venerdì, Luglio 4, 2025
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Autogestione dell’osteoporosi, quali esperienze e comportamenti?

Considerata una “malattia silenziosa” poiché spesso asintomatica fino alla comparsa di fratture, l’osteoporosi necessita di un approccio multidimensionale per la gestione da parte dei pazienti stessi. La ricerca suggerisce che la capacità di autogestione possa migliorare significativamente l’aderenza al trattamento, ridurre i rischi di complicanze e aumentare la qualità di vita.

Dimensioni dell’autogestione dell’osteoporosi

Lo studio ha individuato tre principali dimensioni dell’autogestione dell’osteoporosi:

1. Mantenimento

Il mantenimento della salute ossea comprende tutte le strategie che i pazienti adottano per prevenire il peggioramento della patologia. Tra le azioni più diffuse vi sono:

  • Aderenza alla terapia farmacologica: molti pazienti riconoscono l’importanza della terapia, ma alcuni interrompono il trattamento a causa di effetti collaterali o di una percezione errata della malattia.
  • Dieta e integrazione di calcio e vitamina D: sebbene il ruolo di questi nutrienti sia ben noto, persistono dubbi e difficoltà nella loro assunzione corretta.
  • Attività fisica: esercizi di carico e resistenza sono considerati fondamentali per mantenere la densità ossea, ma molti pazienti faticano a integrarli nella loro routine.
  • Relazione con gli operatori sanitari: il supporto medico è determinante per incentivare l’autogestione. Tuttavia, molti pazienti riferiscono di ricevere informazioni frammentarie e non sempre chiare.

2. Monitoraggio

Il monitoraggio riguarda il controllo regolare della malattia attraverso test diagnostici e l’osservazione dei sintomi.

  • Test diagnostici: esami come la densitometria ossea sono strumenti fondamentali per valutare l’andamento della patologia, ma alcuni pazienti faticano a comprenderne i risultati.
  • Percezione dei sintomi: la difficoltà di riconoscere i segnali precoci della malattia può portare a una sottovalutazione del rischio di fratture.
  • Ruolo dei medici: un’interazione più attiva con gli specialisti può favorire un miglior monitoraggio della patologia e prevenire complicanze.

3. Gestione

La gestione dei sintomi e delle complicanze è cruciale per migliorare la qualità della vita dei pazienti con osteoporosi.

  • Controllo del dolore: i pazienti utilizzano analgesici, fisioterapia e terapie complementari per alleviare il dolore.
  • Adattamento dello stile di vita: molti pazienti sviluppano strategie per evitare cadute e gestire le limitazioni fisiche.
  • Barriere e facilitatori della gestione: la mancanza di informazioni adeguate rappresenta un ostacolo significativo, mentre il supporto familiare e l’accesso a risorse educative migliorano l’autogestione.

Implicazioni cliniche e prospettive future

La sintesi delle esperienze di autogestione evidenzia la necessità di interventi personalizzati per supportare i pazienti con osteoporosi. I programmi educativi, la formazione di operatori sanitari specializzati e l’uso di strumenti di autovalutazione possono contribuire a migliorare l’aderenza terapeutica e la qualità di vita. Inoltre, l’implementazione di modelli di assistenza basati sull’autogestione potrebbe ridurre il carico sanitario associato alla malattia.

Conclusioni

L’autogestione dell’osteoporosi è un elemento chiave per il controllo della malattia e la prevenzione delle complicanze. L’adozione di strategie efficaci di mantenimento, monitoraggio e gestione può migliorare la qualità di vita dei pazienti, ridurre il rischio di fratture e favorire un approccio più consapevole alla malattia. È fondamentale che gli operatori sanitari promuovano interventi educativi e strategie di supporto personalizzate per incentivare una gestione attiva e responsabile dell’osteoporosi.

Lo studio

Tedesco C, Bernalte-Martí V, Pucciarelli G, Vellone E, Basilici Zannetti E, Cittadini N, Pennini A, Tarantino U, Alvaro R. Self-care experiences and behaviors in people with osteoporosis: A meta-synthesis. Maturitas. 2025 Feb 5;195:108213. Epub ahead of print. PMID: 39914137.

Osteoporosi negli uomini anziani, nuove strategie per una gestione efficace

L’osteoporosi è tradizionalmente considerata una malattia femminile, ma gli uomini non sono immuni da questa condizione. Dopo i 75 anni, il rischio di fratture da fragilità aumenta significativamente negli uomini, con conseguenze spesso più gravi rispetto alle donne. Studi recenti evidenziano che gli uomini hanno un tasso di mortalità più elevato dopo una frattura dell’anca rispetto alle donne, rendendo essenziale un intervento tempestivo per la diagnosi e il trattamento.

Diagnosi: l’importanza di un approccio combinato

La diagnosi precoce dell’osteoporosi negli uomini è cruciale per prevenire le fratture. L’esame di riferimento è la densitometria ossea con DXA, che consente di valutare la densità minerale ossea (BMD). Tuttavia, la sola misurazione della BMD non è sufficiente: il calcolo del FRAX (Fracture Risk Assessment Tool), che integra fattori clinici di rischio con la densitometria, permette una stima più accurata del rischio di frattura a 10 anni.

Altri strumenti diagnostici emergenti includono la radiofrequenza ecografica multi-spettrale (REMS), una tecnologia innovativa che permette una valutazione non invasiva della qualità ossea senza esposizione a radiazioni ionizzanti.

Terapie farmacologiche: stato dell’arte

Le opzioni terapeutiche per l’osteoporosi maschile comprendono farmaci antiriassorbitivi e anabolici. Tra gli antiriassorbitivi, i bifosfonati come alendronato e zoledronato sono ampiamente utilizzati e hanno dimostrato di ridurre il rischio di fratture vertebrali e non vertebrali.

Un’alternativa efficace è denosumab, un anticorpo monoclonale che inibisce il RANKL e riduce il riassorbimento osseo, particolarmente indicato per uomini sottoposti a terapia di deprivazione androgenica per il carcinoma prostatico.

Tra gli anabolici, teriparatide e abaloparatide stimolano la formazione ossea e sono indicati nei pazienti con alto rischio di frattura. Romosozumab, un farmaco con duplice azione anabolica e antiriassorbitiva, ha dimostrato di aumentare significativamente la densità ossea, ma il suo utilizzo è attualmente limitato alle donne postmenopausali a causa di potenziali rischi cardiovascolari.

Strategie non farmacologiche per la prevenzione

Oltre alle terapie farmacologiche, la gestione dell’osteoporosi maschile deve includere interventi sullo stile di vita. Alcuni elementi chiave sono:

  • Assunzione adeguata di calcio e vitamina D: Un apporto di almeno 1000-1200 mg di calcio e 800-1000 UI di vitamina D al giorno è raccomandato.
  • Esercizio fisico regolare: Attività con carico (come camminata veloce, corsa leggera e sollevamento pesi) migliorano la densità ossea e la forza muscolare, riducendo il rischio di cadute.
  • Prevenzione delle cadute: Il miglioramento della mobilità, della visione e dell’ambiente domestico può ridurre significativamente il rischio di fratture.
  • Gestione delle comorbilità: Condizioni come il diabete, le malattie cardiovascolari e l’ipogonadismo possono influenzare negativamente la salute ossea e devono essere monitorate attentamente.

Conclusioni

L’osteoporosi negli uomini è una condizione ancora sottodiagnosticata e sottotrattata, nonostante le sue gravi conseguenze. L’adozione di un approccio multidisciplinare che combini diagnosi precoce, terapia farmacologica adeguata e interventi sullo stile di vita è essenziale per migliorare la qualità di vita e ridurre il rischio di fratture nei pazienti anziani. La ricerca continua a fornire nuove opzioni terapeutiche che, se adeguatamente implementate, possono colmare il gap di trattamento tra uomini e donne e garantire una gestione ottimale della salute ossea maschile.

Lo studio

Ruggiero, C., Caffarelli, C., Calsolaro, V. et al. Osteoporosis in Older Men: Informing Patient Management and Improving Health-Related OutcomesDrugs Aging 42, 21–38 (2025).

Sicurezza cardiovascolare, confronto tra terapie anti-osteoporotiche nelle donne in post-menopausa

Romosozumab, un anticorpo monoclonale diretto contro la sclerostina, è stato al centro di numerosi dibattiti per i possibili rischi cardiovascolari associati al suo utilizzo. Un’analisi sistematica e una meta-analisi di studi randomizzati hanno confrontato la sicurezza cardiovascolare di romosozumab con altre terapie anti-osteoporotiche comunemente utilizzate, come alendronato, denosumab, teriparatide e raloxifene, dimostrando che non vi sono significative differenze nel rischio di eventi cardiovascolari o mortalità. Tuttavia, ulteriori studi nel mondo reale sono necessari per confermare questi risultati.

Metodologia dello studio

Una revisione sistematica e una meta-analisi di 25 studi randomizzati controllati, che hanno coinvolto un totale di 24.942 donne in post-menopausa con osteoporosi, hanno confrontato romosozumab con alendronato, teriparatide, denosumab, raloxifene e placebo. Sono stati analizzati i rischi di mortalità cardiovascolare, eventi cardiovascolari e altri eventi avversi.

Principali risultati

L’analisi ha mostrato che:

  • Non ci sono differenze significative nel rischio di mortalità cardiovascolare tra romosozumab e placebo.
  • Il rischio di eventi cardiovascolari maggiori non è risultato significativamente differente rispetto alle altre terapie anti-osteoporotiche.
  • Il tasso di eventi avversi non ha mostrato variazioni rilevanti tra romosozumab e le altre opzioni terapeutiche considerate.

Considerazioni sul rischio cardiovascolare

Studi precedenti avevano sollevato dubbi circa un possibile aumento del rischio cardiovascolare associato a romosozumab, in particolare lo studio ARCH, che aveva evidenziato un aumento di eventi cardiaci gravi rispetto all’alendronato. Tuttavia, altre ricerche come lo studio FRAME non hanno rilevato un rischio significativo.

Conclusioni e implicazioni cliniche

I risultati suggeriscono che romosozumab potrebbe essere un’opzione terapeutica sicura per le donne in post-menopausa con osteoporosi, senza un aumento significativo del rischio cardiovascolare rispetto ad altre terapie. Tuttavia, a causa delle differenze nei risultati degli studi disponibili, è necessaria cautela nell’uso di romosozumab in pazienti con alto rischio cardiovascolare. Saranno fondamentali ulteriori studi basati su dati real-world per confermare la sicurezza a lungo termine di questa terapia.

Lo studio

Cheng, SH., Chu, W., Chou, WH. et al. Cardiovascular Safety of Romosozumab Compared to Commonly Used Anti-osteoporosis Medications in Postmenopausal Osteoporosis: A Systematic Review and Network Meta-analysis of Randomized Controlled TrialsDrug Saf 48, 7–23 (2025).

Prebiotici come modulatori dell’assorbimento intestinale di calcio e magnesio

Il calcio (Ca2+) e il magnesio (Mg2+) sono nutrienti essenziali, fondamentali per numerosi processi fisiologici, tra cui la formazione ossea, la trasmissione sinaptica e la contrazione muscolare. La loro carenza è associata a gravi problemi di salute, come l’osteoporosi e il diabete di tipo II. Tuttavia, l’assorbimento intestinale di Ca2+ e Mg2+ è spesso insufficiente, con meno del 30% del calcio e meno del 50% del magnesio ingeriti che entrano effettivamente nel circolo sanguigno.

Tradizionalmente, l’assorbimento di calcio è stato attribuito principalmente a meccanismi attivi nel duodeno e nel digiuno, mentre il magnesio viene assorbito prevalentemente nell’ileo e nel colon. Tuttavia, recenti evidenze suggeriscono che il colon possa avere un ruolo più importante del previsto nell’assorbimento di questi minerali, specialmente in presenza di una dieta ricca di prebiotici.

I prebiotici e il loro ruolo nell’assorbimento di calcio e magnesio

I prebiotici sono carboidrati complessi che resistono alla digestione nell’intestino tenue e raggiungono il colon, dove vengono fermentati dai microbi intestinali. Questo processo di fermentazione porta alla produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA), che abbassano il pH luminale e aumentano la solubilizzazione del calcio e del magnesio, rendendoli più disponibili per l’assorbimento.

Studi su modelli animali e su soggetti umani hanno dimostrato che l’assunzione di prebiotici come inulina e fruttoligosaccaridi può aumentare l’assorbimento di Ca2+ e Mg2+ nel colon fino al 30%. Questo aumento è attribuito a vari meccanismi, tra cui:

  1. L’aumento della concentrazione di ioni liberi di calcio e magnesio grazie alla produzione di SCFA.
  2. La stimolazione del trasporto transcellulare mediato da proteine come TRPV6 e TRPM6, che favoriscono l’ingresso di questi minerali nelle cellule epiteliali del colon.
  3. La modulazione della barriera intestinale, che potrebbe facilitare l’assorbimento paracellulare.

Effetti dei prebiotici sulla densità minerale ossea

Numerosi studi hanno evidenziato che una dieta ricca di prebiotici può migliorare la densità minerale ossea e aumentare la forza delle ossa. In modelli animali, l’integrazione con prebiotici ha portato a un aumento della capacità di assorbimento del calcio, a una maggiore ritenzione di magnesio e a un miglioramento della resistenza ossea. Studi condotti su donne in post-menopausa hanno mostrato che l’integrazione con inulina arricchita di oligofruttosio ha migliorato l’assorbimento minerale e marcatori di formazione ossea.

Un meccanismo potenziale è rappresentato dall’attivazione dell’asse entero-osseo, in cui gli SCFA prodotti dalla fermentazione stimolano la produzione di ormoni intestinali come il GLP-2, che contribuisce a migliorare l’assorbimento intestinale e a stimolare la formazione ossea.

Sicurezza e prospettive future

Nonostante i benefici potenziali, l’uso di prebiotici per migliorare l’assorbimento di calcio e magnesio e la salute ossea necessita di ulteriori ricerche cliniche. È importante identificare le dosi ottimali e valutare eventuali effetti collaterali, come l’eccessiva produzione di gas o la tollerabilità intestinale in soggetti sensibili.

In conclusione, i prebiotici rappresentano una promettente strategia non invasiva per migliorare l’assorbimento di calcio e magnesio e per supportare la salute ossea, specialmente in popolazioni a rischio di osteoporosi. L’integrazione di prebiotici nella dieta potrebbe offrire un approccio complementare e sicuro nella prevenzione e nel trattamento delle patologie ossee legate all’età.

Lo studio

Stumpff FManneck DPrebiotics as modulators of colonic calcium and magnesium uptakeActa Physiol2025241:e14262.

Fratture vertebrali da fragilità: consapevolezza, adesione terapeutica e coinvolgimento del paziente

Le fratture vertebrali da fragilità (VFF) sono una delle manifestazioni cliniche più comuni e gravi dell’osteoporosi. Rappresentano un segnale predittivo importante di future fratture e di aumento della morbilità e mortalità. Tuttavia, queste fratture rimangono spesso non diagnosticate, con circa il 70% dei casi non identificati. La diagnosi avviene frequentemente in modo incidentale, in corso di esami radiologici richiesti per altre ragioni. Questo fenomeno ha dato origine alla definizione di fratture vertebrali opportunisticamente identificate (OIVFF).

Uno studio retrospettivo condotto presso il Musgrove Park Hospital, nel Regno Unito, ha analizzato il comportamento dei pazienti con OIVFF all’interno di un servizio di liaison per le fratture (FLS), comparandolo con quello di pazienti con fratture vertebrali acute (AVFF) e fratture da fragilità non a carico dell’anca o della colonna (NHSFF).

Obiettivi dello Studio

L’indagine si è posta i seguenti obiettivi:

  • Valutare il grado di consapevolezza dei pazienti riguardo alla frattura vertebrale diagnosticata;
  • Analizzare il tasso di coinvolgimento dei pazienti nei percorsi di cura post-frattura;
  • Misurare la compliance iniziale (inizio del trattamento) e l’aderenza terapeutica a 12 mesi ai farmaci per l’osteoporosi;
  • Evidenziare eventuali differenze comportamentali tra i tre gruppi di pazienti.

Materiali e Metodi

Lo studio ha analizzato i dati raccolti dal servizio FLS locale tra gennaio e dicembre 2022, su 1.403 pazienti di età superiore ai 50 anni. I pazienti sono stati suddivisi in tre coorti:

  1. AVFF: fratture vertebrali acute, sintomatiche e diagnosticate clinicamente;
  2. OIVFF: fratture vertebrali diagnosticate incidentalmente mediante imaging;
  3. NHSFF: fratture da fragilità di altri segmenti scheletrici (esclusi anca e colonna).

Dati raccolti:

  • Questionari inviati ai pazienti per valutare il livello di consapevolezza della frattura e il coinvolgimento;
  • Registrazioni mediche per monitorare la compliance terapeutica a 3 mesi e l’aderenza a 12 mesi.

Risultati

Profilo Demografico

Dei 1.241 pazienti analizzati, il 32,4% degli OIVFF erano uomini, contro il 18,9% degli AVFF e il 14,7% dei NHSFF. L’età mediana era di 77 anni. Questo dato suggerisce che gli uomini siano più frequentemente soggetti a OIVFF, sollevando interrogativi sui fattori di rischio specifici di genere.

Consapevolezza della Frattura

Solo il 18,98% dei pazienti OIVFF era consapevole della frattura vertebrale, contro il 68,75% degli AVFF. Questo risultato evidenzia una carenza comunicativa nel trasferimento dell’informazione diagnostica ai pazienti con frattura incidentale.

Coinvolgimento

Il tasso di restituzione dei questionari è stato del 70,3% nel gruppo OIVFF, simile agli altri gruppi. Questo indica che, nonostante la scarsa consapevolezza della frattura, i pazienti OIVFF mostrano una buona disponibilità a partecipare ai percorsi di monitoraggio della salute ossea.

Compliance e aderenza terapeutica

Dopo 3 mesi, il 87,9% dei pazienti OIVFF aveva iniziato il trattamento osteoporotico, un valore comparabile al 96,2% degli AVFF e al 75,4% dei NHSFF. Dopo 12 mesi, l’aderenza risultava simile nei tre gruppi (AVFF 88%, OIVFF 78,3%, NHSFF 80,7%).

Discussione

Il dato più rilevante riguarda l’elevata proporzione di uomini nel gruppo OIVFF, elemento che richiede ulteriori approfondimenti per comprendere se vi siano differenze nella diagnosi o nella presentazione clinica delle fratture vertebrali tra i sessi.

La scarsa consapevolezza delle fratture tra i pazienti OIVFF sottolinea l’importanza di migliorare la comunicazione tra i radiologi e i medici di base, per garantire che i pazienti ricevano informazioni chiare e comprensibili sul significato della frattura vertebrale e sui rischi futuri.

Nonostante la scarsa consapevolezza, i pazienti OIVFF hanno dimostrato livelli di compliance e aderenza simili agli altri gruppi. Ciò suggerisce che, una volta informati, i pazienti sono disposti a seguire il trattamento raccomandato.

Lo studio evidenzia che i pazienti con fratture vertebrali opportunisticamente identificate non differiscono in modo significativo dagli altri pazienti in termini di coinvolgimento e aderenza terapeutica. Tuttavia, la scarsa consapevolezza delle fratture nel gruppo OIVFF rappresenta un problema cruciale, evidenziando la necessità di migliorare i flussi comunicativi tra radiologi, medici curanti e pazienti.

Raccomandazioni

  • Implementare percorsi di comunicazione chiari per informare tempestivamente i pazienti sulle fratture vertebrali incidentali;
  • Rafforzare la formazione del personale radiologico e medico sul riconoscimento e la gestione delle VFF;
  • Approfondire con studi prospettici il comportamento dei pazienti maschi con OIVFF, per valutare eventuali differenze cliniche e diagnostiche legate al genere.

Lo studio

R. James, R. Meertens, A retrospective service evaluation of patient awareness and engagement, and medication compliance and adherence, in patients with opportunistically identified vertebral fragility fractures in a local fracture liaison service,
Radiography, Volume 31, Issue 1, 2025, Pages 406-414, ISSN 1078-8174.

Fraxin, una nuova speranza per la salute ossea

L’equilibrio tra formazione e riassorbimento osseo è essenziale per la salute dello scheletro. Nell’osteoporosi, il bilancio pende verso il riassorbimento a causa di un’eccessiva attività degli osteoclasti, cellule specializzate nella degradazione della matrice ossea. L’iperattivazione degli osteoclasti è spesso correlata all’aumento delle specie reattive dell’ossigeno (ROS), che amplificano la differenziazione e l’attività di queste cellule. Fraxin, grazie alle sue proprietà antiossidanti, sembra contrastare questi effetti dannosi.

Il ruolo dei ROS nell’osteoporosi e l’azione di Fraxin

Le ROS sono molecole instabili che svolgono un ruolo cruciale nella regolazione della funzione degli osteoclasti. Il legame del ligando RANK (RANKL) con il suo recettore RANK sulle cellule progenitrici degli osteoclasti attiva una cascata di segnali intracellulari, inclusa la via delle MAPK (Mitogen-Activated Protein Kinases) e la via NF-κB, che portano all’aumento della produzione di ROS e all’attivazione del fattore nucleare NFATc1, il regolatore principale della differenziazione osteoclastica. Fraxin contrasta questo processo riducendo i livelli di ROS, ristabilendo l’attività degli enzimi antiossidanti e modulando le vie di segnalazione intracellulari coinvolte nell’osteoclastogenesi.

Evidenze sperimentali: Fraxin in vitro e in vivo

Studi in vitro dimostrano che fraxin riduce significativamente la formazione di osteoclasti maturi derivati da precursori di midollo osseo. L’esposizione a fraxin inibisce la formazione dell’anello di F-actina, struttura essenziale per l’attività di riassorbimento osseo, e diminuisce l’espressione di geni chiave dell’osteoclastogenesi come NFATc1, MMP-9 e cathepsina K.

Nei modelli murini di osteoporosi post-ovariectomia (OVX), il trattamento con fraxin ha mostrato una significativa protezione contro la perdita ossea. Le analisi con micro-CT hanno evidenziato un aumento del volume osseo trabecolare, una maggiore densità minerale e una riduzione del numero di osteoclasti attivi nei topi trattati con fraxin rispetto ai controlli.

Prospettive future e potenziale clinico

I risultati ottenuti indicano che fraxin potrebbe rappresentare una strategia terapeutica innovativa per il trattamento dell’osteoporosi e di altre patologie osteolitiche. Tuttavia, è necessario approfondire gli studi per determinare il dosaggio ottimale, la biodisponibilità e la sicurezza del composto negli esseri umani. La ricerca futura dovrebbe inoltre valutare l’efficacia di fraxin in combinazione con altri trattamenti anti-osteoporotici e il suo potenziale effetto sul metabolismo osseo globale.

Conclusione

Fraxin si afferma come un promettente candidato per il trattamento delle malattie ossee degenerative grazie alla sua capacità di inibire l’osteoclastogenesi e ridurre lo stress ossidativo. Sebbene siano necessari ulteriori studi clinici, le evidenze attuali suggeriscono che questa molecola naturale potrebbe rappresentare un nuovo approccio terapeutico per preservare la salute scheletrica.

Lo studio

Han Zhou, Pianpian Chen, Chuanyong Zhao, Siyuan Zou, Hao Wu, Chenhao Huang, Hongwei Hu, Qianmo Wu, ChunWu Zhang, Weidong Weng,
Fraxin inhibits ovariectomized-induced bone loss and osteoclastogenesis by suppressing ROS activity, International Immunopharmacology, Volume 147, 2025, 113871, ISSN 1567-5769.

Indice infiammatorio della dieta e salute ossea negli adolescenti statunitensi

La fase adolescenziale rappresenta un periodo cruciale per lo sviluppo osseo. L’acquisizione di una massa ossea ottimale riduce il rischio di fratture e osteoporosi nell’età adulta. Studi precedenti hanno dimostrato che l’infiammazione cronica a basso grado è un fattore determinante nel metabolismo osseo, influenzando il bilanciamento tra la formazione e il riassorbimento osseo. Citochine pro-infiammatorie come IL-1, IL-6 e TNF-α favoriscono la degradazione ossea attraverso l’attivazione degli osteoclasti e la soppressione dell’attività osteoblastica.

Metodologia dello studio

L’analisi ha coinvolto 8773 adolescenti tra i 12 e i 18 anni. Il DII è stato calcolato in base ai dati di richiamo alimentare, mentre la salute ossea è stata valutata attraverso la densitometria ossea (DXA) per determinare i valori di BMD e BMC a livello della colonna lombare e dello scheletro totale (escludendo il cranio). L’indagine ha suddiviso i partecipanti in quartili di DII, dal più basso (dieta meno infiammatoria) al più alto (dieta più infiammatoria).

Risultati principali

L’analisi di regressione multivariata ha rivelato una correlazione negativa tra il DII e la densità minerale apparente della colonna lombare (BMADa), con un effetto più marcato nei maschi e negli individui non di etnia afroamericana. Gli adolescenti con un DII elevato mostravano una BMADa inferiore rispetto a quelli con un DII basso. Al contrario, non è stata trovata un’associazione statisticamente significativa tra il DII e la BMD dello scheletro totale (TBLH BMD).

Implicazioni dei risultati

Questi dati suggeriscono che una dieta con alto potenziale infiammatorio possa influire negativamente sulla salute ossea, specialmente nella colonna vertebrale. L’associazione più forte nei maschi potrebbe essere dovuta a differenze ormonali e metaboliche, che rendono il metabolismo osseo maschile più sensibile agli effetti dell’infiammazione. Inoltre, il minor impatto del DII negli adolescenti afroamericani potrebbe essere attribuito a fattori genetici e strutturali che conferiscono una maggiore densità ossea rispetto ad altre etnie.

Conclusioni e prospettive future

L’evidenza di una relazione tra alimentazione infiammatoria e salute ossea negli adolescenti sottolinea l’importanza di adottare strategie nutrizionali preventive. Promuovere una dieta ricca di alimenti anti-infiammatori, come frutta, verdura, cereali integrali e grassi salutari, potrebbe contribuire a ottimizzare lo sviluppo scheletrico e ridurre il rischio di patologie ossee future. Studi longitudinali saranno necessari per confermare questi risultati e stabilire un nesso causale tra il DII e la salute ossea in età giovanile.

Lo studio

Yuanyuan Zhang, Xuejing Wang, Shiguang Huo, Li Hong, Feifei Li, The association between dietary inflammatory index and bone health in US adolescents: Analysis of the NHANES data, Bone Reports, Volume 24, 2025, 101823, ISSN 2352-1872.

L’uso dell’AI nella valutazione della BMD, una nuova frontiera diagnostica

La densità minerale ossea (BMD) è il principale parametro diagnostico per identificare e monitorare questa condizione. Tradizionalmente, la BMD viene misurata mediante densitometria ossea a raggi X (DXA) o tomografia computerizzata quantitativa (QCT). Tuttavia, recenti sviluppi nella tomografia computerizzata a doppia energia (DECT) e l’introduzione di sistemi basati su intelligenza artificiale (AI) stanno trasformando il panorama della diagnostica ossea.

Mentre la DXA e la QCT rappresentano i metodi standard, la DECT ha recentemente mostrato il potenziale per una valutazione accurata della BMD senza necessità di calibrazione periodica. L’impiego dell’AI in questo contesto potrebbe rappresentare un salto qualitativo nella diagnosi dell’osteoporosi, consentendo un’analisi automatizzata delle immagini DECT con maggiore efficienza e precisione.

Metodi

Lo studio ha incluso 120 pazienti sottoposti a scansioni DECT e QCT tra agosto e dicembre 2023. Due reti neurali convoluzionali, 3D RetinaNet e U-Net, sono state impiegate per la segmentazione automatica del corpo vertebrale e l’estrazione della BMD. L’accuratezza della misurazione è stata valutata mediante l’errore di misurazione relativa (RME%). Inoltre, sono stati effettuati analisi di regressione lineare e di Bland-Altman per confrontare i valori di BMD tra i sistemi AI e manuale rispetto alla QCT.

Risultati

L’analisi ha rivelato che il sistema AI ha ottenuto un errore medio di misurazione inferiore rispetto al metodo manuale (-15,93% ± 12,05% vs. -25,47% ± 14,83%). Inoltre, la correlazione tra i valori di BMD ottenuti con l’AI e la QCT è risultata più elevata rispetto a quella del metodo manuale (R2 = 0,973 vs. 0,948; p < 0,001). L’AI ha mostrato un’elevata accuratezza diagnostica con un’area sotto la curva (AUC) di 0,979 per la diagnosi di osteoporosi e di 0,980 per la rilevazione di una BMD ridotta.

Discussione

L’uso dell’AI per l’analisi della BMD in immagini DECT offre numerosi vantaggi rispetto ai metodi tradizionali. In primo luogo, l’AI garantisce una segmentazione vertebrale automatizzata e accurata, riducendo l’errore umano. Inoltre, il sistema AI permette di ottenere misurazioni della BMD in modo rapido e standardizzato, facilitando l’integrazione della valutazione densitometrica nelle pratiche cliniche quotidiane. Un altro vantaggio significativo è la possibilità di effettuare screening opportunistici su immagini TC acquisite per altri scopi, senza necessità di scansioni dedicate.

Tuttavia, esistono alcune limitazioni. Lo studio ha utilizzato un unico scanner TC, e la validazione su apparecchiature diverse è necessaria per garantirne la generalizzabilità. Inoltre, sebbene la correlazione tra AI e QCT sia elevata, la differenza nei valori di BMD suggerisce la necessità di calibrazioni specifiche per migliorare ulteriormente l’accuratezza delle misurazioni.

Conclusioni

I risultati di questo studio indicano che l’uso dell’AI per la misurazione della BMD nelle scansioni DECT è altamente promettente. L’elevata accuratezza diagnostica e la riduzione dell’errore rispetto al metodo manuale suggeriscono che l’AI potrebbe diventare uno strumento essenziale per lo screening e il monitoraggio dell’osteoporosi. L’implementazione di questi sistemi nelle routine cliniche potrebbe migliorare la prevenzione delle fratture e l’identificazione precoce dei pazienti a rischio, aprendo nuove prospettive per la gestione della salute ossea.

Lo studio

Yali Li, Dan Jin, Yan Zhang, Wenhuan Li, Chenyu Jiang, Ming Ni, Nianxi Liao, Huishu Yuan,
Utilizing artificial intelligence to determine bone mineral density using spectral CT,
Bone, Volume 192, 2025, 117321, ISSN 8756-3282.

Osteoporosi, il ruolo emergente della fisetina nelle nuove strategie di trattamento

L’osteoporosi è una patologia sistemica dell’osso caratterizzata da una riduzione della densità minerale e da un deterioramento della microarchitettura ossea, con conseguente aumento del rischio di fratture. In ambito scientifico, l’attenzione si è recentemente focalizzata sull’impiego di composti naturali per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi, in particolare in condizioni di microgravità. Uno di questi composti, la fisetina, ha dimostrato un notevole potenziale terapeutico.

Fisetina: una molecola promettente per la salute ossea

La fisetina (3,3′,4′,7-tetraidrossiflavone) è un flavonoide naturale presente in diversi frutti e verdure, tra cui mele, fragole, uva, cipolle e cetrioli. Nota per le sue proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e neuroprotettive, la fisetina ha recentemente mostrato effetti positivi sulla differenziazione degli osteoblasti e sulla formazione ossea, rendendola un candidato ideale per il trattamento dell’osteoporosi.

Uno studio recente ha evidenziato che la fisetina promuove la differenziazione degli osteoblasti attraverso la regolazione del fattore di trascrizione Runt-related 2 (RUNX2) e della proteina Collagen Type I Alpha 1 (COL1A1). Questi effetti si traducono in un aumento della mineralizzazione ossea e in una maggiore resistenza della matrice extracellulare.

Effetti della fisetina sulla microgravità e sull’osteoporosi

L’osteoporosi indotta da microgravità rappresenta una delle principali problematiche per gli astronauti impegnati in missioni spaziali prolungate. Studi su modelli animali hanno dimostrato che l’esposizione a microgravità porta a una rapida perdita di massa ossea, simile a quella osservata nelle donne in post-menopausa.

Attraverso modelli sperimentali in vivo, come topi sottoposti a sospensione degli arti posteriori (HU) e topi ovariectomizzati (OVX), la fisetina ha mostrato un’azione protettiva contro la perdita ossea. I risultati ottenuti mediante micro-TC e assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA) hanno rivelato un significativo aumento della densità minerale ossea (BMD), del volume osseo trabecolare (Tb.BV/TV) e dello spessore corticale (Ct.Th) nei gruppi trattati con fisetina rispetto ai controlli non trattati.

Meccanismo d’azione della fisetina

Uno degli aspetti più innovativi di questo studio riguarda il meccanismo molecolare attraverso cui la fisetina esercita il suo effetto benefico sull’osso. La molecola agisce regolando l’espressione della chinasi CDK12, una proteina coinvolta nella fosforilazione del fattore di trascrizione RUNX2. La riduzione dell’espressione di CDK12 comporta una diminuzione della fosforilazione di RUNX2, favorendo così la trascrizione di geni osteogenici e accelerando la differenziazione degli osteoblasti.

Inoltre, l’azione della fisetina si estende alla regolazione dell’attività degli osteoclasti. Diversi studi hanno dimostrato che la fisetina inibisce la fusione cellulare e la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) indotte dal ligando RANKL, riducendo così il riassorbimento osseo.

Prospettive future e applicazioni cliniche

I risultati ottenuti suggeriscono che la fisetina potrebbe rappresentare un’opzione terapeutica promettente per il trattamento dell’osteoporosi, specialmente in contesti di perdita ossea accelerata, come la microgravità e l’osteoporosi post-menopausale. Tuttavia, ulteriori studi clinici sono necessari per confermare l’efficacia e la sicurezza del composto negli esseri umani.

La ricerca futura dovrebbe concentrarsi sull’ottimizzazione della biodisponibilità della fisetina e sulla sua possibile combinazione con altri agenti osteoprotettivi. Inoltre, l’identificazione di biomarcatori specifici potrebbe facilitare il monitoraggio della risposta al trattamento e l’individuazione di sottogruppi di pazienti che potrebbero beneficiare maggiormente di questa terapia.

Conclusione

La fisetina emerge come un agente naturale innovativo per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi. I suoi effetti benefici sulla formazione ossea, unitamente alla sua capacità di inibire la degradazione ossea, la rendono un candidato ideale per studi clinici futuri. Con ulteriori ricerche, la fisetina potrebbe diventare un elemento chiave nelle strategie terapeutiche per la salute ossea, offrendo nuove speranze per i pazienti affetti da osteoporosi e per la protezione della salute degli astronauti in missione spaziale.

Lo studio

Zixiang Wu, Lifang Hu, Wenjuan Zhang, Kang Ru, Xia Xu, Shuyu Liu, Hua Liu, Yunxia Jia, Zhihao Chen, Airong Qian, Fisetin enhances osteoblast differentiation and bone formation under simulated microgravity, Acta Astronautica, Volume 228, 2025, Pages 724-739, ISSN 0094-5765.

Nuove prospettive per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale

L’osteoporosi postmenopausale (PMO) colpisce milioni di donne in tutto il mondo, aumentando il rischio di fratture e compromettendo la qualità della vita. Denosumab, un anticorpo monoclonale che inibisce il RANKL, è tra i trattamenti più efficaci, ma il suo costo rappresenta un ostacolo alla sua ampia diffusione. I biosimilari, come SB16, offrono un’opzione terapeutica economicamente più sostenibile, purché dimostrino equivalenza in termini di efficacia, sicurezza e immunogenicità rispetto al farmaco originale.

Un recente studio di fase III ha valutato SB16 rispetto a denosumab per un periodo di 18 mesi, coinvolgendo 457 donne con osteoporosi postmenopausale. Dopo 12 mesi di trattamento, le partecipanti che assumevano denosumab sono state randomizzate per continuare con il farmaco originario o passare a SB16, mentre le pazienti trattate con SB16 hanno continuato lo stesso regime terapeutico.

Risultati principali

Efficacia

L’aumento della densità minerale ossea (BMD) alla colonna lombare, all’anca totale e al collo del femore è risultato comparabile tra i gruppi di trattamento. In particolare:

  • L’incremento della BMD alla colonna lombare è stato del 6,8% nel gruppo SB16-SB16, del 6,2% nel gruppo Denosumab-SB16 e del 6,8% nel gruppo Denosumab-Denosumab.
  • Per l’anca totale, la variazione della BMD è stata rispettivamente del 4,4%, 3,5% e 4,0%.
  • Al collo del femore, l’incremento è stato del 3,4%, 3,1% e 2,7%.

Questi dati confermano che SB16 è equivalente a denosumab in termini di efficacia, sia nelle pazienti che lo hanno assunto sin dall’inizio, sia in coloro che sono passate da denosumab a SB16.

Sicurezza e tollerabilità

Il profilo di sicurezza di SB16 si è dimostrato sovrapponibile a quello di denosumab. Gli eventi avversi più comuni sono stati lievi o moderati, con un’incidenza simile tra i gruppi. Solo un caso di sviluppo di anticorpi anti-farmaco è stato osservato nel gruppo Denosumab-SB16, senza effetti clinicamente rilevanti. Nessun caso di osteonecrosi della mandibola o fratture atipiche del femore è stato riportato.

Farmacodinamica e immunogenicità

Le analisi hanno evidenziato una soppressione efficace del turnover osseo, con riduzioni comparabili dei livelli sierici di CTX e P1NP nei tre gruppi di trattamento. La risposta farmacocinetica e l’immunogenicità di SB16 sono risultate simili a quelle di denosumab, con un rischio molto basso di sviluppo di anticorpi neutralizzanti.

Implicazioni cliniche

L’introduzione di SB16 rappresenta una svolta significativa nella gestione dell’osteoporosi postmenopausale. La disponibilità di un biosimilare efficace e sicuro può migliorare l’accesso delle pazienti al trattamento, riducendo i costi e garantendo una maggiore aderenza terapeutica. La possibilità di passare da denosumab a SB16 senza perdita di efficacia o aumento degli eventi avversi rafforza ulteriormente la validità di questa opzione terapeutica.

Conclusioni

I risultati dello studio confermano che SB16 è un’alternativa valida e sicura a denosumab per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale. L’equivalenza dimostrata in termini di efficacia, sicurezza e immunogenicità lo rende una scelta strategica per la gestione di questa patologia, con potenziali benefici economici e clinici per pazienti e sistemi sanitari.

Lo studio

Yoon-Sok Chung, Bente Langdahl, Rafal Plebanski, Edward Czerwinski, Eva Dokoupilova, Jerzy Supronik, Jan Rosa, Andrzej Mydlak, Rafal Sapula, Anna Rowińska-Osuch, Ki-Hyun Baek, Audrone Urboniene, Robert Mordaka, Sohui Ahn, Young Hee Rho, Jisuk Ban, Richard Eastell, SB16 versus reference denosumab in postmenopausal women with osteoporosis: 18-month outcomes of a phase III randomized clinical trial, Bone, Volume 192, 2025,
117371, ISSN 8756-3282.