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Azioni fisiologiche della vitamina D e conseguenze della sua carenza

La vitamina D3 (colecalciferolo) deriva in parte dalla sintesi cutanea a partire dal 7-deidro-colesterolo sotto l’azione degli UVB (la sintesi endogena copre circa l’80% del fabbisogno) e in parte dalla dieta (i cibi a maggiore contenuto di vitamina D sono: salmone, sardine, sgombro, tonno, olio di fegato di merluzzo, funghi, rosso d’uovo, latticini, arancio, burro, margarina, cereali). Il colecalciferolo all’interno dell’organismo va quindi incontro a due distinte idrossilazioni, una in posizione 25 nel fegato (25-idrossilasi) e una in posizione 1 nel rene (1-alfa-idrossilasi presente nelle cellule del tubulo contorto prossimale) con formazione rispettivamente di 25(OH)vitamina D (calcifediolo) e 1,25(OH)vitamina D (calcitriolo, la forma biologicamente attiva dell’ormone). L’1-alfa-idrossilasi renale rappresenta lo snodo critico per la regolazione della sintesi della vitamina D, essendo modulata, a livello genico, in senso attivante da parte del PTH e in senso inibente dall’FGF-23 e dalla stessa 1,25-OH-D3.

L’azione del calcitriolo, attraverso l’interazione con il suo recettore nucleare (VDR), si esplica principalmente a livello di tre organi target: l’intestino ove media l’assorbimento di calcio e fosfato, l’osso ove l’azione della vitamina D è poco definita (verosimilmente livelli fisiologici stimolano gli osteoblasti e quindi la neoformazione ossea mentre livelli elevati stimolano gli osteoclasti e quindi il riassorbimento osseo) e infine il rene ove media il riassorbimento tubulare di calcio e fosfato.

L’attività 1-alfa-idrossilasica è presente non solo a livello renale (attività enzimatica PTH-dipendente) ma anche in numerose cellule dell’organismo (attività enzimatica PTH-indipendente) che quindi sintetizzano il calcitriolo che svolge al loro interno importanti funzioni fisiologiche (azioni extra-scheletriche della vitamina D, Tabella 1).

La carenza di vitamina D (1) è praticamente endemica sia per ridotto introito alimentare (in Italia la dieta mediterranea è povera di vitamina D) sia per ridotta esposizione alla luce solare.

Valori di 25OHD3 inferiori a 20 ng/ml configurano una condizione di insufficienza mentre valori di 25OHD3 compresi fra 20 e 30 ng/ml configurano una condizione di sufficienza. Nella popolazione anziana sono desiderabili valori target superiori a 30 ng/ml per l’effetto benefico in termini di fratture, cadute e mortalità.

Le cause di ipovitaminosi D sono numerose e frequenti (Tabella 2).

Da un punto di vista fisiopatologico, la carenza di vitamina D determina una condizione di ipocalcemia con conseguente iperparatiroidismo secondario compensatorio; ne consegue a livello osseo una condizione denominata osteomalacia ossia una inadeguata mineralizzazione della matrice organica dello scheletro adulto per carenza di calcio e/o fosfato.

Per la supplementazione si utilizzano generalmente le forme inattive (non 1-alfa-idrossilate) della vitamina D (colecalciferolo e calcifediolo) mentre le forme attive (1-alfa-idrossilate) della vitamina D (calcitriolo e 1-alfa-calcidiolo) si utilizzano solo nei casi in cui l’attivazione endogena è scarsa o assente (insufficienza renale cronica in stadio avanzato, ipoparatiroidismo cronico, malassorbimento grave).

Tabella 1. Azioni extra-scheletriche della vitamina D

Cellule sede di 1-alfa-idrossilasi

PTH-indipendente

Azione fisiologica del calcitriolo

all’interno delle cellule

 

Monociti-macrofagi Regolazione della liberazione di citochine dai linfociti T e di immunoglobuline dai linfociti B
Cellule paratiroidee Riduzione della sintesi e della liberazione del PTH
Cellule renali Riduzione della liberazione di renina dalle cellule iuxta-glomerulari
Cellule muscolari Incremento del diametro e del numero delle fibre muscolari di tipo II
Cellule beta del pancreas Stimolazione della secrezione insulinica
Cellule della mammella, del colon e della prostata Inibizione della angiogenesi e stimolazione della apoptosi


Tabella 2. Cause di ipovitaminosi D

Causa Meccanismo fisiopatologico
Carenza dietetica Insufficiente apporto
Ridotta esposizione agli UV Ridotta sintesi endogena
Gastroresezione, celiachia, insufficienza pancreatica, morbo Crohn, chirurgia bariatrica

 

Malassorbimento
Epatopatie croniche e cirrosi epatica

 

Ridotta sintesi epatica di 25OHD3
Sindrome nefrosica Aumentata escrezione renale di 25OHD3
Farmaci: antiepilettici, rifampicina, glucocorticoidi, antiretrovirali, antirigetto Induzione enzimatica a livello epatico con aumento del catabolismo della vitamina D
Farmaci: colestiramina, lassativi, orlistat, glucocorticoidi

 

Riduzione dell’ assorbimento intestinale della vitamina D
Obesità

 

Sequestro/deposito della vitamina D nel tessuto adiposo
Allattamento al seno Carenza di vitamina D nel latte materno
Sarcoidosi e TBC Attività enzimatica 1-alfa-idrossilasi all’interno dei macrofagi attivati
Linfomi

 

Attività enzimatica 1-alfa-idrossilasi nel tessuto neoplastico

 

Bibliografia

1.Holick MF. Vitamin D deficiency. N Engl J Med. 2007 Jul 19;357(3):266-81.

Infezione da HIV: screening osteo-metabolico pre-implantare

L’avvento della HAART (highly active antiretroviral therapy) ha trasformato l’infezione da HIV (Human Immunodeficiency Virus) in una malattia cronica con una aspettativa di vita sovrapponibile a quella della popolazione generale: i pazienti HIV-positivi  vivono più a lungo e nel corso della vita possono presentare co-morbilità età-relate come diabete mellito, neoplasie maligne, malattie cardio-vascolari, fragilità ossea (più del 50% dei pazienti HIV-positivi sono osteopenici/osteoporotici con aumentata incidenza del rischio di frattura) (1,2).

In relazione alla chirurgia orale e implantare con esposizione del tessuto osseo, l’ infezione da HIV rappresenta ad oggi una controindicazione relativa ma non assoluta. Nei pazienti HIV-positivi, ai fini della osteo-integrazione implantare, bisogna considerare fondamentalmente due fattori di rischio: la immunodepressione correlata alla riduzione numerica dei linfociti T CD4+ (necessaria cautela nei pazienti con numero di linfociti T CD4+ inferiore a 400-500/mm3) e la patologia osteo-metabolica correlata alla infezione da HIV e alla HAART (3).

Al fine di un corretto inquadramento osteo-metabolico del paziente con infezione da HIV, è necessaria l’esecuzione di una densitometria ossea lombare e femorale, di un radiogramma del rachide lombare e dorsale (per eseguire una morfometria atta al riconoscimento di fratture vertebrali asintomatiche) e del dosaggio dei parametri del metabolismo fosfo-calcico nel siero e nelle urine delle 24 ore (4) (Tabella 1).

 

Tabella 1. Screening osteo-metabolico nel paziente con infezione da HIV (i valori di normalità dei dosaggi ematici non sono riportati nella tabella in quanto possono variare a seconda del metodo di dosaggio del singolo laboratorio e in ogni caso vanno interpretati nel contesto clinico del singolo paziente)

 

Test Commento Frequenza
Imaging

MOC lombare e femorale

 

 

Radiogramma del rachide

lombare e dorsale

 

 

Valutazione della DMO

(densità minerale ossea)

e del T-score/Z-score

 

Diagnosi di fratture vertebrali morfometriche

 

Basale quindi ogni 18 mesi

 

 

Da eseguire nei pazienti

con cifosi dorsale e/o rachialgia e/o calo di altezza

Dosaggi ematici

PTH e 25OHD3

 

 

Calcio, fosforo

Albumina

 

Creatinina

 

 

 

Fosfatasi alcalina

 

CTX (telopeptide C-terminale)

 

Diagnosi di ipovitaminosi D e di iperparatiroidismo

primario e secondario

Omeostasi calcio/fosforo

Calcolo del calcio ionizzato

Calcolo del filtrato glomerulare (modification of diet in renal desease -MDRD)

Marker di osteoformazione

Marker di riassorbimento

 

Basale quindi ogni 6 mesi fino a normalizzazione

 

Basale quindi ogni 6 mesi

Basale quindi ogni 6 mesi

 

Basale quindi ogni 6 mesi

 

 

 

Basale

 

Basale quindi a 3 e 6 mesi dopo inizio di una terapia anti-riassorbitiva (bisfosfonato)

Dosaggi su urine 24 ore

Calciuria 24 ore

 

 

 

Fosfaturia 24 ore

 

 

Esclusione di ipercalciuria idiopatica

 

 

Esclusione di tubulopatia fosfato-disperdente (pazienti in terapia con tenofovir)

 

Basale (ogni 6-12 mesi solo nei pazienti ipercalciurici e nei pazienti con calcolosi renale)

In base a giudizio clinico

 

 

 

 

 

Sarebbe buona pratica clinica l’attivazione da parte dell’odontoiatra, contestualmente alla programmazione delle cure odontoiatriche in un paziente HIV-positivo, di una collaborazione integrata e multidisciplinare, sia con lo specialista infettivologo (al fine di definire lo stato di immunodeficienza del paziente in relazione alla conta di linfociti T CD4+) sia con lo specialista del metabolismo minerale ed osseo che è la figura professionale dedicata  alla prescrizione e all’interpretazione di tutti gli esami di imaging e di laboratorio sopra menzionati. Lo specialista infettivologo potrà confermare all’odontoiatra se il paziente è già seguito presso la struttura ospedaliera dal punto di vista osteo-metabolico, in caso contrario l’odontoiatra potrà richiedere una valutazione specialistica (endocrinologica o reumatologica) preliminare alla chirurgia orale/implantare.

 

Bibliografia

1.Harris VW, Brown TT. Bone loss in the HIV-infected patient: evidence, clinical implications, and treatment strategies. J Infect Dis 2012; 205: S391-398.

2.Berretta M, Cinelli R, Martellotta F, et al. Therapeutic approaches to AIDS-related malignancies. Oncogene. 2003 Sep 29; 22: 6646-6659.

3.Gregorio Guabello, Tommaso Weinstein, Francesco Zuffetti. Infezione da HIV in odontostomatologia: patologia osteo-metabolica e possibili ripercussioni in chirurgia implantare. Quintessenza Internazionale e JOMI. Anno 32. Numero 1. 2016.

4.Borderi M, Gibellini D, Vescini F et al. Metabolic bone disease in HIV infection. AIDS. 2009 Jul 17;23(11):1297-310.

Ormoni e mediatori coinvolti nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico

L’odontoiatra nella sua pratica clinica quotidiana sempre più spesso sottopone a chirurgia orale pazienti in età media e avanzata, che assumono farmaci osteotrofici per osteopenia/osteoporosi e più in generale per patologia osteo-metabolica benigna.

Questa rubrica si propone di fornire all’odontoiatra i fondamenti inerenti la

regolazione del metabolismo fosfo-calcico, presupposto fondamentale per la comprensione della farmacodinamica dei principali farmaci attualmente in uso per il trattamento dell’osteoporosi.

Gli ormoni fisiologicamente coinvolti nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico sono essenzialmente 3: PTH (paratormone), CT (calcitonina), 1,25OHD3 (di-idrossi-colecalciferolo o calcitriolo).

Il PTH (peptide di 84 AA, con frammento N-terminale 1-34 biologicamente attivo), secreto dalle paratiroidi, agisce a livello osseo sugli osteoblasti stimolando la secrezione di RANKL (Receptor Activator of Nuclear Factor kappa-B Ligand) e inibendo la secrezione di OPG (osteoprotegerina) e quindi attivando il riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti; agisce inoltre a livello renale stimolando il riassorbimento tubulare di calcio, stimolando l’enzima 1-alfa-idrossilasi (responsabile della attivazione della vitamina D cioè della trasformazione della 25OHD3 in 1,25OHD3 che rappresenta la forma biologicamente attiva) e inibendo il riassorbimento tubulare di fosfato (1).

La calcitonina ha un ruolo non chiaro e poco influisce sui livelli di calcio; è secreta dalle cellule parafollicolari o cellule C o cellule chiare della tiroide, in base alle variazioni della calcemia sul CASR (Calcium Sensing Receptor); la scarsa attività biologica dell’ormone è testimoniata da fatto che la tiroidectomia totale e il carcinoma midollare della tiroide non influenzano in modo significativo i livelli di calcemia (1).

La 1,25OHD3 (calcitriolo, forma biologicamente attiva della vitamina D) agisce principalmente a livello intestinale dove stimola l’assorbimento di calcio e fosfato; agisce inoltre a livello osseo con un’azione non chiara e poco definita (l’ipotesi è che livelli fisiologici stimolino gli osteoblasti, mentre livelli elevati stimolino gli osteoclasti) e a livello renale dove stimola il riassorbimento tubulare di calcio e fosfato (2).

La Tabella 1 riassume le principali azioni degli ormoni suddetti.

 

OSSO RENE INTESTINO
PTH stimola il rias-

sorbimento di calcio e fosforo

-stimola il rias-

sorbimento di calcio

-attiva  1-alfa-idrossilasi (conversione di

25OHD3 in 1,25

OHD3)

-inibisce il rias-

sorbimento di fosfato

CT inibisce il rias-

sorbimento di calcio e fosforo

inibisce il rias-

sorbimento di calcio e fosforo

calcitriolo modula l’azione del PTH azione sinergica

al PTH

stimola l’assor-

bimento di calcio e fosforo

 

Un ruolo centrale nella regolazione della omeostasi calcica ha il calcium sensing receptor (CASR), presente sulla membrana plasmatica di molte cellule dell’organismo, ove funge da “sensore” dei livelli plasmatici di calcio; in particolare il calcio presente nel sangue attraverso il CASR entra nella cellula paratiroidea esercitando un feed-back negativo sulla secrezione di PTH, nella cellula del tubulo renale (tratto ascendente dell’ansa di Henle) inibendo il riassorbimento tubulare del calcio, negli osteoclasti inibendone la differenziazione e la attivazione (1).

Negli ultimi anni sono state indagate nuove e complesse interazioni fra cellule dell’osso e mediatori del metabolismo fosfo-calcico, in particolare l’asse FGF23-Klotho, il sistema RANK-RANKL-OPG e il sistema Wnt-betacatenina.

L’FGF23 (Fibroblast Growth Factor), secreto dagli osteociti sotto lo stimolo di PTH, calcitriolo e fosfato, agisce a livello renale bloccando il riassorbimento tubulare del fosfato (effetto fosfaturico) e  inibendo la 1-alfa-idrossilasi (riduzione della sintesi dell’ 1,25OHD3). KLOTHO è un gene anti-invecchiamento, è espresso a livello di diverse cellule dell’organismo (cellule del tubulo renale, cellule paratiroidee, cellule del plesso coroideo) ed è un promotore per l’interazione fra FGF23 e il suo recettore (3).

Il RANK ligando, secreto dagli osteoblasti, si lega ad un recettore (RANK) presente sulla superficie dei pre-osteoclasti, stimolandone la differenziazione in osteoclasti attivi (maturi) mentre l’OPG, anch’essa secreta dagli osteoblasti, impedisce il legame di RANK ligando al suo recettore inibendo quindi l’attivazione osteoclastica (4). Il sistema RANK-RANKL-OPG è quindi il principale mediatore della osteoclastogenesi (Figura 1).

Il complesso Wnt-recettore-corecettore innesca negli osteoblasti una cascata intracellulare che determina inibizione della chinasi GSK3, liberazione di betacatenina e sua traslocazione nel nucleo della cellula dove media attraverso complesse attività trascrizionali la differenziazione degli osteoblasti. Inibitori fisiologici del sistema Wnt-betacatenina (e quindi inibitori della attivazione osteoblastica) sono DKK1 (Dickkopf-Related Protein 1) e SOST (sclerostina) (5). Il sistema Wnt-betacatenina è quindi il principale mediatore della osteoblastogenesi (Figura 2).

Alla luce della suddetta trattazione, cerchiamo di capire la farmacodinamica dei principali farmaci attualmente utilizzati per il trattamento della patologia osteoporotica.

I bisfosfonati si legano ai cristalli di idrossiapatite della matrice e si concentrano all’interfaccia osteoclasta-matrice ossea (sede del riassorbimento osseo), dove vengono internalizzati negli osteoclasti (endocitosi in corso di riassorbimento osseo) nei quali svolgono azione citotossica inducendone l’apoptosi cellulare.

Il denosumab è un anticorpo monoclonale umano anti-RANK ligando, che come abbiamo detto è la citochina responsabile della attivazione dei pre-osteoclasti e della loro trasformazione a osteoclasti maturi; ne consegue che mentre i bisfosfonati svolgono un’azione citotossica su osteoclasti maturi, denosumab inibisce a monte la trasformazione degli osteoclasti in cellule mature e attive.

Il teriparatide è il frammento 1-34 del paratormone; la somministrazione sottocute intermittente del frammento 1-34 attraverso complesse azioni all’interno del microambiente osseo (aumento di osteoprotegerina, riduzione della apoptosi di osteoblasti e osteociti, aumento della differenziazione degli osteoblasti, ridotta differenziazione della cellula staminale mesenchimale in miociti e adipociti, aumento di IGF-I a livello osseo, inibizione della sclerostina), determina un effetto finale di neoformazione ossea, oltre ad un effetto anti-dolorifico utile nelle fratture vertebrali da fragilità con associata sindrome antalgica.

Il ranelato di stronzio (la componente attiva del farmaco è lo stronzio)  viene assorbito sulla superficie cristallina e solo in misura limitata si sostituisce al calcio presente nei cristalli di idrossiapatite; le azioni dello stronzio dimostrate in vitro sono: azione diretta sugli osteoblasti (replicazione/attivazione) e osteoclasti (inibizione), stimolazione della produzione di osteoprotegerina e inibizione della produzione di RANK ligando, interazione con CASR (Calcium-Sensing-Receptor) osseo.

I bisfosfonati e il denosumab hanno quindi una azione antiriassorbitiva, il teriparatide è un farmaco anabolizzante, il ranelato di stronzio è un farmaco “dual acting” (azione antiriassorbitiva e anabolizzante) (6).

Sono in corso gli studi di fase III relativi a 2 nuovi farmaci per il trattamento della osteoporosi: odanacatib (inibitore della catepsina K, che è l’enzima prodotto dagli osteoclasti deputato alla degradazione del collagene di tipo I della matrice ossea) e romosozumab (anticorpo monoclonale anti-sclerostina) (7,8).

 

Bibliografia

1.Bruder JM, Endocrinology & Metabolism, 4th Ed. McGraw-Hill, 2001. 2.Lieben L, Carmeliet G, Masuyama R. Calcemic actions of vitamin D: effects on the intestine, kidney and bone. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab. 2011;25(4):561-72.

3.Farrow EG, White KE. Recent advances in renal phosphate handling. Nat Rev Nephrol. 2010;6(4):207-17.

4.Boyle WJ, Simonet WS, Lacey DL. Osteoclast differentiation and activation. Nature. 2003;423(6937):337-42.

5.Canalis E, Giustina A, Bilezikian JP. Mechanisms of anabolic therapies for osteoporosis. N Engl J Med. 2007;357(9):905-16.

  1. Das S, Crockett JC. Osteoporosis – a current view of pharmacological prevention and treatment. Drug Des Devel Ther. 2013;31(7):435-48.

7.Mazziotti G, Bilezikian J, Canalis E, et al. New understanding and treatments for osteoporosis. Endocrine 2012, 41: 58-69.

8.Ohlsson C. Novel osteoporosis targets. Nat Rev Endocrinol 2013, 9: 72-4.

Terapia corticosteroidea cronica e odontoiatria

I corticosteroidi sono farmaci largamente utilizzati, con indicazioni che nel tempo si sono estese alle patologie più varie. Nella maggior parte dei casi, il trattamento avviene per via sistemica (in genere per via orale) e può protrarsi per settimane, mesi o addirittura anni: basti pensare all’impiego in patologie croniche quali l’artrite reumatoide, alcune connettiviti sistemiche, l’asma bronchiale, la fibrosi polmonare idiopatica, le malattie infiammatorie croniche intestinali, la sclerosi a placche o la prevenzione della crisi da rigetto di trapianti d’organo. L’uso cronico di corticosteroidi comporta però, quasi inevitabilmente, la comparsa di effetti indesiderati anche gravi (Tabella 1) e richiede un’attenta valutazione del rapporto beneficio/rischio, tenendo presente che per alcuni degli effetti indesiderati non sono disponibili interventi preventivi o terapeutici.

Tabella 1. Effetti indesiderati più frequenti legati all’impiego cronico sistemico dei corticosteroidi

Astenia muscolare, miopatia steroidea
Osteopenia, osteoporosi, fratture da fragilità
Aumentata suscettibilità alle infezioni
Ritenzione idro-salina, ipertensione arteriosa secondaria
Cataratta, glaucoma
Segni di ipercorticismo (obesità tronculare, facies lunare, strie rubre)
Alterazioni psichiche, psicosi
Atrofia della cute, ecchimosi
Iperglicemia, diabete mellito secondario
Irsutismo, acne
Ipogonadismo (amenorrea, impotenza)
Ipercalciuria secondaria, calcolosi renale

 

Verranno di seguito trattate le conseguenze cliniche dell’ipercortisolismo esogeno che possono avere una ripercussione in campo odontostomatologico in rapporto alla guarigione ossea dopo chirurgia orale (estrazione dentale, chirurgia implantare, chirurgia parodontale).

Le principali caratteristiche cliniche dall’osteoporosi indotta da glucocorticoidi (1), che la rendono profondamente diversa dalle altre forme di osteoporosi in particolare da quella post-menopausale, sono:

–  l’elevata incidenza di fratture multiple (soprattutto vertebrali)

– l’indipendenza dai valori densitometrici della MOC (mineralometria ossea computerizzata) per riduzione della qualità dell’osso

– l’importanza di fattori critici quali la malattia sottostante, l’età del paziente, la presenza o meno di stato menopausale

– l’andamento bifasico con una I fase rapida di riassorbimento osseo (primi 6-12 mesi di terapia) e una II fase più lenta di inibizione della neoformazione

– l’aumento del rischio fratturativo già nei primi 3-6 mesi di terapia, parzialmente reversibile alla sospensione (importante il ruolo della malattia di base)

– il maggiore interessamento dell’osso trabecolare (fratture vertebrali da fragilità).

La perdita di massa ossea è legata alla dose giornaliera e cumulativa dello steroide: dosi di prednisone di 2.5-7.5 mg/die sono associate ad un rischio di frattura vertebrale aumentato di 2.6 volte mentre dosi > 7.5 mg/die sono associate a un rischio di frattura vertebrale aumentato di 5 volte.

Vie e modalità alternative di assunzione non annullano completamente il rischio: i glucocorticoidi inalatori possono essere lesivi sullo scheletro ma solo per dosi di prednisone equivalente > 7,5 mg/die (pari a 1875 ug/die di beclometasone e budesonide e 937,5 ug/die di fluticasone) e l’uso intermittente o a giorni alterni di glucocorticoidi per via orale è comunque associato con perdita di massa ossea e aumento del rischio fratturativo.

Gli effetti dei glucocorticoidi sull’osso sono diretti e indiretti (Tabella 2).

Gli effetti diretti si esplicano sulle tre linee cellulari del tessuto osseo: osteoblasti (inibizione della osteoblastogenesi e quindi della neoformazione ossea), osteociti (aumento della apoptosi) e osteoclasti (attivazione della osteoclastogenesi e quindi aumento del riassorbimento osseo).

Gli effetti indiretti sono riconducibili sostanzialmente a 4 meccanismi fisiopatologici: l’iperparatiroidismo secondario (diminuita sintesi renale di calcitriolo, riduzione dell’espressione dei recettori della vitamina D3 a livello intestinale, ridotto assorbimento intestinale di calcio, incremento dell’escrezione renale di calcio), l’ipogonadismo centrale e il deficit di ormone della crescita, la presenza di alcuni polimorfismi del gene che codifica il recettore dei glucocorticoidi (aumentata sensibilità ai glucocorticoidi stessi) e infine l’effetto catabolico sul muscolo scheletrico con aumentato rischio di caduta (ipotrofia muscolare condizionante instabilità della deambulazione).

Tabella 2. Effetti diretti e indiretti dei glucocorticoidi sul tessuto osseo

Effetti diretti Effetti indiretti
Inibizione degli osteoblasti Iperparatiroidismo secondario
Apoptosi degli osteociti Ipogonadismo centrale e deficit di ormone della crescita
Attivazione degli osteoclasti Presenza di alcuni polimorfismi del gene che codifica il recettore dei glucocorticoidi (aumentata sensibilità ai glucocorticoidi stessi)
Effetto catabolico sul muscolo scheletrico con aumentato rischio di caduta

 

Va ricordato che i pazienti in terapia steroidea cronica di regola assumono concomitante terapia anti-riassorbitiva (bisfosfonati), venendosi quindi a sommare due importanti fattori di rischio (terapia steroidea, bisfosfonato) per la potenziale comparsa di osteonecrosi del mascellare dopo chirurgia orale con esposizione di osso alveolare.

Le alterazioni glicemiche (2) in corso di terapia corticosteroidea cronica (alterata glicemia a digiuno, ridotta tolleranza ai carboidrati, diabete mellito franco) sono riconducibili all’azione iperglicemizzante dei glucocorticoidi (attivazione della glicogenolisi con conseguente elevazione glicemica e iperinsulinemia); età, predisposizione genetica e stile di vita, unitamente alla dose e alla durata della terapia steroidea, giocano un ruolo importante nel determinismo di questa complicanza.

L’aumentata suscettibilità alle infezioni (3) dipende sia da un effetto diretto dei glucocorticoidi sul sistema immunitario (azione immunosoppressiva attraverso una inibizione dei linfociti B, dei linfocitii T e dei monociti) sia da un effetto indiretto legato alla possibile coesistenza di diabete mellito secondario.

Il paziente in terapia steroidea cronica è dunque un paziente molto delicato e a rischio di complicanze per cui i soggetti di età superiore a 50 anni in cui sia previsto un trattamento > 3 mesi con dosi > 5 mg/die di prednisone o dosi equivalenti di altri corticosteroidi dovrebbero essere attentamente valutati sul piano osteo-metabolico prima della chirurgia orale (Tabella 3).

Tabella 3.
Indicazione alla valutazione osteo-metabolica per i pazienti in terapia steroidea cronica.
Pazienti in terapia steroidea cronica per i quali è indicata la valutazione osteo-metabolica pre-implantare Soggetti di età superiore a 50 anni in cui sia previsto un trattamento > 3 mesi con dosi > 5 mg/die di prednisone o dosi equivalenti di altri corticosteroidi


Bibliografia

1.Weinstein RS. Clinical practice. Glucocorticoid-induced bone disease. N Engl J Med. 2011;365(1):62-70.
2.Giordano C, Guarnotta V, Pivonello R et al. Is diabetes in Cushing’s syndrome only a consequence of hypercortisolism? Eur J Endocrinol. 2013;170(2):311-9.
3.Oehling AG, Akdis CA, Schapowal A et al. Suppression of the immune system by oral glucocorticoid therapy in bronchial asthma. Allergy. 1997;52(2):144-54.

Quale terapia dopo sospensione di denosumab?

Il denosumab è un anticorpo monoclonale diretto contro RANKL, il principale mediatore della osteoclastogenesi; agisce come un potente inibitore del riassorbimento osseo ed è utilizzato nel trattamento dell’osteoporosi post-menopausale e maschile ad aumentato rischio di frattura. I livelli plasmatici di denosumab calano velocemente alla sospensione del trattamento, determinando un brusco e cospicuo rimbalzo del CTX sierico, marker di riassorbimento osseo, che raggiunge nei 6 mesi successivi un valore di oltre il doppio rispetto al valore basale pre-trattamento (1). Tale rimbalzo del CTX sierico risulta di molto inferiore nei pazienti con pregresso trattamento con amino-bisfosfonati, in relazione alla soppressione del turn-over osseo indotta dalla prolungata permanenza del bisfosfonato nella matrice ossea (2). Nei 12 mesi successivi alla sospensione della terapia, viene persa l’intera massa ossea acquisita in corso di trattamento (1) e i valori di BMD (bone mineral density) risultano significativamente inferiori rispetto a quelli basali pre-trattamento (3), con aumentata comparsa di multiple fratture vertebrali.

Una recente analisi post-hoc dello studio Freedom e della sua estensione a 10 anni (studi registrativi per denosumab) ha confermato l’aumentato rischio fratturativo nell’off-treatment, riportando fra le pazienti incorse in una frattura vertebrale dopo la sospensione del denosumab, multiple fratture vertebrali nel 61% dei casi e un numero di fratture vertebrali uguale o superiore a 4 nel 23% dei casi, contro il 39% e il 6% rispettivamente nelle pazienti che hanno sospeso il placebo. La stessa analisi ha inoltre stabilito come fattori predittivi di frattura:

  1. la presenza di una precedente frattura vertebrale,
  2. la durata in anni della sospensione della terapia e
  3. la perdita percentuale annua di massa ossea a livello femorale in corso di off-treatment (4).

Per contrastare questa rapida perdita dell’efficacia anti-fratturativa dopo sospensione del denosumab, è stato suggerito di proseguire da subito con un amino-bisfosfonato (consolidazione farmacologica) allo scopo di creare una soppressione duratura del turn-over osseo con effetto coda a lungo termine (5).

Freemantle et al. descrivono 115 pazienti con osteoporosi post-menopausale trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 1 anno e quindi passate dopo 6 mesi dalla seconda somministrazione di denosumab ad alendronato 70 mg alla settimana per un altro anno, dimostrando alla fine dei 12 mesi di terapia con alendronato una sostanziale stabilità del guadagno densitometrico ottenuto nel primo anno di terapia con denosumab (6).

Reid et al. descrivono 6 pazienti con osteoporosi post-menopausale trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 7 anni e quindi passate ad una singola infusione di acido zoledronico 5 mg ev, iniziato sempre 6 mesi dopo l’ultima somministrazione di denosumab, dimostrando a 18-23 mesi dalla infusione di zoledronato un calo sia della BMD lombare (tuttavia superiore al valore basale pre-trattamento con denosumab) sia della BMD femorale (che scende al di sotto del valore basale pre-trattamento con denosumab) (7).

Il Data Follow-up Study ha dimostrato che il guadagno di BMD ottenuto dopo 4 anni di terapia sequenziale (2 anni di denosumab seguiti da 2 anni di teriparatide, 2 anni di teriparatide seguiti da 2 anni di denosumab, 2 anni di terapia combinata denosumab + teriparatide seguiti da 2 anni di denosumab) è mantenuto nei pazienti che hanno proseguito con una terapia anti-riassorbitiva (latenza di inizio della terapia dalla fine dei 4 anni dello studio pari a 3,8 +/- 3,1 mesi) mentre è perso in quelli che hanno sospeso la terapia senza una fase successiva di consolidamento farmacologico (8).

Sono in corso protocolli di studio atti a valutare l’impatto su BMD e rischio di frattura di una singola infusione di acido zoledronico, eseguita a differenti timing dall’ultima somministrazione di denosumab.

In un recente editoriale Roland Chapurlat (9), sulla scorta dei pochi dati a disposizione e in attesa dei dati di futura pubblicazione, pur in assenza di una reale evidence-based medicine, fornisce alcune importanti raccomandazioni per la pratica clinica:

la terapia con denosumab non dovrebbe essere sospesa senza una consolidazione farmacologica con amino-bisfosfonati, se sono state somministrate almeno 2 dosi del farmaco;

se il paziente ha assunto prima dell’inizio del denosumab almeno 1-2 anni di un amino-bisfosfonato con elevata affinità per la matrice ossea inorganica (alendronato, zoledronato), il rimbalzo del turn-over osseo alla sospensione del denosumab potrebbe essere mitigato, per cui si consiglia il monitoraggio del CTX sierico, che se rimane entro il range della pre-menopausa (0,100-0,300 ng/ml), potrebbe rendere NON necessaria la consolidazione farmacologica;

il timing di inizio della consolidazione farmacologica potrebbe essere a 6 mesi dall’ultima somministrazione di denosumab in caso di alendronato orale e a 9 mesi in caso di zoledronato ev (lo scopo è quello di ottenere un’impregnazione della matrice ossea da parte del bisfosfonato sfruttando una finestra temporale di riattivazione del rimodellamento osseo e della maturazione degli osteoclasti);

la durata della consolidazione può essere valutata caso per caso in base al monitoraggio del CTX sierico.

Non si fa cenno nell’editoriale alle donne in post-menopausa con carcinoma mammario in blocco ormonale adiuvante con inibitore dell’aromatasi (IA) in terapia con denosumab in prevenzione primaria. Alla sospensione dell’IA dopo 5-10 anni di terapia, le pazienti escono di fatto dalla rimborsabilità della nota 79 e per il medico si pone la delicata questione se impostare o meno una consolidazione farmacologica con amino-bisfosfonato; la decisione di non prescrivere in questo caso specifico una successiva terapia anti-riassorbitiva potrebbe trarre forza dal fatto che si tratta di pazienti diventate nell’off-treatment a basso rischio fratturativo, venendo meno l’effetto negativo dell’IA sulla BMD; tuttavia, non esistono ad oggi evidenze che dimostrino in questa specifica categoria di pazienti l’assenza di fratture da rimbalzo alla sospensione di denosumab senza successiva consolidazione farmacologica.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Bone HG, Bolognese MA, Yuen CK et al (2011). Effects of denosumab treatment and discontinuation on bone mineral density and bone turnover markers in postmenopausal women with low bone mass. J Clin Endocrinol Metab 96:972–980.
  2. Uebelhart B, Rizzoli R, Ferrari SL. Retrospective evaluation of serum CTX levels after denosumab discontinuation in patients with or without prior exposure to bisphosphonates. Osteoporos Int 2017;28:2701–5.
  3. Popp AW, Buffat H, Senn C et al (2016). Rebound-associated bone loss after non-renewal of long-term denosumab treatment offsets 10-year gains at the total hip within 12 months. J Bone Miner Res 31(suppl):S408.
  4. 4. Cummings SR, Ferrari S, Eastell R et al. Vertebral Fractures After Discontinuation of Denosumab: A Post Hoc Analysis of the Randomized Placebo-Controlled FREEDOM Trial and Its Extension. J Bone Miner Res. 2017 Nov;20(20):1-9.
  5. Meier C, Uebelhart B, Aubry-Rozier B et al. Osteoporosis drug treatment: duration and management after discontinuation. A position statement from the SVGO/ASCO. Swiss Med Wkly. 2017 Sep 5;147:w14484.
  6. Freemantle N, Satram-Hoang S, Tang ET, Kaur P, Macarios D, Siddhanti S, Borenstein J, Kendler DL; DAPS Investigators. Final results of the DAPS (Denosumab Adherence Preference Satisfaction) study: a 24-month, randomized, crossover comparison with alendronate in postmenopausal women. Osteoporos Int. 2012 Jan;23(1):317-26.
  7. Reid IR, Horne AM, Mihov B, Gamble GD. Bone Loss After Denosumab: Only Partial Protection with Zoledronate. Calcif Tissue Int. 2017;101:371–4.
  8. Leder BZ, Tsai JN, Jiang LA, et al. Importance of prompt antiresorptive ther-apy in postmenopausal women discontinuing teriparatide or denosumab: the denosumab and teriparatide follow-up study (DATA-follow-up). Bone 2017;98:54–8.
  9. Chapurlat R. Effects and management of denosumab discontinuation. Joint Bone Spine. 2018 Jan 6. pii: S1297-319X(18)30001-0.

Articolo pubblicato con il permesso AME

Ipofosfatasia: approccio multidisciplinare medico e odontoiatrico

L’ipofosfatasia (1) è un difetto di mineralizzazione delle ossa e/o dei denti per un errore congenito del metabolismo in particolare un deficit della fosfatasi alcalina (ALP) non tessuto-specifica sierica e ossea; ne conseguono un possibile aumento dei livelli di calcio e fosfato nel sangue (per mobilizzazione del calcio e fosfato non più utilizzati per la mineralizzazione della matrice ossea e quindi non più stoccati nell’osso), difetti scheletrici da lievi fino a severi e difetti della dentizione. La malattia colpisce maschi e femmine in qualunque età della vita, è presente in tutto il mondo (con una maggiore prevalenza in alcune zone del Canada) ma una reale stima di prevalenza e incidenza non è nota. La trasmissione genetica può essere autosomica recessiva o dominante (sono note al momento 280 mutazioni). La riduzione della attività enzimatica ALP non tessuto-specifica comporta l’accumulo endogeno dei 3 composti del fosfato, substrati della ALP, che sono la fosfoetanolamina (PEA), il pirofosfato inorganico (PPI) e il piridossal-5’-fosfato (PLP o vitamina B6).

Lo spettro clinico della malattia è altamente variabile, dalla morte in utero a meri problemi di dentizione nell’età adulta; sono riconosciute 4 forme in base alla età del paziente al momento della diagnosi e alla severità del quadro clinico: perinatale, infantile, dell’adolescenza, dell’adulto.

L’ipofosfatasia colpisce prevalentemente 2 distretti: lo scheletro (rachitismo/osteomalacia nel bambino, osteopenia/osteoporosi nell’adulto, ritardo di consolidamento delle fratture) e i denti (perdita prematura della dentizione decidua, estrazione prematura della dentizione adulta, malattia del periodonto). Altre possibili e non infrequenti manifestazioni cliniche possono riguardare i seguenti organi e apparati: l’apparato muscolare (astenia, miopatia, dolore cronico), i reni (nefrocalcinosi, ipercalciuria), l’apparato respiratorio (insufficienza respiratoria), le articolazioni (pseudo-gotta, periartrite calcifica/ossificazione dei  legamenti, condrocalcinosi), il sistema nervoso centrale (epilessia infantile per ridotta trasformazione del PLP in piridossale che è la forma di vitamina B6 capace di attraversare la barriera emato-encefalica e raggiungere il sistema nervoso centrale ove rappresenta un co-fattore enzimatico per la sintesi del GABA).

Il sospetto diagnostico deriva dalla rilevazione di bassi livelli di ALP non tessuto-specifica aggiustata per età (in genere si considerano bassi livelli nell’adulto < 40 U/L o comunque livelli inferiori al range di riferimento del laboratorio, mentre nel bambino e nell’adolescente in fase attiva di crescita sono fisiologici valori elevati di ALP); la conferma diagnostica deriva dalla determinazione della PEA urinaria (elevata) e del PLP sierico (elevato); la diagnosi certa è quella su base genetica presso laboratori specializzati.

L’ipofosfatasia è una malattia incurabile. Terapie di supporto sono rappresentate da: “dental care” routinario, somministrazione di vitamina B6 (piridossina) per la prevenzione delle crisi epilettiche e di FANS per il trattamento sintomatico delll’osteoartrite e del dolore osseo, osteosintesi in caso di pseudofratture e fratture da stress. E’ consigliata nei casi severi della malattia una restrizione dietetica di calcio, fosforo e vitamina D per prevenire una possibile ipercalcemia. Sono controindicate le terapie anti-riassorbitive (bisfosfonati) trattandosi di una condizione di difetto di mineralizzazione della matrice osteoide non reversibile e quindi a basso turn-over osseo. E’ stata tentata in passato l’infusione di plasma ricco di ALP di pazienti pagetici ma con scarso effetto in termini di mineralizzazione della matrice osteoide per impossibilità della ALP a raggiugere e penetrare il tessuto osseo. Risultati promettenti in ambito pediatrico sembrano invece derivare dalla somministrazione di ENB-0040 (ALP-IgG1Fc-D10) (2), una proteina ricombinante costituita dalla fusione di tre componenti: il dominio esterno della ALP, il frammento Fc di una immunoglobulina IgG1 e un frammento terminale di 10 residui di aspartato, quest’ultimo in grado di conferire alla molecola la capacità di entrare nel tessuto osseo e qui svolgere una vera e propria attività enzimatica sostitutiva; gli studi clinici hanno dimostrato una riduzione dei livelli di PPI e PLP e un miglioramento della mineralizzazione ossea con conseguente recupero funzionale.

 

Bibliografia

1.Rockman-Greenberg C. Hypophosphatasia. Pediatr Endocrinol Rev. 2013 Jun;10 Suppl 2:380-8.

2.Whyte MP, Greenberg CR, Salman NJ et al. Enzyme-replacement therapy in life-threatening hypophosphatasia. N Engl J Med. 2012 Mar 8;366(10):904-13.

Diabete mellito: controindicazione a chirurgia implantare?

Il diabete mellito è una malattia cronica caratterizzata dall’aumento della concentrazione di glucosio nel sangue.

Responsabile di questa condizione è un difetto nella produzione o nella funzionalità dell’insulina, un ormone secreto a livello del pancreas e indispensabile per il metabolismo degli zuccheri. Tutti gli zuccheri semplici e complessi (amidi), che vengono assunti con l’alimentazione, sono trasformati nel corso della digestione in glucosio, il quale rappresenta la principale fonte di energia per i muscoli e gli organi. Affinché il glucosio possa fare il suo ingresso nelle cellule ed essere utilizzato come “carburante”, è necessaria la presenza dell’insulina, prodotta da particolari cellule del pancreas (cellule beta) riunite in gruppi chiamati “isole di Langherans”. Quando l’insulina è prodotta in quantità non sufficiente dal pancreas oppure le cellule dell’organismo non rispondono alla sua presenza, i livelli di glucosio nel sangue tendono ad innalzarsi favorendo la comparsa del diabete.

Esistono principalmente 3 tipi di diabete mellito: tipo 1, tipo 2, secondario.

Il diabete di tipo 1 riguarda il 10% dei casi di diabete e si sviluppa prevalentemente a partire dall’infanzia e dall’adolescenza. Nel diabete di tipo 1, la produzione di insulina da parte del pancreas viene soppressa o fortemente ridotta a causa della distruzione delle cellule beta da parte del sistema immunitario. Le cause di questa malattia sono ancora sconosciute ma, attualmente, il diabete di tipo 1 è classificato come una “malattia autoimmune”, cioè legata a una reazione del sistema immunitario contro l’organismo stesso, scatenata da una concomitanza di fattori genetici e ambientali.

Il diabete di tipo 2 rappresenta la forma di diabete più comune e interessa il 90% dei casi. Prevalentemente, si sviluppa a partire dai 40 anni di età e colpisce principalmente i soggetti obesi o sovrappeso. Nel diabete di tipo 2, il pancreas è in grado di produrre insulina (seppur in maniera ridotta) ma le cellule dell’organismo non riescono a utilizzarla in modo efficiente: ciò comporta un aumento dei livelli di glucosio nel sangue. In genere, la presenza di diabete di tipo 2 può non essere rilevata per molti anni, in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e non comporta sintomi particolarmente evidenti come quelli presenti nel diabete di tipo 1 (poliuria, polidipsia, calo ponderale, acidosi metabolica fino al coma).

Il diabete secondario è la conseguenza di patologie del pancreas (pancreatite cronica, neoplasie) o di chirurgia pancreatica (pancreatectomia totale/subtotale), condizioni che riducono la quota di beta cellule e quindi la capacità di secernere insulina.

La diagnosi del diabete è definita dalla presenza di uno dei seguenti valori nel sangue confermati in due diverse misurazioni:

-glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (almeno 8 ore di digiuno);

-valore di emoglobina glicata ≥ 6,5%;

-valore di glicemia casuale, cioè indipendentemente dal momento della giornata, ≥ 200 mg/dl;

-glicemia ≥ 200 mg/dl durante una curva da carico (OGTT) con la somministrazione di 75 g di glucosio (1).

Sul fronte osteo-metabolico, una condizione di iperglicemia cronica può avere ripercussioni in termini di depauperamento osseo con meccanismi fisiopatologici complessi. L’accumulo degli AGEs (advanced glycation end products, derivanti dalla glicazione non enzimatica delle proteine) nello scheletro altera la qualità dell’osso e ne riduce la forza meccanica attraverso una alterazione della funzione del collagene, l’inibizione dell’attività osteoblastica e l’attivazione di quella osteoclastica; il glucosio esercita un effetto tossico diretto sugli osteoblasti con conseguente ridotta sintesi di osteocalcina, ormone con azione extra-ossea di tipo  ipoglicemizzante; l’iperglicemia determina glicosuria e questa favorisce ipercalciuria con conseguente ridotta mineralizzazione ossea; la nefropatia diabetica e la conseguente riduzione della funzione renale hanno note ripercussioni negative a livello osseo; la micro e macro-angiopatia diabetica determina ipossia a livello del tessuto osseo; infine il paziente diabetico ha un aumentato rischio di caduta per la concomitante retinopatia (ipovisus) e neuropatia (ipotonia muscolare) e le possibili ipoglicemie in corso di terapia insulinica (2).

Per quanto concerne le possibili ripercussioni negative del diabete mellito nell’ambito della chirurgia orale e implantare, i principali fattori di rischio in questo setting di pazienti sono rappresentati dalla condizione di immunodepressione con conseguente aumentato rischio infettivo, dalla micro-angiopatia diabetica, dal ritardo di guarigione delle ferite e infine dalla osteoporosi secondaria legata alle suddette ripercussioni in ambito osseo (3).

Numerosi studi hanno indagato l’impatto del diabete mellito e del controllo glicemico sulla osteo-integrazione implantare: una sistematica revisione della letteratura ha dimostrato che uno scarso controllo glico-metabolico della malattia può avere negative ripercussioni sulla osteointegrazione mentre in pazienti con ottimale controllo glicemico la osteointegrazione si realizza con successo al pari della popolazione non diabetica, e questo indipendentemente dall’età del paziente e dalla durata della malattia diabetica. Il diabete mellito non può quindi essere considerato una controindicazione assoluta alla chirurgia implantare, tuttavia il paziente deve essere attentamente valutato in termini di compenso glicemico al fine di eseguire la procedura odontoiatrica in presenza di valori di emoglobina glicata < 7% (utile in tal senso la collaborazione fra l’odontoiatra e il medico diabetologo di riferimento del paziente). Nella chirurgia orale del paziente diabetico è sempre indicato l’uso di antisettici del cavo orale (clorexidina) e una adeguata profilassi antibiotica (4).

Bibliografia

1.Malattie del Sistema Endocrino e del Metabolismo, Disordini del ricambio glicidico, Giovanni Faglia, terza edizione 2002, McGraw-Hill

2.Hofbauer LC, Brueck CC, Singh SK, Dobnig H. Osteoporosis in patients with diabetes mellitus. J Bone Miner Res. 2007 Sep;22(9):1317-28.

3.Diz P, Scully C, Sanz M. Dental implants in the medically compromised patient. J Dent. 2013 Mar;41(3):195-206.

4.Javed F, Romanos GE. Impact of diabetes mellitus and glycemic control on the osseointegration of dental implants: a systematic literature review. J Periodontol. 2009 Nov;80(11):1719-30.

Patologia psichiatrica e chirurgia implantare

Il paziente candidato ad interventi di chirurgia implantare  deve essere sottoposto ad un’accurata valutazione clinica, che ha lo scopo di indagare lo stato generale di salute del paziente. Con il crescente invecchiamento della popolazione, l’odontoiatra intercetta sempre più spesso pazienti in età medio-avanzata o senile, con un’alta prevalenza di patologie croniche fra cui occupano un posto rilevante anche i disturbi della sfera neuro-psichiatrica.

Le patologie neurologiche e i disturbi psichiatrici possono rappresentare una possibile controindicazione alla chirurgia implantare in quanto possono essere correlati a molteplici fattori di rischio quali una scarsa igiene del cavo orale, la presenza di parafunzioni dell’apparato masticatorio come il bruxismo, la xerostomia iatrogena (da psico-farmaci), il fenomeno della ripetuta introduzione del “dito in bocca” e infine disturbi comportamentali di vario genere e tipo, tutte condizioni che possono condurre a complicanze dopo la chirurgia orale (1). Per quanto riguarda nello specifico la demenza pre-senile e senile, esistono dati che il decadimento cognitivo possa essere associato a maggior rischio di edentulismo (correlazione fra demenza e scarsa igiene orale) e al contrario che un basso numero di denti possa essere predittivo di demenza in tarda età (correlazione significativa negli anziani tra masticazione e funzioni cerebrali superiori) (2).

I dati della letteratura inerenti il successo o meno della chirurgia implantare in questo setting di pazienti sono pochi e contraddittori. Sono noti solo case reports e piccole casistiche che hanno dimostrato in generale un successo della chirurgia implantare in pazienti con disabilità sia intellettiva sia fisica, inclusi casi di paralisi cerebrale, sindrome di Down, disordini psichiatrici, demenza, bulimia, morbo di Parkinson ed epilessia severa.

Rogers riporta il caso di un paziente affetto da paralisi cerebrale sottoposto con successo a completa riabilitazione implantare dell’arcata dentale inferiore (3). Ambard et al descrivono la riuscita riabilitazione dentale attraverso il posizionamento di impianti endostali in una giovane donna di 31 anni con una lunga storia di bulimia nervosa (4). Lopez-Jimenez et al descrivono il posizionamento di 67 impianti in un totale di 18 pazienti affetti da disfunzione mentale o fisica di vario genere riportando un tasso di fallimento implantare del 5,6%, pari a quello osservato negli individui sani (5). Kubo K et al descrivono la riuscita riabilitazione implantare in un paziente di 72 anni affetto da morbo di Parkinson, in corso di anestesia loco-regionale associata a infusione endovenosa di midazolam (6). Ekfeldt descrive il posizionamento di 35 impianti in una casistica di 14 pazienti affetti da disabilità neurologica di vario tipo condizionante disfunzione oro-facciale, con comparsa di complicanze maggiori solo in due pazienti (7). Oczakir et al riportano un alto tasso di successo implantare in una casistica di 25 pazienti affetti da varie e gravi disfunzioni oro-facciali (labbro leporino, sindrome di Down, sindrome di Sjogren, displasia ectodermica, ritardo di sviluppo, leucemia cronica, lichen planus, paralisi cerebrale, sordo-mutismo, sclerosi laterale amiotrofica) sottolineando l’importanza della sinergia fra il rigido protocollo di cura odontoiatrica e la compliance dei pazienti (8). Addy et al descrivono 3 casi di pazienti affetti da disturbi psichiatrici sottoposti con successo al posizionamento di impianti, sottolineando come i disturbi mentali non devono rappresentare necessariamente una controindicazione alla chirurgia implantare e che la riabilitazione funzionale ed estetica può altresì rappresentare un valido supporto sul piano psicologico in questi pazienti (9). Cune MS et al riportano un tasso di successo implantare del 97,6% in una casistica di 61 pazienti affetti da epilessia severa nonostante una non ottimale igiene orale nel 72% dei casi trattati (10). Infine Feijoo et al descrivono il successo implantare in una casistica di 8 pazienti con disabilità intellettuale di tipo non sindromico, sottolineando come l’edentulia sia un problema di grande impatto cosmetico e come la sua risoluzione possa restituire a questi pazienti sicurezza in termini di accettazione sociale (11).

Le patologie neuro-psichiatriche non devono quindi essere necessariamente considerate  una controindicazione assoluta alla chirurgia implantare; va tuttavia suggerita cautela in alcuni sottogruppi di pazienti, in particolare in quelli affetti da disturbi di tipo psicotico (schizofrenia), disturbi della personalità (pazienti “borderline”), dismorfofobia, lesioni cerebrali con correlato neuro-psichiatrico, demenza pre-senile o senile sia essa su base multinfartuale sia su base degenerativa. Nel sospetto che un disturbo di tipo psichiatrico possa influire negativamente sulla prognosi della chirurgia implantare, una consulenza preliminare di un medico psichiatra è utile e necessaria per una valutazione globale del paziente nella pianificazione della procedura odontoiatrica e in caso di posta indicazione alla chirurgia implantare, è necessario valutare la programmazione di una anestesia generale. Il successo finale della riabilitazione orale dipende pertanto da una attenta selezione dei pazienti e da un approccio medico globale (1).

La Tabella 1 riassume le raccomandazioni relative alla chirurgia orale e implantare nei pazienti neuro-psichiatrici.

 

Tabella 1. Raccomandazioni relative alla chirurgia orale e implantare nei pazienti neuro-psichiatrici.

Esiste una controindicazione alla chirurgia implantare nei pazienti neuro-psichiatrici? Esiste una controindicazione relativa ma non assoluta
Esiste una cautela in alcuni sottogruppi di pazienti? E’ necessario essere molto cauti nei pazienti affetti da

-disturbi di tipo psicotico (schizofrenia)

-disturbi della personalità (pazienti “borderline”)

-dismorfofobia

-lesioni cerebrali con correlato neuro-psichiatrico

-demenza pre-senile o senile

E’  necessaria una consulenza del medico psichiatra? E’ necessaria nel sospetto che il disturbo di tipo psichiatrico possa influire negativamente sulla prognosi della chirurgia implantare
E’ necessaria l’anestesia generale? E’ utile in casi selezionati

 

Bibliografia

1.Diz P, Scully C, Sanz M.Dental implants in the medically compromised patient. Dental implants in the medically compromised patient.J Dent. 2013 Mar;41(3):195-206.

  1. Maria Cristina Rossi, Daniele Venturoli, Alessandro Micarelli et al. Edentulismo e Demenza: esiste una correlazione scientificamente provata?. Quintessenza Internazionale e JOMI. Anno 31. Numero 1. 2015.

3.Rogers JO. Implant-stabilized complete mandibular denture for a patient with cerebral palsy. Dental Update 1995;22:23–6.

4.Ambard A, Mueninghoff L. Rehabilitation of a bulimic patient using endosteal implants. Journal of Prosthodontics 2002;11:176–80.

5.Lopez-Jimenez J, Romero-Domınguez A, Gimenez-Prats MJ. Implants in handicapped patients. Medicina Oral 2003;8:288–93.

6.Kubo K, Kimura K. Implant surgery for a patient with Parkinson’s disease controlled by intravenous midazolam: a case report. International Journal of Oral and Maxillofacial Implants 2004;19:288–90.

7.Ekfeldt A. Early experience of implant-supported prostheses in patients with neurologic disabilities. International Journal of Prosthodontics 2005;18: 132–8.

8.Oczakir C, Balmer S, Mericske-Stern R. Implant-prosthodontic treatment for special care patients: a case series study. International Journal of Prosthodontics 2005;18:383–9.

9.Addy L, Korszun A, Jagger RG. Dental implant treatment for patients with psychiatric disorders. European Journal of Prosthodontics and Restorative Dentistry 2006;14: 90–2.

10.Cune MS, Strooker H, Van der Reijden WA, de Putter C, Laine ML, Verhoeven JW. Dental implants in persons with severe epilepsy and multiple disabilities: a long-term retrospective study. International Journal of Oral and Maxillofacial Implants 2009;24:534–40.

11.Feijoo JF, Limeres J, Diniz M, Del Llano A, Seoane J, Diz P. Osseointegrated dental implants in patients with intellectual disability: a pilot study. Disability and Rehabilitation 2012;34:2025–30.

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