sabato, Agosto 2, 2025
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Consumo di latte ed effetti sulla salute


Maurizio Rondinelli
Maurizio Rondinelli, endocrinologo

Un tema apparentemente semplice come quello dell’apporto di latte e latticini nella nostra dieta mostra invece la sua complessità.

L’articolo Milk and Health è interessante soprattutto perché presenta molti dati relativi a vari aspetti della salute (citando numerose referenze), anche se spesso con una variabilità importante.

Stringendo il campo all’ambito della corretta supplementazione nei pazienti affetti da osteoporosi, le nostre linee guida affermano che è preferibile, ove possibile, correggere il ridotto introito di calcio con un approccio alimentare adeguato e ci ricordano che l’apporto medio giornaliero di calcio nella popolazione italiana risulta insufficiente, specie in età senile.

Questa carenza alimentare può contribuire alla negativizzazione del bilancio calcico e a una deleteria condizione di iperparatiroidismo secondario.

Le eventuali dosi consigliabili di supplementi di calcio vanno commisurate al grado di carenza alimentare (in genere comunque non sono opportune dose superiori ai 500-600 mg/die).

Per i pazienti in terapia con farmaci antiriassobitivi potenti (come denosumab o zoledronato) un supporto di calcio con la supplementazione è quasi sempre mandatario.

Maurizio Rondinelli, endocrinologo


Latte e salute

Un gruppo di ricercatori di Boston ha condotto un’ampia analisi della letteratura, pubblicata su The England Journal of Medicine, per indagare i benefici e i possibili rischi correlati all’assunzione di latte. In particolare, gli autori hanno analizzato l’impatto su crescita e sviluppo, salute delle ossa e rischi di fratture, obesità, malattie cardiovascolari, diabete, allergie e vari tipi di cancro.

Il latte vaccino comprende una complessa combinazione di macronutrienti, micronutrienti e fattori promotori della crescita che possono essere utili per la nutrizione umana; tuttavia, tutti questi nutrienti possono essere ricavati anche da altre fonti, come dimostra il fatto che non se ne rilevano carenze in individui di società che tradizionalmente consumano ridotti quantitativi di prodotti lattiero-caseari.

Consumo di latticini: pro e contro

I ricercatori affermano che, negli adulti, le evidenze scientifiche non supportano, nel complesso, l’ipotesi che un elevato consumo di prodotti lattiero-caseari riduca il rischio di fratture, motivazione principale che ha indotto a promuovere il consumo di tali alimenti negli Stati Uniti. Inoltre, il consumo di prodotti lattiero-caseari non è stato chiaramente correlato al controllo del peso e al rischio sviluppare diabete o malattie cardiovascolari.

L’elevato consumo di latticini è associato a un leggero aumento del rischio di cancro alla prostata e di carcinoma dell’endometrio, ma riduce il rischio di cancro del colon-retto.

È importante notare che l’effetto del consumo di latticini sulla salute è da mettere in relazione all’effetto del consumo di altri alimenti e bevande: per molti versi, consumare latticini è meno dannoso che consumare carne rosso o suoi derivati o bevande zuccherate, ma il confronto è sfavorevole se effettuato con fonti di proteine vegetali, come le noci. Inoltre consumare latticini con ridotto contenuto di grassi non sembra offrire vantaggi rispetto al consumo di prodotti lattiero-caseari interi.

Gli effetti del consumo di latte vaccino sulla salute dei bambini sono meno chiari a causa delle maggiori esigenze nutrizionali necessarie per la crescita e per il fatto che i dati disponibili sono più limitati. Nella prima infanzia, in mancanza di latte materno, il latte vaccino può fornire un prezioso sostituto. Il latte promuove la velocità di crescita e permette di raggiungere una maggior altezza, il che comporta sia rischi sia benefici. L’elevato potere nutritivo del latte può essere particolarmente utile per le popolazioni di regioni in cui la qualità generale della dieta è scarsa e l’apporto calorico è deficitario.

Tuttavia, in caso di alimentazione adeguata, l’eccessivo consumo di latte può aumentare il rischio di fratture in età avanzata e resta preoccupante l’associazione tra una maggiore altezza e il rischio di cancro.

Quando è raccomandato il consumo di latticini

I ricercatori sostengono che la raccomandazione – attualmente adottata negli Stati Uniti – di aumentare notevolmente il consumo di latticini a tre o più porzioni al giorno sia infondata.

L’assunzione ottimale di latte dipende dalla qualità generale della dieta dei singoli individui.

Se la qualità della dieta è scadente, in popolazioni economicamente svantaggiate, il consumo di latticini è utile, soprattutto per i bambini; ma se la qualità della dieta è buona, è improbabile che un maggior apporto di latticini possa fornire sostanziali benefici, mentre è possibile che vengano riportati alcuni danni.

Se il consumo di latte è scarso, è possibile – specie nelle popolazioni che vivono a latitudini più elevate – che l’apporto di calcio e vitamina D sia insufficiente e che sia necessario assumere questi nutrienti attraverso l’assunzione di altri alimenti o integratori che, peraltro, non hanno le potenziali conseguenze negative dei latticini.

Per il calcio, fonti alimentari alternative includono cavoli, broccoli, tofu, noci, fagioli e succo d’arancia fortificato; per quanto concerne la vitamina D, un livello adeguato può essere raggiunto attraverso l’assunzione di integratori, che hanno un costo molto inferiore rispetto al latte fortificato.

In attesa di ulteriori studi e linee guida, per gli adulti è consigliabile

assumere da zero a due porzioni di latte o latticini al giorno e preferire il latte a basso contenuto di grassi al latte intero; inoltre, per le popolazioni con alti tassi di sovrappeso e obesità è raccomandato evitare il consumo di latticini zuccherati.

Walter C. Willett, David S. Ludwig,  Milk and Health, N Engl J Med 13 feb 2020;382:644-54, doi10.1056/NEJMra1903547

Trattamento della SARS con corticosteroidi e conseguenze ossee a lungo termine

Mentre scriviamo, siamo in piena emergenza epidemiologica e clinica dovuta alla pandemia da Covid-19.

Il virus che causa l’attuale epidemia di coronavirus è stato chiamato “Sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2”, SARS-CoV-2, conformemente alla denominazione attribuitagli dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV). Secondo il parere del gruppo di esperti appositamente incaricati di studiare virus, il nuovo coronavirus appartiene alla famiglia Coronaviridae, la stessa di quello che ha provocato la SARS(SARS-CoVs), da qui il nome scelto di SARS-CoV-2, e si classifica geneticamente all’interno del sottogenere Betacoronavirus Sarbecovirus [1].

Attualmente siamo lontani dall’avere a disposizione un trattamento farmacologico efficace per curare l’enorme numero di pazienti che hanno contratto o stanno contraendo la malattia e l’uso di corticosteroidi è sconsigliato [2], così come evidenziato anche dallo studio “Impact of Corticosteroid Treatment in Patients with Coronavirus Disease 2019“, in fase di pubblicazione sul The Medical Journal of Australia [3], e come indicato dalla linea guida dell’Oms “Clinical management of severe acute respiratory infection when novel coronavirus (nCoV) infection is suspected” del 13 marzo 2020 [4], scaricabile qui:

LINEA GUIDA OMS

I corticosteroidi sono stati invece ampiamente utilizzati durante l’epidemia di Sars del 2003.

Un gruppo di ricercatori cinesi ha indagato le conseguenze ossee e polmonari a lungo termine associate alla sindrome respiratoria acuta grave acquisita in ospedale [5] concludendo che,

dopo 15 anni dal contagio, il danno interstiziale e la funzionalità polmonare causati dalla SARS sono per lo più guariti, con un recupero maggiore entro due anni dalla riabilitazione; la necrosi della testa del femore – che si presume sia strettamente correlata alla terapia steroidea ad alte dosi assunta per un periodo limitato di tempo e non in relazione diretta con l’infezione SARS-CoV – non è stata progressiva ed è parzialmente regredita.

Conseguenze ossee e polmonari a lungo termine associate alla sindrome respiratoria acuta grave

Le conseguenze più gravi dopo la guarigione dalla SARS sono la necrosi della testa del femore e la fibrosi polmonare. Ricercatori della Peking University People’s Hospital di Pechino, proprio dove la SARS è scoppiata nel 2003, hanno eseguito un follow-up di 15 anni sulle condizioni polmonari e ossee dei pazienti con SARS, valutando il recupero dal danno polmonare e dalla necrosi della testa femorale in uno studio di coorte osservazionale, utilizzando TAC polmonari, risonanza magnetica dell’anca, test di funzionalità polmonare e questionari sulla funzionalità dell’articolazione dell’anca.

Nel 2003 alla Peking University People’s Hospital di Pechino 80 membri del personale medico contrassero il virus e due decedettero successivamente. Questa coorte divenne la più grande popolazione di pazienti in tutto il mondo; essendo composta da operatori sanitari infettatisi durante la loro attività che hanno ricevuto regimi di trattamento e piani di riabilitazione simili, ha costituito un campione eccezionale per lo studio del decorso naturale dell’infezione da SARS e della necrosi della testa femorale indotta da steroidi.

L’ospedale venne isolato dal governo per 22 giorni. La principale manifestazione clinica dopo l’infezione era febbre alta e grave infiammazione polmonare. I pazienti sopravvissuti presentavano fibrosi polmonare residua e osteonecrosi derivanti dal trattamento con dosi elevate di terapia steroidea.

Il follow-up completo di 15 anni – da agosto 2003 a marzo 2018 – sugli operatori sanitari con SARS nosocomiale ha permesso la comprensione dell’andamento danno polmonare e della necrosi della testa del femore associato alla sindrome respiratoria acuta grave.

Settantun pazienti hanno completato il follow-up di 15 anni.

Funzionalità polmonare

La percentuale di lesioni polmonari rilevata attraverso TAC è diminuita dal 2003 (9,40 ± 7,83%) al 2004 (3,20 ± 4,78%, P<0,001) ed è rimasta stabile fino al 2018 (4,60 ± 6,37%).

Il danno interstiziale e la funzionalità polmonare causati dalla SARS sono per lo più guariti, con un recupero maggiore entro due anni dalla riabilitazione.

Lo studio ha dimostrato che la funzionalità polmonare nel 2018 era sostanzialmente la stessa di quella del 2006, con capacità di diffusione polmonare lievemente compromessa. Sebbene non vi sia stato un recupero sostanziale, si dovrebbe prendere in considerazione la degenerazione naturale della funzione polmonare negli ultimi 15 anni. Inoltre, la funzionalità polmonare dei pazienti che hanno avuto risultati normali della TAC dopo il recupero dalla SARS nel 2003 era sostanzialmente migliore di quella dei pazienti con anomalie. Ciò implica che la funzione polmonare potrebbe essere migliorata in misura maggiore quando la fase acuta della polmonite virale infettiva viene gestita in modo efficace.

Questa scoperta ha un grande valore nel valutare e prevedere la prognosi della polmonite virale.

Necrosi della testa del femore

Il volume della necrosi della testa del femore è diminuito significativamente dal 2003 (38,83 ± 21,01%) al 2005 (30,38 ± 20,23%, P=0,0002), quindi è diminuito lentamente dal 2005 al 2013 (28,99 ± 20,59%) e si è stabilizzato fino al 2018 (25,52 ± 15,51%).

Precedenti studi avevano concluso che nel 5-10% dei pazienti con SARS, dopo il trattamento con steroidi sistemici, si è verificata osteonecrosi subcondrale e che la dose cumulativa di steroidi era un fattore di rischio per l’osteonecrosi.

Tuttavia, non erano disponibili risultati a lungo termine relativi all’osteonecrosi derivante da assunzione di alte dosi di steroidi.

Lo studio della Peking University People’s Hospital indica che lo stato della necrosi della testa del femore causata dalla terapia con alti dosaggi di steroidi per il trattamento della polmonite virale infettiva potrebbe rimanere stabile nel lungo termine e che la necrosi della testa del femore potrebbe persino essere reversibile.

Questo fenomeno differisce chiaramente dall’andamento della necrosi della testa del femore causata dalla somministrazione a lungo termine di steroidi per altre malattie (ad es. leucemia, sindrome nefrosica, artrite reumatoide) che è stato sempre progressivo e irreversibile e alla fine ha portato a un peggioramento della necrosi e al conseguente collasso della testa del femore, con inevitabile perdita della funzione articolare e artrite.

In 15 pazienti (23 arti) tra quelli compresi nello studio si è verificata necrosi della testa del femore che si è presunto fosse strettamente correlata alla terapia steroidea ad alte dosi a breve termine e avesse una scarsa relazione diretta con l’infezione SARS-CoV. Lo studio ha descritto la curva di variazione della necrosi della testa del femore, misurata attraverso RM, dei pazienti con SARS per un periodo di 15 anni. I risultati hanno mostrato che il volume dell’osteonecrosi nei 15 pazienti è sostanzialmente diminuito, dimostrando una tendenza generale al miglioramento e che la funzione articolare dell’anca è progredita lentamente.

I risultati hanno profonde implicazioni cliniche per la comprensione da parte del medico della prescrizione di terapia steroidea.

Riferimenti bibliografici

[1] Ministero della salute – Faq Covid-19

[2] Interim Clinical Guidance for Management of Patients with Confirmed Coronavirus Disease (Covid-19), Centers for Disease Constrol and Prevention, 7 marzo 2020

[3] “Impact of Corticosteroid Treatment in Patients with Coronavirus Disease 2019” in fase di pubblicazione sul The Medical Journal of Australia

[4] Clinical management of severe acute respiratory infection when novel coronavirus (nCoV) infection is suspected, World Health Organization, 13 marzo 2020

[5] Zhang, P., Li, J., Liu, H. et al. Long-term bone and lung consequences associated with hospital-acquired severe acute respiratory syndrome: a 15-year follow-up from a prospective cohort studyBone Res 8, 8 (2020). https://doi.org/10.1038/s41413-020-0084-5

Gestione farmacologica dell’osteoporosi nelle donne in postmenopausa

La Endocrine Society ha pubblicato a marzo sul JCEM un aggiornamento delle linee guida relative alla gestione farmacologica dell’osteoporosi nelle donne in postmenopausa.

Gli autori hanno esaminato i risultati di meta-analisi e di studi clinici per valutare l’efficacia di romosozumab – anticorpo monoclonale che blocca gli effetti della sclerostina – per la prevenzione delle fratture, concludendo che questo farmaco può essere considerato un’opzione di trattamento per le donne in postmenopausa ad alto rischio di frattura osteoporotica.

Date le avvertenze sugli effetti avversi del romosozumab riportate nel foglietto illustrativo, lo specialista deve valutare attentamente il profilo di rischio cardiovascolare nella singola paziente prima della prescrizione del farmaco, poiché i dati della sperimentazione clinica di uno studio comparativo attivo mostrano uno squilibrio negli eventi avversi cardiovascolari gravi tra romosozumab e alendronato.

Linee guide aggiornate a seguito di approvazione di romosozumab

La pubblicazione dell’aggiornamento delle linee guida relative alla gestione farmacologica dell’osteoporosi nelle donne in postmenopausa si è resa necessaria per rispondere alla recente approvazione di romosozumab da parte della Food and Drug Administration (FDA), della European Medicines Agency [Romosozumab, approvazione CE per trattamento di osteoporosi severa], della Health Canada e di altre agenzie e rappresenta un emendamento formale alla pratica clinica recentemente pubblicata dalla Endocrine Society “Linee guida per la gestione farmacologica dell’osteoporosi postmenopausale”.

GRADO

1. Chi trattare

1.1 Si consiglia di trattare con terapie farmacologiche le donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture, in particolare quelle che hanno subito una recente frattura, poiché i benefici superano i rischi.

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2. Bisfosfonati

2.1 Nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture, per ridurre il rischio di fratture si raccomanda il trattamento iniziale con bifosfonati (alendronato, risedronato, acido zoledronico, e ibandronato).

Osservazione tecnica: ibandronato non è raccomandato per ridurre il rischio di fratture non vertebrali o dell’anca.

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2.2 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi che assumono bisfosfonati, si raccomanda di rivalutare il rischio di fratture dopo tre-cinque anni: alle donne che rimangono ad alto rischio di fratture si consiglia di continuare la terapia, mentre per quelle a basso o moderato rischio di fratture dovrebbe essere presa in considerazione una “vacanza terapeutica”.

Osservazione tecnica: una vacanza terapeutica da bisfosfonati è operativamente definita come una sospensione temporanea della somministrazione di bisfosfonati per un massimo di cinque anni. Questo periodo può essere prolungato in funzione della densità minerale ossea e delle condizioni cliniche di ogni singolo paziente. L’evidenza della conservazione dei benefici durante una vacanza da bisfosfonati è più marcata per l’alendronato e l’acido zoledronico, per i quali ci sono studi randomizzati. Sulla base di evidenze ricavate da trial che mostrano effetti residui dopo tre anni di somministrazioni annuali, per l’acido zoledronico (somministrazione i.v. annuale 5 mg) è più appropriato un periodo di rivalutazione più breve della durata di tre anni. Una volta iniziata una vacanza da bisfosfonati, è opportuno rivalutare il rischio di frattura a intervalli di due-quattro anni e considerare di ricominciare la terapia per l’osteoporosi prima del massimo suggerito a cinque anni nel caso si verifichi un significativo calo della densità minerale ossea, intervenga una frattura o altri fattori alterino lo stato di rischio clinico.

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3. Denosumab

3.1 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi che sono ad alto rischio di fratture osteoporotiche, si consiglia di utilizzare denosumab come trattamento iniziale alternativo.

Nota tecnica: il dosaggio raccomandato è di 60 mg per via sottocutanea ogni sei mesi. Se il farmaco viene assunto a un intervallo superiore a sei mesi, gli effetti di denosumab sul rimodellamento osseo, valutati con marker di turnover osseo, si annullano dopo sei mesi. Pertanto, con questo farmaco non è consigliabile una sospensione farmacologica o l’interruzione del trattamento.

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3.2 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi che assumono denosumab, si consiglia di rivalutare il rischio di fratture dopo cinque-dieci anni e per le donne che rimangono ad alto rischio di fratture si suggerisce di continuare con denosumab o di trattarle con altre terapie per l’osteoporosi.

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3.3 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi che assumono denosumab, l’assunzione di denosumab non dovrebbe essere ritardata o interrotta senza la successiva somministrazione di una terapia antiriassorbitiva (ad es. bisfosfonati, terapie ormonali o modulatori selettivi del recettore degli estrogeni) o altra terapia somministrata al fine di prevenire un rebound del turnover osseo e diminuire il rischio di una rapida perdita di densità minerale ossea e un aumento del rischio di fratture.

(Dichiarazione di buone prassi non classificata)

4. Teriparatide e abaloparatide (analoghi dell’ormone paratiroideo e ormone paratiroideo)

4.1 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad altissimo rischio di fratture, come quelle con fratture vertebrali gravi o multiple, per la riduzione delle fratture vertebrali e non vertebrali si raccomanda un trattamento con teriparatide o abaloparatide fino a due anni.

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4.2 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi che hanno completato un ciclo di teriparatide o abaloparatide, si consiglia il trattamento con terapie antiriassorbitive per l’osteoporosi per mantenere nel tempo il guadagno della densità ossea.

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Romosozumab (AGGIORNAMENTO 2020)

A.1 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad altissimo rischio di fratture, come quelle con osteoporosi grave (per es. basso T-score <-2,5 e fratture) o fratture vertebrali multiple, è consigliato il trattamento con romosozumab fino a un anno per riduzione delle fratture vertebrali, dell’anca e non vertebrali.

Osservazione tecnica: il dosaggio raccomandato è di 210 mg al mese per iniezione sottocutanea per 12 mesi. In attesa di ulteriori studi sul rischio cardiovascolare associato alla somministrazione di romosozumab, le donne ad alto rischio di malattie cardiovascolari e ictus non devono essere prese in considerazione per questo trattamento. L’alto rischio include un precedente infarto del miocardio o ictus.

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A.2 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi che hanno completato un ciclo di romosozumab, è raccomandato il trattamento con terapie antiriassorbitive per l’osteoporosi per mantenere l’aumento della densità minerale ossea e ridurre il rischio di fratture.

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5. Modulatori selettivi del recettore degli estrogeni (Serm)

5.1. Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad alto rischio di frattura e con caratteristiche sotto riportate, per ridurre il rischio di fratture vertebrali è consigliata la somministazione di raloxifene o bazedoxifene.

Caratteristiche: pazienti con un basso rischio di trombosi venosa profonda e per le quali i bifosfonati o il denosumab non sono appropriati o con un alto rischio di carcinoma mammario.

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6. Terapia ormonale sostitutiva e tibolone

6.1 Per prevenire qualunque tipo di fratture, in donne in postmenopausa ad alto rischio di frattura e con le caratteristiche sotto riportate, è consigliabile somministrare terapia ormonale sostitutiva, utilizzando la terapia a base di soli estrogeni in donne isterectomizzate.

Caratteristiche: donne con meno di 60 anni o in menopausa da meno di dieci anni; pazienti a basso rischio di trombosi venosa profonda; pazienti per le quali i bifosfonati o il denosumab non sono appropriati; donne con fastidiosi sintomi vasomotori; con ulteriori sintomi climaterici; pazienti senza controindicazioni; senza precedente infarto o ictus miocardico; senza cancro al seno; donne disposte ad assumere terapia ormonale sostitutiva.

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6.2 Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad alto rischio di frattura e con le caratteristiche sotto riportate, per prevenire fratture vertebrali e non vertebrali è raccomandata la somministrazione di tibolone.

Caratteristiche: pazienti con meno di 60 anni o in menopausa da meno di dieci anni; con un basso rischio di trombosi venosa profonda; donne in cui i bifosfonati o il denosumab non sono appropriati; con fastidiosi sintomi vasomotori; con ulteriori sintomi climaterici; senza controindicazioni; senza precedente infarto miocardico o ictus o alto rischio di malattie cardiovascolari; senza cancro al seno; donne disposte a prendere il tibolone. Osservazione tecnica: tibolone non è disponibile negli Stati Uniti e in Canada.

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7. Calcitonina

7.1 Nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di frattura con osteoporosi, si raccomanda la prescrizione di calcitonina spray nasale solamente nelle pazienti che non possono tollerare raloxifene, bisfosfonati, estrogeni, denosumab, tibolone, abaloparatide o teriparatide o per le quali queste terapie non sono ritenute appropriate.

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8. Calcio e vitamina D

8.1 Nelle donne in postmenopausa con bassa densità minerale ossea e ad alto rischio di fratture con osteoporosi, si suggerisce la somministrazione di calcio e vitamina D in aggiunta alle terapie per l’osteoporosi.

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8.2 Nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture con osteoporosi che non possono tollerare bifosfonati, estrogeni, modulatori selettivi della risposta agli estrogeni, denosumab, tibolone, teriparatide e abaloparatide, per prevenire le fratture dell’anca si raccomanda l’integrazione giornaliera di calcio e vitamina D.

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11. Monitoraggio

11.1 Per valutare la risposta al trattamento delle donne in postmenopausa con bassa densità minerale ossea e ad alto rischio di fratture in trattamento per l’osteoporosi, si consiglia ogni uno-tre anni di monitorare la densità minerale ossea mediante densiometria ossea della colonna vertebrale e dell’anca.

Osservazione tecnica: il monitoraggio dei marker di turnover osseo (telopeptide C-terminale sierico per terapia antiriassorbitiva o fosfatasi alcalina per terapia anabolica ossea) è un modo alternativo di identificare una risposta scarsa o una non aderenza alla terapia.

 

Algoritmo per la gestione dell’osteoporosi postmenopausale

Per guidare i clinici nelle scelte terapeutiche più appropriate quando discutono il processo decisionale clinico con il paziente, la Endocrine Society ha pubblicato un algoritmo aggiornato.

Algoritmo aggiornato per la gestione dell'osteoporosi postmenopausale
Algoritmo aggiornato per la gestione dell’osteoporosi postmenopausale. Nota: Per stimare il rischio di frattura è stato utilizzato l’algoritmoFRAX (Fracture Risk Assessment Tool). Sono state definite le seguenti categorie di rischio: (1) rischio basso nessuna frattura pregressa dell’anca o della colonna vertebrale, T-score BMD dell’anca e della colonna vertebrale superiore a -1,0, rischio di frattura dell’anca a 10 anni <3% e di fratture osteoporotiche maggiori a 10 anni <20%; (2) rischio moderato nessuna frattura pregressa dell’anca o della colonna vertebrale, un BMD T-score dell’anca e della colonna vertebrale superiore a -2,5 e rischio di frattura dell’anca a 10 anni <3% o rischio di fratture osteoporotiche maggiori <20%; (3) rischio elevato precedente frattura della colonna vertebrale o dell’anca, o un BMD T-score dell’anca o della colonna vertebrale di −2,5 o inferiore, o rischio di frattura dell’anca a 10 anni ≥3% o rischio di frattura osteoporotica maggiore ≥20%; e (4) rischio molto elevato fratture multiple della colonna vertebrale e un BMD T-score dell’anca o della colonna vertebrale di -2,5 o inferiore.

Linee guida

Dolores Shoback, Clifford J Rosen, Dennis M Black, Angela M Cheung, M Hassan Murad, Richard Eastell, Pharmacological Management of Osteoporosis in Postmenopausal Women: An Endocrine Society Guideline UpdateThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 105, Issue 3, March 2020, dgaa048, https://doi.org/10.1210/clinem/dgaa048

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Cambiamenti nel profilo metabolico osseo in gravidanza e allattamento

La gravidanza e l’allattamento inducono significativi cambiamenti metabolici nello scheletro materno. Inizialmente, l’assorbimento intestinale di calcio è favorito dall’aumento dei livelli di vitamina D3 attiva, 1,25(OH)2D3 e di PTH. Se ciò è insufficiente per soddisfare le esigenze di calcio, il calcio viene mobilizzato dallo scheletro materno tramite l’attività degli osteoclasti o i meccanismi di osteolisi osteocitica, che a loro volta causano una riduzione di massa ossea e in alcuni rari casi fratture da fragilità nelle madri.

Durante la gravidanza e l’allattamento, calcio e nutrienti vengono trasferiti dalle madri rispettivamente ai feti e ai neonati, promuovendo nella donna cambiamenti metabolici, molti dei quali non sono caratterizzati.

Per valutare questi cambiamenti, un gruppo di ricercatori giapponesi ha intrapreso due studi paralleli. In uno sono stati analizzati 14 casi clinici di fratture da fragilità vertebrale contrassegnati da forte mal di schiena e verificatisi nei primi tre mesi dopo il parto in madri tra i 31 e i 44 anni che allattavano al seno i loro bambini. Nell’altro, sono state arruolate 79 donne in gravidanza, alcune che dopo il parto hanno scelto di allattare al seno e altre che non lo hanno fatto, e sono stati analizzati i cambiamenti metabolici, a partire dal periodo tra la 34a e la 36a settimana di gestazione e terminando un mese dopo il parto.

Nel gruppo più ampio, i parametri di riassorbimento osseo e di formazione ossea – rispettivamente i livelli di fosfatasi acida tartrato resistente 5b (TRAcP 5b) e di osteocalcina – sono aumentati significativamente dopo il parto. Dopo il parto, il paratormone (PTH) sierico e i marker di riassorbimento osseo TRAcP 5b nel sangue e N-Telopeptide urinario (NTx) sono risultati significativamente più alti nelle madri che avevano scelto l’allattamento esclusivo al seno rispetto a quelli rilevati nelle madri che alimentavano i neonati con latti artificiali o con un mix. Tuttavia, i marcatori di formazione ossea sono risultati comparabili tra i gruppi di donne che allattavano e quelli che non allattavano, suggerendo che un elevato riassorbimento osseo si è verificato solo nel gruppo che allatta.

Le analisi radiografiche dopo il parto hanno dimostrato che nessuna delle donne tra le 79 analizzate ha mostrato fratture vertebrali, nemmeno tra quelle che allattavano esclusivamente al seno.

Nei casi di frattura analizzati, i soggetti presentavano una densità minerale ossea significativamente inferiore rispetto ai casi non fratturati delle donne che allattavano esclusivamente al seno. La maggior parte dei soggetti fratturati ha mostrato BMD inferiore nella colonna lombare rispetto al collo del femore, suggerendo che la gravidanza e/o l’allattamento riducono la BMD nelle ossa vertebrali, che sono ricche di osso spugnoso rispetto al collo del femore. Pertanto, gli osteoclasti tendono probabilmente a riassorbire l’osso in modo più efficiente dalle ossa spongiose rispetto alle ossa corticali. Inoltre, il carico meccanico della colonna vertebrale materna, probabilmente dovuto al trasporto o alla detenzione dei bambini, potrebbe costituire uno stress meccanico associato a fratture da fragilità vertebrale.

Lo stato metabolico osseo cambia in modo significativo nel periodo tra la gravidanza e l’allattamento post-partum e la bassa densità minerale ossea osservata in un piccolo sottogruppo di casi di allattamento esclusivo al seno provoca probabilmente fratture da fragilità vertebrale post-partum.

Schema che mostra i meccanismi alla base della fragilità ossea o delle fratture a bassa energia dovute a gravidanza e allattamento.
Schema che mostra i meccanismi alla base della fragilità ossea o delle fratture a bassa energia dovute a gravidanza e allattamento. Il calcio fetale viene fornito dallo scheletro materno, promuovendo un elevato turnover osseo a causa di un drastico calo dei livelli di estrogeni dopo il parto. Questi fenomeni promuovono l’attività degli osteoclasti senza accompagnare l’attività degli osteoblasti e una perdita della massa ossea in condizioni di solo allattamento. Si noti che prima della gravidanza può esistere una bassa densità di massa ossea e anche una combinazione di alterazioni metaboliche ossee e stress meccanici possono svolgere un ruolo nella fragilità o nelle fratture a basso trauma.

Lo studio mostra alcune limitazioni: ai soggetti non è stato chiesto lo stato nutrizionale, inclusa l’assunzione di vitamina D e di calcio. Mancano anche i dati BMD per i soggetti fratturati o non fratturati prima dell’inizio dello studio. Tuttavia, i soggetti con frattura presentavano una BMD significativamente inferiore rispetto ai soggetti non fratturati che avevano allattato al seno, suggerendo che i soggetti con frattura potrebbero aver avuto un BMD più basso prima della gravidanza e che le loro fratture vertebrali erano state causate da cambiamenti metabolici e stress meccanici sperimentati durante la gravidanza e l’allattamento.

Per le giovani donne in età fertile sono raccomandati esami per valutare la densità minerale ossea BMD.

Per convalidare i risultati sono necessari ulteriori studi.

Come si modifica il metabolismo osseo in gravidanza e allattamento

Gravidanza e allattamento alterano il metabolismo scheletrico: durante la gravidanza, la madre fornisce al feto i nutrienti e in particolare il calcio; dopo la nascita, l’allattamento al seno continua a fornire calcio ai bambini. Pertanto, per soddisfare le esigenze dei bambini, nelle madri deve aumentare il riassorbimento del calcio dall’intestino e per migliorare l’apporto di calcio, vengono attivati il riassorbimento osseo da parte di osteoclasti e l’osteolisi osteocitica, con conseguente riduzione della massa ossea nelle donne. Casi clinici hanno descritto fratture da fragilità negli scheletri materni dopo il parto. Queste condizioni sono rare e i meccanismi patofisiologici sottostanti sono sconosciuti.

Durante la gravidanza e l’allattamento, i cambiamenti ormonali possono perturbare l’omeostasi scheletrica. I livelli sierici dell’ormone paratiroideo (PTH) o della proteina paratiroidea (PTHrP) aumentano durante l’allattamento. Livelli elevati di PTH promuovono la differenziazione e l’attivazione degli osteoclasti, seguite da aumenti dei livelli sierici di calcio dovuti al riassorbimento osseo osteoclastico attivato, che a sua volta riduce la massa ossea.

Dopo la menopausa, le donne mostrano una riduzione ben documentata della massa ossea. La carenza di estrogeni dovuta alla menopausa attiva il riassorbimento osseo osteoclastico, portando all’osteoporosi, che è frequentemente associata a fratture da fragilità ossea. Allo stesso modo, dopo il parto, le madri si trovano in una condizione transitoria di “menopausa”, che probabilmente altera il metabolismo osseo. Gli osteoclasti esprimono il recettore degli estrogeni (ER) e la perdita di estrogeni o la mancanza di ER negli osteoclasti attiva il riassorbimento osseo in queste cellule. Questi cambiamenti possono verificarsi non solo in menopausa ma anche in donne in gravidanza o in allattamento.

Nel rimodellamento osseo, che permette allo scheletro di adattarsi alle necessità meccaniche e metaboliche dell’organismo, si distinguono le fasi di riassorbimento e neoformazione, la prima caratterizzata dall’attività degli osteoclasti, la seconda da quella degli osteoblasti. In condizioni fisiologiche, l’attività di queste due popolazioni cellulari è coordinata e interconnessa con il meccanismo di “coupling”. Un aumento del riassorbimento osseo attiva la formazione ossea e, se non regolato, porta a una riduzione della massa ossea frequentemente osservata nei disturbi scheletrici come l’osteoporosi postmenopausale. La proteina RANKL (receptor activator of nuclear factor kappa B) svolge un ruolo fondamentale nella differenziazione e attivazione degli osteoclasti e la mancanza di RANKL o del suo recettore specifico RANK abroga completamente l’osteoclastogenesi. È interessante notare che il sistema RANKL-RANK è richiesto anche per lo sviluppo della ghiandola mammaria durante l’allattamento, e le femmine di topi prive di RANKL o RANK possono rimanere incinte ma non possono allattare. Pertanto, sono da considerarsi correlati anche la formazione di osteoclasti e l’allattamento.

Lo studio

Miyamoto, T., Miyakoshi, K., Sato, Y. et al. Changes in bone metabolic profile associated with pregnancy or lactationSci Rep 9, 6787 (2019).

Uso di denosumab in bambini con displasia ossea osteoclastica

Il denosumab è usato con successo per trattare malattie associate all’iperattività degli osteoclasti, tra cui il tumore a cellule giganti delle ossa (GCTB), osteoporosi e lesioni litiche associate a metastasi ossee.

Sempre più spesso denosumab è utilizzato off-label per altri disturbi dell’osso che si ritiene derivino, almeno in parte, da una patologia osteoclastica simile. Questi includono granuloma a cellule giganti centrali (CGCG), cisti ossea aneurismatica (ABC), cherubismo e displasia fibrosa (FD).

L’uso di denosumab nei pazienti pediatrici è scarsamente studiato e, in assenza di studi relativi a sicurezza ed efficacia, i clinici sono comprensibilmente riluttanti a usare la terapia in questa popolazione.

Nello studio “Use of Denosumab in Children With Osteoclast Bone Dysplasias: Report of Three Cases” i ricercatori presentano la loro esperienza nel trattamento off-label con denosumab di tre pazienti pediatrici per una diagnosi di CGCG, ABC e cherubismo.

I bambini sono stati seguiti per un periodo di tre anni presso l’UCLA Medical Center (Los Angeles e Santa Monica, California, USA): un dodicenne con ABC ricorrente del bacino, un quattordicenne con CGCG della mandibola e un dodicenne con cherubismo. Tutti hanno iniziato con un ciclo di un anno di 15 dosi 120 mg sottocutanea, somministrate mensilmente con due dosi di carico l’8 e il 15° giorno.

Durante il trattamento con denosumab, tutti i pazienti hanno mostrato un miglioramento clinico rapido e pronunciato, inclusa una significativa riduzione del dolore e sclerosi delle lesioni litiche (valutate con radiografie). Entro un mese dall’inizio della terapia, due pazienti hanno manifestato ipocalcemia (Common Terminology Criteria for Adverse Events [CTCAE] grado 2) e ipofosfatemia, con un paziente con sintomi. Un paziente ha continuato a sperimentare ipercalcemia di rimbalzo sintomatica (grado CTCAE 4) cinque mesi dopo aver completato la terapia, richiedendo bifosfonati e calcitonina. Per il secondo paziente, è stato sviluppato un programma per la progressiva sospensione di denosumab che prevede l’allungamento progressivo del tempo tra le dosi da uno a quattro mesi con incrementi di un mese prima della cessazione.

La terapia con denosumab porta a un significativo miglioramento clinico e radiografico per i pazienti pediatrici con ABC, CGCG e cherubismo non resecabili.

I problemi di calcemia possono essere più comuni nei pazienti più giovani, con ipercalcemia di rimbalzo sintomatica e protratta dopo l’interruzione della terapia. I ricercatori hanno individuato una potenziale soluzione a questo problema effettuando un progressivo allungamento degli intervalli tra la somministrazione delle dosi. Potenziali eventi avversi gravi da alterazioni dell’omeostasi del calcio devono essere esplorati in studi clinici prospettici.

Somministrazione di denosumab a paziente con cisti ossea aneurismatica (ABC) ricorrente del bacino

A una bambina di dieci anni era stata diagnosticata un’estesa ABC del bacino. Sottoposta a curettage e innesto osseo ha tollerato bene la procedura. Tuttavia, due anni dopo si è presentata con dolore dopo una caduta; constatato che l’ABC pelvica si era ripresentata, la paziente ha subito un secondo curettage e innesto osseo. L’istologia ha rivelato una lesione ossea cistica con tessuto connettivo, tessuto osseo reattivo ed emorragia, con fibroblasti e cellule giganti sparse di tipo osteoclasto.

Il suo caso è stato esaminato da un team multidisciplinare specializzato nel trattamento di tumori muscoloscheletrici: è stato convenuto che era presente un’ulteriore ABC e che la lesione non era suscettibile di ripetere il curettage senza significativa potenziale morbilità. A un mese dal suo 13° compleanno, con un peso di 40 kg, la paziente ha iniziato la terapia con denosumab. Ha ricevuto per un anno dosi di 120 mg di denosumab con un programma mensile, con una dose di carico di 8 giorni (ha perso una dose di carico di 15 giorni).

La paziente ha ottenuto un’eccellente risposta clinica e l’ultimo imaging ha mostrato sclerosi delle cisti, senza aumento delle dimensioni. Il dolore all’anca che era presente prima dell’inizio del trattamento con denosumab si è risolto rapidamente nel corso del primo mese di terapia. Ha continuato a non avere dolori all’anca e non ha avuto problemi di deambulazione nei 13 mesi successivi all’interruzione di denosumab.

Denosumab e ABC
Paziente con cisti ossea aneurismatica del bacino. (A, B) Judet film normale e TC sagittale prima della terapia con denosumab e dopo i due precedenti interventi chirurgici; (C, D) e film posteroanteriore del bacino e TC sagittale dopo terapia con denosumab

Gli eventi avversi sono stati misurati attraverso CTCAE v4.0 (Common Terminology Criteria for Adverse Events). Nel primo mese di terapia, la paziente ha manifestato ipocalcemia asintomatica con ipofosfatemia associata. La calcemia si è normalizzata entro due mesi senza alcun intervento. Cinque mesi dopo la sua dose finale, è stata ricoverata con calcio sierico di 15,5 mg/dL e sintomi di ipercalcemia, incluso dolore addominale diffuso grave, nausea e vomito. Non aveva evidenze di analisi di laboratorio o radiologiche di nefrocalcinosi. Ha richiesto bisfosfonati, furosemide e calcitonina per abbassare la calcemia. Dopo la dimissione, la calcemia era tornata alla normalità a 9,6. Ha avuto due episodi di ipercalcemia asintomatica il mese successivo con 11,6 e 11,5 mg/dL , rispettivamente, che si sono corretti con due settimane di terapia con furosemide e successivamente ha avuto livelli normali di calcemia.

Somministrazione di denosumab a paziente con granuloma a cellule giganti centrali della mandibola

All’età di 14 anni, a un paziente che dall’età di dieci anni presentava una massa mandibolare progressiva è stato diagnosticato un granuloma a cellule giganti centrali (CGCG). Ha avuto una recidiva di CGCG con denti inferiori fluttuanti e forte dolore alla masticazione. Dato il dolore progressivo grave, il fallimento degli steroidi intralesionali e della calcitonina, la significativa limitazione funzionale e la crescita progressiva della massa, è stata presa in considerazione una mandibulectomia parziale. A causa della potenziale morbilità derivante da questa procedura chirurgica, è stata considerata la terapia con denosumab come un potenziale modo per evitarne o ritardarne la necessità. Il paziente ha iniziato la terapia con denosumab all’età di 14 anni e ha ricevuto dosi di denosumab mensili con dosi di carico il giorno 8° e il giorno 15° per un totale di 15 dosi da 120 mg nel corso di un anno. All’inizio della terapia il ragazzo pesava 56 kg all’inizio. Durante il trattamento con denosumab o dopo il completamento della terapia il paziente non ha avuto alcuna complicazione e le sue analisi di laboratorio non hanno dimostrato alcuna marcata anomalia dei livelli di calcitonia e durante la terapia la fosfatasi alcalina sierica è stata adeguatamente contenuta al di sotto dell’intervallo normale.

Il paziente ha avuto un’eccellente risposta clinica e radiologica. Entro un mese dall’inizio della somministrazione di denosumab, il dolore mandibolare grave è stato completamente risolto, la masticazione è tornata pienamente funzionale e la dentatura, che era libera e dolorosa, si è fissata nella mandibola. Con la terapia, la fosfatasi alcalina sierica è diminuita in modo appropriato.

Denosumab e CGCG
Paziente con granuloma a cellule giganti centrali della mandibola (A) prima di denosumab, (B) dopo sei mesi di terapia e (C) dopo dieci mesi di terapia.

Somministrazione di denosumab a paziente con cherubismo

A una bambina era stato diagnosticato cherubismo all’età di cinque anni. La malattia era progressiva e refrattaria ai trattamenti. La paziente presentava forte dolore bilaterale a mandibola e mascella e sanguinamento gengivale e orale incontrollato. La situazione ha provocato numerosi accessi al pronto soccorso e ha richiesto uso di oppioidi e procoagulanti orali (acido aminocaproico). La bambina ha iniziato la terapia con denosumab a 12 anni. All’inizio della terapia, la ragazza pesava 42 kg.

Entro un mese dall’inizio della terapia con denosumab, il dolore si era completamente risolto così come il sanguinamento orale. Dopo sei mesi di trattamento, la paziente ha mostrato un’eccellente risposta radiografica con aumento della sclerosi delle lesioni mandibolari e mascellari gravemente osteolitiche.

Denosumab e cherubismo
Paziente con cherubismo (A, C). Immagini sagittali e coronali rappresentative prima dell’inizio della terapia con denosumab (B, D) e dopo sei mesi di terapia.

La tossicità associata al trattamento ha incluso un evento avverso grave di ipocalcemia di grado 3 CTCAE che ha richiesto il ricovero ospedaliero, con sintomi di formicolio e intorpidimento delle mani, nonché di debolezza generalizzata. La paziente mostrava concomitante ipofosfatemia a 2,6 mg/dL, con un PTH sierico normale di 48 pg/mL (intervallo da 11 a 51 pg/mL). Contrariamente ai pazienti con ABC e CGCG, in risposta alla terapia con denosumab la fosfatasi alcalina sierica inizialmente è aumentata per poi diminuire. Dopo questo episodio, la dose di denosumab è stata ridotta del 50% e portata a 60 mg al mese. Dopo dieci mesi di terapia, è iniziato il programma di interruzione graduale di denosumab. La paziente ha ricevuto l’undicesima dose due mesi dopo la decima e la dodicesima dose due mesi dopo. La tredicesima dose è prevista tre mesi dopo la dodicesima; la dose finale sarà somministrata quattro mesi dopo la dose precedente.

Indicazioni di uso off-label di denosumab

Nei casi descritti nello studio, la terapia con denosumab ha determinato un significativo miglioramento dei parametri clinici e degli esiti radiografici in pazienti pediatrici con ABC, CGCG e cherubismo.

Nei pazienti più giovani, i problemi di calcemia sia all’inizio del trattamento che alla sospensione della somministrazione di denosumab possono essere più comuni  rispetto a quelli rilevati negli adulti, con ipercalcemia di rimbalzo sintomatica e protratta dopo l’interruzione della terapia più significativa. Come soluzione al problema i ricercatori hanno proposto il progressivo allungamento del tempo tra le somministrazioni da uno a quattro mesi, con incrementi di un mese prima della cessazione definitiva di denosumab. Raccomandano inoltre di ridurre o possibilmente eliminare le dosi di carico per evitare ipocalcemia all’inizione della terapia.

Denosumab può essere un’opzione terapeutica praticabile per i bambini con displasia ossea osteoclastica non resecabile come ABC, CGCG, cherubismo e FD.

Tuttavia, a causa di potenziali eventi avversi gravi da alterazioni dell’omeostasi del calcio, questa opzione deve essere esplorata attentamente in studi clinici prospettici su denosumab in bambini e adolescenti con le suddette malattie.

Lo studio

A. Upfill‐Brown, S. Bukata, N. M. Bernthal et al. Use of Denosumab in Children With Osteoclast Bone Dysplasias: Report of Three Cases, JBMR Plus. 2019 Oct; 3(10): e10210, doi: 10.1002/jbm4.10210

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Microarchitettura ossea e ipoparatiroidismo post-chirurgico

L’ipoparatiroidismo è una rara condizione clinica caratterizzata da ipocalcemia e iperfosfatemia dovuta a bassi livelli di paratormone (PTH).

Bassi livelli di PTH circolante portano a uno stato di turnover osseo basso, con conseguente aumento della densità della massa ossea (BMD) insieme a cambiamenti di microarchitettura.

L’effetto di questi cambiamenti sul rischio di frattura deve ancora essere determinato e i dati pubblicati sono ancora discordanti: alcuni indicano protezione contro le fratture degli arti superiori [hazard ratio (HR), 0,69; IC al 95%, da 0,49 a 0,97] e altri che mostrano una maggiore prevalenza di fratture vertebrali morfometriche in pazienti con PsH (63%) rispetto ai controlli (11,8%). Per quanto riguarda l’incidenza delle fratture, uno studio prospettico che ha seguito 32 pazienti per una media (± DS) di 78 ± 68 mesi ha identificato quattro pazienti (12,5%) con eventi di frattura durante il periodo di follow-up.

Strumenti complementari alla densitometria ossea, come il punteggio dell’osso trabecolare (TBS, trabecular bone score), possono aiutare a stimare il rischio di fratture nella popolazione generale. La TBS è associata al rischio di frattura osteoporotica, indipendentemente dalla BMD e dai fattori di rischio clinici. Valori TBS più elevati riflettono trabecole più dense con buona connettività e microarchitettura più resistente alla frattura. Punteggi >1,310 indicano un basso rischio di fratture osteoporotiche, valori <1,230 indicano un rischio elevato e valori intermedi indicano un rischio intermedio.

Gli effetti della deprivazione di paratormone (PTH) sull’osso non sono ancora chiari. Un gruppo di ricercatori dell’Università di San Paulo (Brasile) ha condotto uno studio per verificare il deterioramento dell’architettura ossea in pazienti con ipoparatiroidismo post-chirurgico (PsH), correlando i loro dati clinici, densitometrici e di laboratorio ai valori di TBS. Come obiettivo secondario sono state esplorate le possibili associazioni tra queste variabili e gli eventi fratturativi verificatisi.

Risultati

L’analisi ha incluso 82 pazienti di cui 12 uomini (14,6%) e 70 donne (85,4%), con un’età media di 59 anni e un BMI mediano di 27,7 kg/m2 . La maggior parte delle donne (68,6%) era in menopausa; 17 pazienti avevano diabete mellito di tipo 2 (T2DM).

Delle 68 scansioni di assorbimento di raggi X a doppia energia (DXA) ottenute, l’osteopenia e l’osteoporosi erano presenti rispettivamente nel 32,4% delle pazienti femmine e nel 2,9% dei pazienti maschi. Complessivamente, sono state analizzate 62 scansioni lombari utilizzando TBS. Il valore medio di TBS (± DS) era 1,338 ± 0,140 e il 32,2% dei risultati era <1,310.

I valori di TBS sono risultati correlati negativamente con BMI (principalmente >30 kg/m2), età (principalmente >60 anni) e glicemia, mentre TBS anormale è risultato correlata a osteopenia, T2DM, frattura a basso impatto e menopausa.

Sei pazienti di sesso femminile presentavano fratture a basso impatto, associate a una TBS inferiore (1,178 ± 0,065 vs. 1,404 ± 0,130 nel gruppo senza fratture; P<0,001), età avanzata, indice di massa corporea superiore, funzione renale compromessa, glicemia anormale e osteopenia.

Fattori di rischio per la perdita ossea e microarchitettura ossea in individui con PsH

L’ipoparatiroidismo è una condizione derivante dalla ridotta secrezione o produzione di PTH con successiva ipocalcemia cronica e iperfosfatemia. Lo stato risultante di basso turnover osseo è di solito accompagnato da una BMD più elevata rispetto a una normale popolazione di età e sesso.

Nonostante la limitazione del piccolo numero di pazienti e di eventi di frattura, lo studio in esame – che descrive i valori di TBS esclusivamente nei pazienti con PsH, correlando questi valori con le caratteristiche cliniche e di laboratorio e fornendo dati sulle fratture in questa popolazione – ha trovato correlazioni significative tra i valori di TBS e le variabili raccolte, suggerendo che anche i fattori noti per interferire nella qualità dell’osso esercitano influenza in questa popolazione, indipendentemente dal BMD più elevato riscontrato.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori affermano che:

i fattori di rischio noti per la perdita ossea compromettono la microarchitettura ossea degli individui con PsH, indipendentemente dai risultati DXA.

Le donne in menopausa con PsH e i pazienti più anziani con PsH che hanno osteopenia, un BMI più elevato o T2DM possono essere candidati per una valutazione più dettagliata usando, ad esempio, la TBS.

Tutto ciò suggerisce la necessità di valutare in modo personalizzato la qualità ossea in pazienti con PsH, tenendo conto del rischio di frattura di ciascuno di essi.

Ipoparatiroidismo

L’ipoparatiroidismo è una rara condizione clinica caratterizzata da ipocalcemia e iperfosfatemia dovuta a bassi livelli di paratormone (PTH).

Cause

La causa più comune di questa condizione è il danno alle ghiandole paratiroidi a seguito di interventi chirurgici al collo anteriore, ma può anche essere causata da malattie autoimmuni, genetiche o infiltrative.

Prevalenza

La prevalenza dell’ipoparatiroidismo varia ampiamente a seconda di diversi fattori, come l’estensione chirurgica, l’uso della radioterapia e l’esperienza del chirurgo. I dati provenienti da centri specializzati negli Stati Uniti e in Europa riportano un tasso <2% di ipoparatiroidismo post-chirurgico permanente (PsH) dopo resezione totale della tiroide; tuttavia, l’ipocalcemia transitoria (della durata di <6 mesi) è molto più comune e si verifica tra il 20% e il 30% dei pazienti sottoposti a tiroidectomia.

Sintomi

I sintomi dell’ipoparatiroidismo derivano da ipocalcemia e possono presentarsi come parestesia, crampi, disfunzioni cognitive, convulsioni, anomalie cardiovascolari e calcificazioni dei tessuti molli.

Lo studio

Eliane Naomi Sakane, Maria Carolina Camargo Vieira, Marise Lazaretti-Castro, Sergio Setsuo Maeda, Predictors of Poor Bone Microarchitecture Assessed by Trabecular Bone Score in Postsurgical Hypoparathyroidism The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 104, Issue 12, December 2019, Pages 5795–5803, https://doi.org/10.1210/jc.2019-00698

Vitamina K e salute delle ossa

Ricercatori dell’Ospedale universitario Fundación Jiménez Díaz di Madrid hanno effettuato una review della letteratura pubblicata sul Journal of Osteoporosis per studiare gli effetti della carenza di vitamina K, della supplementazione di vitamina K e dell’assunzione di anticoagulanti orali antagonisti della vitamina K su diversi parametri ossei. I ricercatori hanno preso in considerazione articoli che analizzano gli aspetti rilevanti della relazione tra vitamina K e salute delle ossa presenti nei database PubMed, Medline e Cochrane.

Sebbene sia nota per la sua importanza nella cascata della coagulazione, la vitamina K ha anche altre funzioni. Poiché prende parte alla carbossilazione di molte proteine ​​correlate alle ossa, regola la trascrizione genetica dei marker osteoblastici e regola il riassorbimento osseo, la vitamina K è essenziale alla salute delle ossa.

La carenza di vitamina K non è rara, poiché l’organismo non è in grado di produrne in quantità sufficienti e deve essere assunta con la dieta. Inoltre anche l’assunzione di anticoagulanti orali dell’antagonista della vitamina K induce carenza di vitamina K. La maggior parte degli studi rileva che basse concentrazioni sieriche di K1, alti livelli di osteocalcina carbossilata (ucOC) e un basso apporto dietetico di K1 e K2 sono associati a un rischio maggiore di fratture e a una densità di massa ossea (BMD) inferiore.

Gli studi relativi alla relazione tra la supplementazione di vitamina K e il rischio di frattura rilevano che assumendo integratori si potrebbe ridurre il rischio di fratture, ma sono necessari studi appositamente progettati che prevedano come endpoint primario la frattura.

Anche la riduzione del rischio di frattura con l’uso di anticoagulanti orali non antagonisti della vitamina K (NOAC) al posto del warfarin è interessante, ma ancora una volta le prove disponibili offrono risultati difformi. Le prove scarse e limitate, inclusi studi di bassa qualità che hanno raggiunto conclusioni discordanti, rendono impossibile trarre solide conclusioni su questo argomento, in particolare per quanto riguarda l’uso di integratori di vitamina K.

Vitamina K, fratture e densità minerale ossea

La maggior parte degli studi rileva che basse concentrazioni sieriche di K1, alti livelli di osteocalcina non carbossilata (ucOC) e un basso apporto dietetico di K1 e K2 sono associati a un maggior rischio di fratture.

La correlazione tra assunzione di vitamina K attraverso la dieta e il rischio di fratture ha evidenze sostanziali. Uno dei più grandi studi in materia è l’analisi prospettica risalente al 1999 “Vitamin K intake and hip fractures in women: a prospective study” condotta nell’ambito dello Nurse’ Health Study effettuata su 72.327 donne di età compresa tra 38 e 74 anni, con un follow-up di 10 anni. In questo studio, i soggetti con un apporto di vitamina K1 superiore a 109 μg/die hanno presentato un rischio relativo di frattura dell’anca significativamente inferiore aggiustato per età rispetto alle donne con un apporto inferiore (RR: 0,70; intervallo di confidenza al 95% (CI): 0,53, 0,93 ). L’assunzione di dosi più elevate di vitamina K non ha apportato nessun ulteriore beneficio nella riduzione di fratture, anzi sembra esistere una soglia oltre la quale il rischio di fratture inizia a salire.

La meta-analisi “Vitamin K intake and the risk of fractures: a meta-analysis” del 2017 che includeva quattro studi di coorte e uno studio di case-control nidificato, sommando un totale di 80.982 partecipanti e 1114 fratture ha mostrato una proporzionalità inversa tra l’assunzione di vitamina K1 con la dieta e il rischio di fratture, senza trovare alcun “effetto soglia”. In questo studio, i soggetti con il più alto apporto di vitamina K hanno presentato una riduzione del 22% nel rischio di fratture (IC 95%: 0,56-0,99), ma vale la pena ricordare che tra gli studi è stata riscontrata una moderata eterogeneità. L’analisi dei sottogruppi ha mostrato che solo studi con un follow-up di dieci o più anni hanno trovato questa associazione.

Se una maggior assunzione di vitamina K sia associata a valori di BMD più alti è ancora una questione controversa. Sebbene l’assunzione di vitamina K con la dieta sia stata collegata a un minor rischio di frattura, i risultati dell’effetto sulla BMD sono più incoerenti. Ad esempio, usando la Framingham study cohort, Booth et al. nello studio “Dietary vitamin K intakes are associated with hip fracture but not with bone mineral density in elderly men and women“, pubblicato nel maggio del 2000 su The American Journal of Clinical Nutrition hanno analizzato la variazione della BMD in sei siti anatomici di 888 pazienti con un’età media di 75 anni con assunzioni PK diverse valutate attraverso un questionario validato sulla frequenza alimentare. Gli autori non hanno trovato un’associazione significativa tra BMD in nessun sito e assunzione di PK, nonostante la correzione di potenziali variabili confondenti come l’età, l’indice di massa corporea, il consumo di fumo/alcol, altre assunzioni dietetiche (calcio e vitamina D) e l’uso di estrogeni. Tuttavia, hanno trovato un’associazione significativa tra l’assunzione di PK e le fratture, suggerendo che questo evento è stato mediato da fattori diversi dalla perdita di BMD. Gli stessi autori hanno pubblicato tre anni dopo “Vitamin K intake and bone mineral density in women and men”, questa volta includendo 2591 individui, con un’età media più giovane (rispettivamente 58 e 59 anni per donne e uomini). In questa analisi, un basso apporto di PK ha mostrato un’associazione indipendente dall’età con BMD all’anca e alla colonna vertebrale, ma solo nelle donne. Gli autori non possono giustificare questi risultati con la differenza di età tra le due coorti, ma suggeriscono piuttosto che il maggior numero di partecipanti può spiegare la variazione dei risultati. Inoltre, uno studio del 2016 che ha coinvolto una coorte di donne danesi in perimenopausa non ha trovato alcuna associazione tra assunzione di K1 e BMD al collo del femore o alla colonna lombare.

Nel complesso, sono ignote le ragioni alla base dei risultati contraddittori relativi agli effetti che l’assunzione di vitamina K ha sui parametri ossei.

Un problema può essere ricondotto al fatto che molti studi si limitano a valutare solamente l’assunzione di vitamina K1, che è la forma principale presente nella dieta, senza considerare che anche l’assunzione di vitamina K2 può rappresentare una variabile importante.

Un’altra difficoltà è che l’assunzione di vitamina K viene mal correlata ai cambiamenti nelle concentrazioni sieriche. Nello studio “Associations between Vitamin K Biochemical Measures and Bone Mineral Density in Men and Women” Booth et al. hanno valutato la presenza di vitamina K attraverso i valori plasmatici di K1 e i valori sierici di osteocalcina non carbossilata (under-γ-carboxylated osteocalcin ucOC). Nello studio, che ha coinvolto 863 donne e 741 uomini senza differenze significative nell’assunzione di K1 media (151-177 μg/giorno), uno stato di vitamina K scarso è stato associato a BMD bassa al collo del femore negli uomini e BMD bassa alla colonna vertebrale nelle donne senza terapia sostitutiva con estrogeni. Questa associazione non era significativa nelle donne in premenopausa o postmenopausa con terapia sostitutiva con estrogeni. Pertanto, questo studio evidenzia l’importanza di regolare i risultati per variabili come lo stato degli estrogeni. Infine, nel piccolo studio “Relation Between Circulating Vitamin K1 and Osteoporosis in the Lumbar Spine in Syrian Post-Menopausal Women” condotto da Jaghsi et al. nelle donne in postmenopausa senza terapia sostitutiva con estrogeni, il K1 sierico era positivamente correlato alla BMD della colonna lombare. La sensibilità diagnostica e la specificità dei valori di vitamina K1 per l’osteoporosi erano rispettivamente del 90% e del 98% e gli autori propongono che la vitamina sierica K1 potrebbe essere utile come strumento diagnostico per l’osteoporosi.

Una limitazione importante a questi studi è la difficoltà di regolare i risultati per le variabili confondenti. Gli alimenti ricchi di vitamina K possono veicolare anche altri nutrienti “amici” delle ossa (calcio, magnesio ecc.) che possono interferire con i risultati.

Alla luce degli studi riportati, sembra che i valori di ucOC siano un buon indicatore della salute delle ossa.

Effetto della supplementazione di vitamina K su fratture e BMD

Gli effetti della supplementazione di vitamina K sulla BMD sono riassunti nella meta-analisi “Effect of vitamin K on bone mineral density: a meta-analysis of randomized controlled trials” eseguita da Fang et al., che comprendeva sia soggetti sani che pazienti affetti da osteoporosi primaria/secondaria. In totale, sono stati inclusi 17 studi, dieci dei quali includevano integratori di vitamina K2 (otto con MK-4 alla dose di 15–45 mg/die e due con MK-7 alla dose di 0,2-3,6 mg/die) e sette studi con supplementazione di vitamina K1 (0,2-10 mg/die). Nell’analisi generale, inclusi tutti gli studi selezionati, gli autori hanno scoperto che l’integrazione di vitamina K non ha influenzato significativamente la BMD (misurata in base alla differenza media ponderata) al collo del femore, ma ha aumentato significativamente la BMD della colonna lombare dell’1,27% (IC 95%: 0,47– 2,06) dopo 6–36 mesi di trattamento. Tuttavia, quando le analisi dei sottogruppi sono state eseguite in base al tipo di vitamina K somministrata, gli effetti non erano significativi per K1 e rimanevano comunque significativi per K2 (aumento medio dell’1,8% della BMD della colonna lombare, CI 95%: 0,87–2,75). Gli autori sono cauti su questi risultati; molti degli studi inclusi erano di bassa qualità ed è stata riscontrata una significativa eterogeneità tra questi studi.

Un’altra meta-analisi (“Does vitamin K2 play a role in the prevention and treatment of osteoporosis for postmenopausal women: a meta-analysis of randomized controlled trials“) ha esplorato specificamente il ruolo degli integratori di vitamina K2 sia nella BMD che nella frattura. Attraverso 19 studi (11 dei quali non sono stati inclusi nella meta-analisi sopra menzionata) con 6759 partecipanti, gli autori hanno scoperto che i supplementi di K2 hanno migliorato significativamente la BMD vertebrale a medio e lungo termine e la BMD dell’avambraccio a lungo termine in donne in postmenopausa con osteoporosi.

Infine, lo studio “Possible site-specific effect of an intervention combining nutrition and lifestyle counselling with consumption of fortified dairy products on bone mass: the Postmenopausal Health Study II” condotto su 115 donne in postmenopausa ha dimostrato che tutti e tre i gruppi che avevano assunto rispettivamente integratori contenenti calcio e vitamina D; calcio, vitamina D e vitamina K1; calcio, vitamina D e vitamina K2 per un anno avevano mostrato un aumento significativo della BMD totale rispetto ai controlli, con ulteriori vantaggi per la BMD lombare nei gruppi che hanno assunto K1 o K2.

In generale, la maggior parte degli studi riporta una correlazione positiva, almeno in alcuni sottogruppi, tra l’assunzione di integratori di vitamina K e aumento della BMD.

Inoltre, sebbene alcuni studi non abbiano dimostrato cambiamenti significativi nella BMD, sono riusciti a ottenere risultati significativi in ​​altri parametri ossei.

I ricercatori concludono che l’integrazione con vitamina K sembra ridurre le fratture, ma che è necessario uno studio ampio e di alta qualità per confermare questi risultati al fine di formulare una raccomandazione specifica.

Effetto della supplementazione di vitamina K in associazione con altri trattamenti finalizzati al trattamento dell’osteoporosi

Le prove in materia sono scarse, soprattutto per quanto riguarda l’effetto sulle fratture. Il più grande studio che affronta questo problema è “Comparison of concurrent treatment with vitamin K2 and risedronate compared with treatment with risedronate alone in patients with osteoporosis: Japanese Osteoporosis Intervention Trial-03” che ha coinvolto 1874 donne di età pari o superiore a 65 anni con osteoporosi, che sono state sottoposte a terapia con risedronato e vitamina K2 o solo risedronato. I tassi di incidenza della frattura erano simili tra i due gruppi e l’analisi dei sottogruppi non ha dimostrato differenze quando i pazienti sono stati stratificati su valori sierici di ucOC.

Altri studi più piccoli hanno portato a risultati contraddittori e i ricercatori concludono che gli integratori di vitamina K non possono essere raccomandati per il trattamento dell’osteoporosi, almeno nei soggetti che non sono a rischio di carenza di vitamina K per motivi specifici.

Nuovi anti coagulanti orali (NOAC) e fratture

La terapia con antagonisti della vitamina K (VKA) causa carenza di vitamina K, bloccando l’enzima vitamina K epossido reduttasi, esaurendo così la vitamina K idrochinone che è essenziale per l’attività della glutamil carbossilasi e quindi rappresenta una potenziale minaccia per la salute delle ossa attraverso questo meccanismo. Tuttavia, l’evidenza disponibile sull’effetto della VKA sulla frattura offre risultati contraddittori, con alcuni studi che riportano un aumento del rischio di frattura in siti diversi (tranne l’anca) e altri no. Questi risultati possono essere imputati ai limiti di questi studi, ad esempio un breve follow-up degli individui inclusi in essi o la valutazione delle fratture solo in alcuni siti.

La prescrizione di NOAC è notevolmente aumentata negli ultimi anni in alternativa ai VKA e, al contrario di questi ultimi, i NOAC non interferiscono con il ciclo della vitamina K. Sono state pubblicate prove che esplorano il loro profilo di sicurezza ossea, sia nei ratti che nell’uomo.

Gli studi che esplorano l’effetto dei NOAC nei ratti suggeriscono un profilo favorevole di sicurezza ossea; sono state anche pubblicate prove relative al profilo di sicurezza ossea di NOAC negli esseri umani, ma non esiste un singolo studio controllato randomizzato che ne valuti l’esito primario.

Alla luce degli studi analizzati dai ricercatori, è chiaro che è necessario uno studio controllato randomizzato che paragoni il rischio di fratture tra chi assume NOAC e chi assume VKA. Fino ad allora, non è possibile trarre alcuna conclusione solida sul profilo di sicurezza ossea dei NOAC a causa di prove limitate e disparate.

Limitazioni delle prove disponibili

Le differenze nei risultati tra gli studi possono essere influenzate da molti fattori confondenti, tra cui le diverse forme di vitamina K utilizzate, l’assunzione di vitamina K nella dieta di base dei soggetti inclusi, il livello di assunzione con la dieta di calcio e vitamina D, l’uso di altri integratori e differenze nelle caratteristiche basali della popolazione.

Conclusioni

La vitamina K svolge un ruolo importante nella salute delle ossa. Negli studi osservazionali, una bassa assunzione di vitamina K, bassi valori sierici di vitamina K e alti livelli di osteocalcina non carbossilata circolatoria (ucOC) sono associati al rischio di frattura (in particolare frattura dell’anca). Tuttavia, gli studi clinici non ottengono risultati conclusivi e, pertanto, sussistono ancora controversie sull’uso degli integratori di vitamina K1 e K2.

Sono necessari studi clinici di alta qualità su pazienti con bassi valori sierici di vitamina K e/o basso apporto dietetico per chiarire il ruolo della vitamina K nel rischio di fratture.

Lo studio

Celia Rodríguez-Olleros Rodríguez, Manuel Díaz Curiel, Vitamin K and Bone Health: A Review on the Effects of Vitamin K Deficiency and Supplementation and the Effect of Non-Vitamin K Antagonist Oral Anticoagulants on Different Bone Parameters, Journal of Osteoporosis, 2019, https://doi.org/10.1155/2019/2069176

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Uso di miRNA come attivatori di superfici di impianti dentali

I microRNA (miRNA) sono brevi sequenze di RNA non codificanti cruciali nella regolazione dello sviluppo, proliferazione e differenziazione delle cellule. Alcuni di essi hanno mostrato di essere correlati con l’espressione di geni osteogenici, come RUNX2 e SMAD5.

Scopo del riesame effettuato da Riccardo Di Gianfilippo dell’Università del Michigan e pubblicato sull’International Journal of Bone and Mineral Metabolism è stata la valutazione degli effetti biologici delle superfici di impianti in titanio attivate con miRNA o antimiRNA.

Dopo ricerca bibliografica elettronica, sono stati inclusi nella revisione cinque articoli che studiano l’influenza delle superfici funzionalizzate con miRNA su cellule umane o animali.

Le superfici funzionalizzate con miRNA hanno dimostrato di sovraregolare l’espressione di geni osteogenici come RUNX2, OPN, OCN, BMP, OSX, ALP, COL1 e COL3. Le superfici investigate hanno inoltre mostrato più tessuti mineralizzati ossei, lacune ossee, osteociti e nuovi vasi sanguigni.

I miRNA caricati sulle superfici degli impianti in titanio stimolano l’espressione di geni correlati alla differenziazione degli osteoblasti, osteogenesi, osteointegrazione e riparazione dei tessuti mineralizzati.

I vettori utilizzati per collegare le superfici in titanio e i miRNA non hanno mostrato citotossicità o interferenze con la vitalità delle cellule.

Epigenetica in odontoiatria

Nell’ultimo decennio, il ruolo dell’epigenetica in medicina e in odontoiatria è cresciuto in modo impressionante e l’epigenomica è considerata uno degli argomenti più importanti della scoperta scientifica. I meccanismi molecolari epigenetici principalmente studiati sono la produzione di miRNA, la metilazione del DNA e la modificazione degli istoni.

I microRNA (miRNA) sono brevi sequenze di RNA non codificanti (ncRNA) composti da diciassette/venticinque nucleotidi. Sono cruciali nella regolazione dello sviluppo, proliferazione, differenziazione, apoptosi e risposta a diversi segnali extracellulari e stres . Si pensa che siano in relazione con l’espressione di geni osteogenici come RUNX2 e SMAD5.. Le vie del microRNA regolano l’espressione genica inducendo il degrado e/o la repressione traslazionale degli mRNA target. Si ritiene che oltre il 40% di tutti i geni umani sia sotto la regolazione dei miRNA. MessengerRNA può legare il promotore di specifici microRNA attivando un circuito di feedback autoregolamentato; quindi, quando un mRNA specifico è sovraregolato, anche il miRNA correlato è sovraespresso. Ogni miRNA può colpire centinaia di mRNA e alcuni target sono influenzati da più miRNA. Probabilmente, i miRNA sono fondamentali nel mantenimento della pluripotenza e dell’indifferenziazione delle cellule staminali adulte; infatti, diversi miRNA sembrano modulare significativamente la differenziazione dei precursori mesenchimali nelle cellule di osteoblasti, regolando l’attività dei fattori di trascrizione.

Nel campo della parodontologia, in persone sane l’espressione di miR-181b, mi-R19b, miR-30a, miR-let 7a e miR-301a è più bassa rispetto a quella riscontrata in soggetti con parodontite. L’espressione di microRNA-155 è legata ai meccanismi di segnalazione dell’IL-1 e alla risposta infiammatoria.

Nel campo dell’odontoiatria implantare, nuove superfici in titanio sono state funzionalizzate per aumentare i livelli di espressione dei geni osteogenici.

Nonostante l’interesse sull’uso di attivatori biologici per migliorare l’osteointegrazione degli impianti dentali, le conoscenze disponibili sembrano essere scarse.

L’autore della revisione ha quindi analizzato pubblicazioni relative a studi in vitro e in vivo che riportassero effetti biologici dell’uso di miRNA come attivatori di superfici di impianti sulla formazione ossea e sull’osteointegrazione. Dei 91 articoli selezionati, cinque sono risultati conformi ai criteri di inclusione [1, 2, 3, 4, 5] e riguardavano studi in vitro che analizzavano gli effetti genetici di superfici funzionalizzate con miRNA rispetto a superfici non funzionalizzate su cellule umane o animali.

Tutti gli articoli hanno riportato che le superfici di impianti funzionalizzate hanno sovraregolato l’espressione dei geni osteogenici.

I benefici della funzionalizzazione con miRNA

In tutti gli studi analizzati, per i gruppi di controllo sono state utilizzate superfici ossidate con Micro-Arc (MAO). Le superfici micro-ruvide e nano-ruvide hanno dimostrato di facilitare le interazioni con le cellule ossee e, in particolare, le superfici in titanio ossidate con Micro-Arc hanno mostrato di avere effetti favorevoli sull’osteointegrazione degli impianti attraverso l’induzione della deposizione di apatite e la promozione delle funzioni degli osteoblasti.

Tuttavia, i miglioramenti nella sola topografia della superficie implantare potrebbero non essere sufficienti per stimolare il massimo potenziale osteogenico. Una strategia più efficace per promuovere un’osteointegrazione prevede il caricamento di biomolecole sulle superfici dell’impianto per stimolare la differenziazione cellulare, la migrazione, l’espressione genica e la deposizione di matrice extracellulare.

Anche se ci sono studi disponibili che analizzano il caricamento di oligonucleotidi o peptidi, solo alcuni hanno studiato i miRNA. Al momento, i miRNA utilizzati come attivatori per le superfici degli impianti sono miR122, miR-21, miR-29b, antimiR204 e antimiR138.

A causa dell’esiguo numero di pubblicazioni esistenti, sono necessari ulteriori studi per una migliore comprensione degli effetti indotti dagli impianti attivati ​​con miRNA sui geni osseogenetici. Al momento sono disponibili solo studi con prove indirette. Inoltre, non è ancora documentato se la maggiore espressione dei geni osseogenetici causata dai miRNA potrebbe portare a un alto tasso di osteointegrazione nell’uomo.

Nonostante la piccola quantità di dati, tutti gli studi inclusi hanno concordato che le superfici degli impianti funzionalizzate con miRNA o antimiRNA hanno stimolato una maggiore espressione di geni osseogenici, una maggiore differenziazione e una maggiore deposizione di collagene e noduli mineralizzati.

Sono necessari ulteriori studi per una completa comprensione degli effetti indotti dai miRNA sui precursori degli osteoblasti. Inoltre, è necessario approfondire il ruolo del tempo e studiare gli effetti delle superfici funzionalizzate con miRNA con modelli in vivo.

Le conoscenze nel campo dell’epigenetica potrebbero essere utilizzate per sviluppare nuove superfici attivate dal miRNA, geneticamente e biologicamente compatibili, in grado di migliorare la deposizione ossea.

La review

Di Gianfilippo Riccardo, The use of miRNAs as activators of dental implant surfaces, A review, International Journal of Bone and Mineral Metabolism, Volume 1, Issue 1, 2018, Pages 2-9, ISSN Coming Soon, https://doi.org/

Gli studi analizzati

  1. Wang Z, Wu G, Feng Z, Bai S, Dong Y. (2015) Microarc-oxidized titanium surfaces functionalized with microRNA-21-loaded chitosan/hyaluronic acid nanoparticles promote the osteogenic differentiation of human bone marrow mesenchymal stem cells, Int J Nanomedicine;10: 6675-6687.
  2. Wu K, Song W, Zhao L, Liu M, Yan J. (2013) MicroRNA functionalized microporous titanium oxide surface by lyophilization with enhanced osteogenic activity, ACS Appl Mater Interfaces;5: 2733-2744.
  3. Song W, Yang C, Svend Le DQ, Zhang Y, Kjems J.(2018). Calcium-MicroRNAComplex-Functionalized Nanotubular Implant Surface for Highly Efficient Transfection and Enhanced Osteogenesis of Mesenchymal Stem Cells, ACS Appl Mater Interfaces;10: 7756-7764.
  4. Shao D, Wang C, Sun Y, Cui L. (2018) Effects of oral implants with miR122modified cell sheets on rat bone marrow mesenchymal stem cells. Mol Med Rep;17:. 1537-1544.
  5. Liu X, Tan N, Zhou Y, Wei H, Ren S. (2017) Delivery of antagomiR204-conjugated gold nanoparticles from PLGA sheets and its implication in promoting osseointegration of titanium implant in type 2 diabetes mellitus. , Int J Nanomedicine;12: 7089-7101.

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miRNA come biomarcatori per le malattie ossee

miRNA come biomarcatori per le malattie ossee

I microRNA (miRNA) sono RNA a singolo filamento e non codificanti che regolano l’espressione dell’mRNA e la quantità di prodotti genici. I miRNA regolano l’espressione dell’mRNA attraverso il legame diretto e influenzano varie vie di segnalazione nell’organismo.

È stato scoperto che i miRNA svolgono ruoli chiave nella proliferazione cellulare, nella differenziazione, nello sviluppo di organi e tessuti e nella regolazione dell’omeostasi ossea. Contribuiscono alla formazione e al riassorbimento osseo, al rimodellamento osseo e alla differenziazione delle cellule ossee.

L’espressione alterata di miRNA distinti può influenzare l’insorgenza di patologie ossee, come l’osteoporosi, l’osteodistrofia renale e i tumori ossei maligni.

I miRNA vengono rilasciati nel flusso sanguigno, in parte attraverso la secrezione attiva, e sono legati a strutture, come proteine ​​ed esosomi, che proteggono i miRNA dalla degradazione. Pertanto, i miRNA sono facili da campionare e sono stabili con un grande potenziale come biomarcatori per diverse malattie, inclusa l’osteoporosi.

Un gruppo di ricercatrici della Medical University of Graz ha realizzato una review, tracciando una panoramica ed evidenziando esempi della rilevanza dei miRNA nelle malattie ossee e sintetizzando le conoscenze sui miRNA come biomarcatori per l’osteoporosi.

 Trascrizione e maturazione dei miRNA
Trascrizione e maturazione dei miRNA

Rimandando all’articolo originale per quanto riguarda l’interessante dissertazione sulla storia dei miRNA, l’origine della loro nomenclatura, la loro biogenesi e le tecnologie di dosaggio miRNA, sintetizziamo gli aspetti della review maggiormente legati all’utilizzo di miRNA come biomarcatori per l’osteoporosi.

miRNA come nuovi biomarcatori

Nel 2008, due gruppi di ricerca indipendenti hanno identificato la presenza di miRNA nel flusso sanguigno. Da allora, sono state trovate molte sequenze diverse nel plasma e nel siero di origine umana e animale. Ad oggi, questi miRNA circolanti sono stati associati a molte malattie, portando alla conclusione che i miRNA sono “impronte digitali” per malattie specifiche. Poiché i miRNA sono stati annotati con successo a specifiche funzioni e malattie biologiche, sono presto diventati una nuova classe di biomarcatori e persino potenziali obiettivi per terapie in future.

miRNA circolanti

Chim et al. nel 2008 sono stati i primi a descrivere gli acidi nucleici fetali circolanti nel flusso sanguigno della madre che sono stati identificati come miRNA. Quasi contemporaneamente, in pazienti con linfoma a cellule B diffuso sono stati rilevati miRNA associati al tumore, il che ha suggerito per la prima volta il loro potenziale utilizzo come biomarcatori. I miRNA circolanti possono essere trovati in diverse forme nel flusso sanguigno: il 90% dei miRNA extracellulari è legato alle proteine ​​AGO come complessi proteici liberi nel flusso sanguigno. Il restante 10% è impacchettato in esosomi, in corpi apoptotici o legati a HDL (lipoproteine ​​ad alta densità). L’origine dei miRNA in circolazione è difficile da rintracciare. Da un lato, i miRNA circolanti derivano da cellule del sangue morto, specialmente nel caso di miRNA legati a corpi apoptotici, ma possono anche essere secreti attivamente dalle cellule viventi. È interessante notare che la stabilità di questi miRNA circolanti è elevata perché gli esosomi sono impermeabili per le RNasi e le proteine ​​AGO proteggono i miRNA dalla distruzione enzimatica. Mantenuti a -70 °C, i miRNA rimangono stabili per almeno un anno.

Poiché i miRNA circolanti sono stabili per un certo periodo e facilmente accessibili dai fluidi corporei, sono candidati ideali per il loro uso come nuovi biomarcatori.

 Panoramica schematica dei complessi circolanti di miRNA
Panoramica schematica dei complessi circolanti di miRNA

Esosomi: miRNA carrier nella malattia ossea

Gli esosomi sono particelle di dimensioni nanometriche attivamente prodotte da un gran numero di cellule e partecipano a vari processi di segnalazione, trasportando, tra le altre molecole, anche i miRNA. Gli esosomi sono prodotti da tutti i tipi di cellule ossee e sembrano svolgere un ruolo importante nel processo di differenziazione di osteoclasti e osteoblasti e, negli ultimi anni, sono stati identificati come importanti mediatori del segnale nel metabolismo osseo.

Poiché gli esosomi e i miRNA associati agli esosomi svolgono ruoli chiave in diversi aspetti del turnover osseo e delle patologie associate, rappresentano strumenti promettenti e versatili per l’identificazione dei biomarcatori. Dal momento che gli esosomi trasmettono una varietà di molecole segnale diverse dalle cellule donatrici alle cellule riceventi e agiscono come i cosiddetti “segnalosomi”, potrebbero essere utili per identificare un gruppo di biomarcatori. Inoltre, gli esosomi si trovano in quasi tutti i fluidi corporei, inclusi sangue, saliva e urina e consentirebbero la raccolta di biopsie liquide non invasive. Sebbene molti studi siano stati in grado di identificare il carico esosomiale che è coinvolto nella formazione ossea e che potrebbe essere in grado di fungere da biomarcatore per la perdita ossea, esistono solo pochi studi che hanno cercato di identificare i marcatori esosomiali nell’osteoporosi.

miRNA come biomarcatori sistemici per l’osteoporosi

È evidente che i miRNA influenzano il metabolismo osseo influenzando la formazione e il riassorbimento osseo prendendo di mira i processi anabolici o catabolici.

Negli ultimi anni, prove crescenti hanno suggerito i miRNA come biomarcatori per l’osteoporosi, poiché sono stati identificati per svolgere un ruolo cruciale nell’interazione tra osteoblasti e osteoclasti.

Monociti circolanti in vivo, una fonte di precursori degli osteoclasti, hanno mostrato un’associazione di miR-133a con l’osteoporosi.

MiR-133a e miR-21 sono stati suggeriti anche come biomarcatori del plasma per l’osteoporosi.

I lisati di sangue intero di donne cinesi in postmenopausa hanno rivelato diversi miRNA regolati in modo differenziato, ovvero miR-130b-3p, miR-151a-3p, miR-151b, miR-194-5p, miR-590-5p e miR-660-5p. Tra questi, miR-194-5p era il più altamente sovraregolato con una variazione di oltre 5 volte. MiR-194-5p è stato identificato come discriminare tra osteoporosi e osteopenia, uno stadio precursore dell’osteoporosi.

In un’altra coorte di pazienti cinesi, miR-125b, miR-30 e miR-5914 circolanti erano sovraregolati e associati all’osteoporosi postmenopausale.

Un altro studio ha analizzato il tessuto osseo di pazienti sani e osteoporotici e ha trovato potenziali miRNA predittivi, vale a dire miR-365, miR-10b e miR-129-3p up-regolati e miRNA-671-5p, miR-141 e miR-25 down-regolato.

Un gruppo di ricerca tedesco ha mostrato che miR-21-5p, miR-93-5p, miR-100-5p e miR-125b-5p erano significativamente sovraregolati in siero, tessuto e cellule ossee di pazienti osteoporotici, indipendentemente dal sesso ma direttamente correlati con BMD.

Tra 790 miRNA che potevano essere rilevati, 82 (~ 10%) sono stati espressi in modo differenziato in uno studio che ha confrontato campioni di ossa di donne fratturate all’anca con un gruppo di controllo di pazienti osteoartritici femminili. Tra gli otto miRNA con i p-values più bassi, due potrebbero essere confermati: miR-320a e miR-483-5p colpiscono entrambi i geni coinvolti nel metabolismo osseo.

Nei pazienti con osteoporosi idiopatica, è stato identificato un diverso miRNA-pattern nel siero. Otto miRNA (miR-152-3p, miR-30e-5p, miR-140-5p, miR-324-3p, miR-19b-3p, miR-335-5p, miR-19a-3p, miR-550a-3p) hanno mostrato un’associazione con le fratture osteoporotiche indipendentemente dall’età e dal sesso dei partecipanti allo studio.

L’osteoporosi è una malattia che causa la perdita ossea generale e anche la mascella e le mandibole sono affette dalla malattia. In topi ovariectomizzati, un modello consolidato per l’osteoporosi postmenopausale, mandibole e femori erano affetti dalla malattia e nella mandibola dei topi il panel di miRNA era regolato in modo differente. I ricercatori hanno suggerito miR-17-5p e miR-133a-3p come candidati biomarcatori più promettenti.

Da notare che,oltre ai miRNA, altre specie di RNA non codificanti, come gli RNA circolari (circRNA), sono anche in grado di aggiungere informazioni sullo stato della malattia. Uno studio ha scoperto che Hsa_Circ_0001275 era negativamente correlato con i T-score della densità ossea e aveva un valore diagnostico significativo nell’osteoporosi postmenopausale. Inoltre, una specie di RNA lunghi non codificanti (lncRNA) chiamati DANCR è stata sovraregolata in pazienti in postmenopausa femminile con bassa BMD.

Molti studi mostrano che i miRNA sono espressi in modo differenziato nell’osteoporosi, tuttavia, questi dati suggeriscono che un solo miRNA regolato in modo differenziato non funzione come biomarker. Piuttosto, differenti pattern di numerosi miRNA possono costruire una previsione basata su algoritmo. Inoltre, diversi gruppi di ricerca trovano modelli di miRNA abbastanza diversi in funzione delle coorti che confrontano. L’approccio retrospettivo della maggior parte degli studi limita il potere predittivo dei risultati. Inoltre, mancano ancora meta-analisi. In caso di profili specifici e replica stabile dei risultati, ci sono alcuni tentativi promettenti di utilizzare i profili miRNA a fini diagnostici (Tabella 1).

 MiRNA selezionati con i loro target e funzioni nel metabolismo osseo

miRNA nella terapia ossea

Poiché i miRNA ospitano funzioni diffuse nello sviluppo osseo e nel contesto della progressione della malattia, i miRNA potrebbero essere un possibile bersaglio per nuove terapie.

Soprattutto gli anti-miR (inibitori di miRNA) e i miRNA-mimici (miRNA sintetici) sono interessanti in termini di uso farmacologico e terapeutico.

Tuttavia, i ricercatori devono esaminare attentamente le potenziali applicazioni terapeutiche dei miRNA, soprattutto in termini di somministrazione sistemica, poiché un miRNA può influenzare diversi target e tessuti distinti.

Un uso terapeutico dei miRNA deve essere esaminato criticamente e l’effetto della potenziale applicazione dei miRNA o del knockdown dei miRNA con anti-miR deve essere verificato mediante la loro caratterizzazione in diversi tessuti.

I miRNA sono attori chiave in vari aspetti del metabolismo osseo. Numerosi studi hanno dimostrato l’importanza della regolazione del miRNA per la differenziazione degli osteoblasti e degli osteoclasti. L’espressione disregolata del miRNA in entrambi i tipi di cellule è coinvolta nello sviluppo di patologie ossee come l’osteoporosi. Dal momento che in circolazione si possono trovare quantità significative di miRNA (e altri RNA non codificanti), essi offrono un potenziale unico per i nuovi biomarcatori: mostrano specificità per alcune malattie e sono molecole facilmente accessibili e stabili. Pertanto, lo studio dei modelli di miRNA nelle biopsie liquide rappresenta una nuova promettente strada per la diagnosi precoce dell’osteoporosi e di altre malattie ossee.

Lo studio

Foessl I, Kotzbeck P, Obermayer-Pietsch B miRNAs as novel biomarkers for bone related diseases Journal of Laboratory and Precision Medicine, December 2019 doi:10.21037/jlpm.2018.12.06

Conservazione parziale dell’aumento di massa ossea con zoledronato dopo sospensione di denosumab

L’interruzione della terapia con denosumab è associata a un rapido ritorno della densità minerale ossea (BMD) al basale e a un maggior rischio di fratture vertebrali multiple.

A oggi, dopo l’interruzione di denosumab, non è stato ancora stabilito un regime di terapeutico da seguire per prevenire la perdita di BMD o fratture vertebrali multiple.

Iniezione di zoledronato dopo sospensione di denosumab

Un gruppo di ricercatori svizzeri, guidato da Judith Everts-Graber del centro OsteoRheuma Bern, ha condotto uno studio osservazionale della durata di otto anni con l’obiettivo di studiare l’effetto di una singola infusione di zoledronato, somministrata sei mesi dopo l’ultima iniezione di denosumab, sull’occorrenza di fratture e sulla perdita di BMD. Lo studio “A single infusion of zoledronate in postmenopausal women following denosumab discontinuation results in partial conservation of bone mass gains” è stato pubblicato sul J. Bone Miner Res.

Sono stati analizzati i dati relativi a 120 donne con osteoporosi postmenopausale trattate con 60 mg di denosumab ogni sei mesi per 2-5 anni (durata media tre anni) e quindi con 5 mg di zoledronato sei mesi dopo l’ultima iniezione di denosumab.

I ricercatori hanno valutato le fratture vertebrali tramite DXA prima della prima e dopo l’ultima iniezione di denosumab e a una mediana di 2,5 anni dopo l’interruzione del denosumab.

All’interno della coorte, 97 donne hanno ricevuto da quattro a sei iniezioni di denosumab (81%), 11 hanno ricevuto tra sette e nove iniezioni (9%) e 12 donne hanno ricevuto dieci iniezioni di denosumab (10%).

Dopo l’interruzione della terapia con denosumab, tre donne hanno subito una singola frattura vertebrale sintomatica tra 1 e 3 anni dopo l’ultima iniezione, per un tasso di 1,1 per 100 pazienti-anno. Nessuna donna ha sviluppato fratture vertebrali multiple. Quattro donne hanno subito fratture periferiche, per un tasso di 1,4 per 100 pazienti-anno.

Dopo l’interruzione del denosumab, i ricercatori hanno osservato una riduzione della BMD in tutti i siti per la coorte. Tutta la perdita ossea si è verificata entro i primi 18 mesi dall’infusione di zoledronato. I ricercatori hanno osservato che il 66% del guadagno della BMD era trattenuto nella colonna lombare (95% CI, 57-75), il 49% era conservato nell’anca totale (95% CI, 31-67) e il 57% era conservato nel collo femorale (IC al 95%, 25-89).

Non si sono registrate differenze significative di riduzione di BMD tra le pazienti con incrementi della BMD >9% vs. <9%, durante il trattamento con denosumab.

Le donne con o senza precedente trattamento con bifosfonati e le donne con o senza una vacanza farmacologica hanno avuto una riduzione percentuale simile della BMD della colonna lombare dopo l’interruzione del trattamento con denosumab.

Possibile regime terapeutico per il trattamento a lungo termine dell’osteoporosi

I ricercatori hanno concluso che una singola infusione di 5 mg di zoledronato dopo un ciclo di trattamento con denosumab della durata da due a cinque anni ha permesso di trattenere più della metà della BMD acquisita e non è stata associata a fratture vertebrali multiple, come è invece successo in pazienti che hanno interrotto denosumab senza successivo trattamento con bifosfonati.

Un’unica infusione di zoledronato nelle donne in postmenopausa a seguito della sospensione di denosumab porta alla conservazione parziale dell’aumento di massa ossea ottenuto con la terapia

Il regime terapeutico suggerito dallo studio può rappresentare una valida indicazione per  l’identificazione di strategie sequenziali di trattamento a lungo termine per l’osteoporosi.

Lo studio

Everts‐Graber, J., Reichenbach, S., Ziswiler, H., Studer, U. and Lehmann, T. (2020),    A Single Infusion of Zoledronate in Postmenopausal Women Following Denosumab Discontinuation Results in Partial Conservation of Bone Mass Gains. J Bone Miner Res. 28 January 2020. Accepted Author Manuscript. doi:10.1002/jbmr.3962

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