reul, Corinne E. Metzger, Matthew R. Allen, Joseph M. Wallace, Combined Romosozumab and Raloxifene treatment targets impaired bone quality in a male murine model of diabetic kidney disease, Bone, Volume 194, 2025, 117415, ISSN 8756-3282.