In caso di lesioni da edema midollare dell’osso (bone marrow edema, BME, o edema osseo), la subcondroplastica rappresenta una scelta terapeutica valida, sicura ed efficace, con pochi limiti, anche se è da studiare più approfonditamente. Ne ha parlato, in occasione del convegno di BoneHealth del gennaio 2022 “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche“, Stefano Pasqualotto, dirigente medico di primo livello presso l’Unità Operativa Complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS “Sacro Cuore – Don Calabria” di Negrar (VR).
Le terapie per l’edema osseo e la subcondroplastica
In caso di bone marrow lesion, la prima linea di trattamento è rappresentata dal trattamento conservativo: FANS, terapie fisiche, terapia infiltrativa, campi elettromagnetici pulsati, bisfosfonati o analoghi della prostaciclina. Nel caso in cui questo fallisca, si ricorre al trattamento chirurgico, che avrà l’obiettivo di trattare la lesione oppure la sua causa.
La subcondropastica, sviluppata da Cohen e Sharkey nel 2012, è una procedura chirurgica che introduce per via percutanea un materiale biocompatibile, il calcio fosfato o fosfato di calcio, nelle regioni di edema osseo. Il prodotto usato risulta facilmente iniettabile e ha una struttura simile a quella dell’apatite nativa: Ca10-x(M)x(PO4)6-x(HPO4,CO3)x(OH)2-x.
Gli obiettivi del trattamento sono:
- Migliorare la resistenza meccanica dell’osso;
- Stimolare il rimodellamento osseo;
- Limitare cedimenti strutturali;
- Evitare che il danno articolare progredisca;
- Ridurre la sintomatologia dolorosa.
In effetti, il calcio fosfato a 37 °C cristallizza in una struttura nano-cristallina macroporotica che ha proprietà osteoconduttive, che quindi favorisce il rimodellamento e l’apposizione di nuovo tessuto osseo. Il primo studio sulla subcondroplastica è stato eseguito su 66 pazienti (il 96% con artrosi di grado III-IV) che rifiutavano una protesi di ginocchio pur essendo candidabili: a distanza di 2 anni dall’operazione, presentavano un miglioramento del punteggio VAS dei 4,6 punti e dell’IKDC score di 17,8 punti. Inoltre, il 70% delle persone non aveva avuto necessità di una protesi. Gli autori, quindi, hanno concluso che la subcondroplastica è una procedura poco invasiva, sicura ed efficace. Anche altri studi hanno dato risultati positivi, come la ricerca di Pasqualotto e colleghi, eseguita sui primi 15 pazienti dell’équipe, con follow-up a 12 mesi. Ha rilevato una riduzione di 43 punti nella scala VAS, un miglioramento della scala KOOS di 38,1 punti e una riduzione di 31,1 punti nella scala WOMAC. Non sono emersi fallimenti, anche se questo può essere spiegato dal minore grado di gravità medio della condizione nei pazienti considerati.
La letteratura sulla subcondroplastica
Secondo la review sulla subcondroplastica pubblicata su Cartilage nel 2018, questa tecnica migliora dolore e funzionalità, con bassa percentuale di complicanze e ritorno all’attività completa a 3 mesi. Nel 25% dei casi il dolore persiste, ma il quadro clinico migliora nettamente rispetto al preoperatorio e a 2 anni di distanza il 70% dei pazienti già candidati a protesi totale di ginocchio non ne ha necessità. La metanalisi del 2021 conferma questo bilancio positivo, rilevando una riduzione di 4,8 punti sulla scala VAS, miglioramenti della funzionalità articolare (con IKDC che passava da 31,7 a 54 e KOOS da 38,1 a 70) e tasso di fallimento tra 12,5% e 30% in follow-up dai 12 mesi ai 7 anni.
Anche lo studio guidato da Elizaveta Kon del 2020 ha osservato che la subcondroplastica ha effetti positivi sia sulla ripresa funzionale sia sul dolore su follow-up limitati e un tasso di fallimento inferiore al 30% a 2 anni dal trattamento (con il 35% dei pazienti che necessitavano di ulteriore trattamenti, in genere cicli infiltrativi con acido ialuronico). Tuttavia, ha anche sottolineato che manca evidenza clinica di elevata qualità. Infatti, sono assenti trial clinici randomizzati e le ricerche presenti includono pochi pazienti.
Quando è indicata la subcondroplastica?
La subcondroplastica è indicata in caso di:
- Presenza di una bone marrow lesion alla risonanza in zone di carico;
- Dolore localizzato a livello dell’edema osseo e persistente da almeno 3 mesi;
- Fallimento dei trattamenti conservativi.
Non è consigliabile applicare questo trattamento in presenza di edema osseo associato a danno articolare in cui si sfocia in osteonecrosi, mentre è attuabile in caso di danno articolare non avanzato.
Planning pre-operatorio e tecnica chirurgica
In preparazione all’operazione chirurgica per subcondroplastica, occorre:
- Calcolare la distanza dall’interlinea articolare in senso prossimo-distale per sapere dove introdurre la cannula;
- Misurare la distanza dalla corticale più vicina, per sapere quanto entrare in profondità;
- Valutare, in proiezione sagittale, se la lesione è situata nel terzo anteriore, medio o posteriore, per sapere il punto in cui introdurla.
In sala operatoria, sotto guida fluoroscopica, con un repere si ricerca a livello cutaneo il punto di introduzione della cannula, confrontandolo con il planning sulla risonanza magnetica. Quindi, con una dermografica si tracciano due linee perpendicolari che s’intersecano nel sito del punto di ingresso. Poi s’introduce la polvere di fosfato di calcio nel miscelatore, in una delle due formulazioni: quella da 5 cc viene addizionata a 3,2 cc di fisiologica, mentre quella da 3 cc con 2,2 cc di fisiologica. Si miscelano per un minuto, ottenendo un prodotto con una consistenza simile a una pasta. Questa va introdotta nelle siringhe definitive.
Si procede a inserire la cannula fenestrata in corrispondenza della bone marrow lesion. La cannula può avere fenestura frontale o 3 fenestrature laterali: in questo caso occorre verificare che tutte le fenestrature siano all’interno dell’osso per evitare fuoriuscita del materiale all’esterno. Si controlla l’operazione in fluoroscopia, sia in anteroposteriore sia in laterale, e si inietta il calcio-fosfato. Si attendono 10 minuti affinché il prodotto cristallizzi; dopodiché, si può eseguire un’artroscopia per verificare se vi sia stato stravaso e rilevare possibili patologie articolari quali flap meniscali e flap cartilaginei.
Follow-up
Il gruppo del dottor Pasqualotto effettua controlli clinici a distanza di 1, 3, 6 e 12 mesi. È fondamentale che le immagini siano interpretate da radiologi correttamente informati sul significato di ciò che la tecnica può evidenziare:
- In radiografia si evidenzia un’area di iperdensità dov’è presente il fosfato di calcio;
- Alla risonanza magnetica nelle sequenze T2 emerge un’area ipointensa che racchiude il tramite di introduzione della cannula iperintenso ed è circondata da un orlo iperintenso;
- Alla tomografia computerizzata si osserva la zona di introduzione della cannula come ipointensa e circondata da un’area di iperdensità.
Limitazioni e complicanze della subcondroplastica
Le limitazioni della subcondroplastica includono:
- Dolore e limitazioni funzionali legate ad altre patologie;
- Presenza di lassità legamentose importanti;
- Deviazioni assiali in varo/valgo significative (> 8°), anche se può essere possibile correggerle contestualmente;
- Artrosi bicompartimentale o tricompartimentale di IV grado.
Tra le complicanze di questa pratica chirurgica si annoverano soprattutto complicanze minori, quali:
- Leakage intra-articolare (soprattutto in quelle a livello femorale), che si può rimuovere con lo shaver in artroscopia;
- Leakage extra-articolare (più frequente a livello tibiale), nel qual caso è sufficiente ampliare l’incisione ed eliminare il prodotto con un lavaggio;
- Arresto del calcio fosfato all’interno della cannula (quando si attende troppo);
- Rottura della cannula in caso di movimenti troppo bruschi;
- Incremento del dolore nelle 72 ore postoperatorie. Questo avviene molto frequentemente, quindi occorre avvertire il paziente.
Vi sono poi complicanze maggiori e severe, ovvero l’osteomielite, riportata in un caso in letteratura, e il fallimento della procedura, con la persistenza del dolore nei mesi successivi. Tuttavia, come emerge da uno studio di Yoo e colleghi pubblicato nel 2016, una subcondroplastica non riuscita non compromette in nessun modo l’operazione di artroplastica del ginocchio nel paziente con edema osseo:
- Non complica la performance chirurgica;
- Non aumenta il tasso di complicanze intraoperatorie né quelle postoperatorie;
- Non influenza gli outcome precoci rispetto a una protesi standard.
Conclusioni e prospettive future
Le indicazioni originali prevedevano bone marrow lesion del compartimento mediale, condilo femorale mediale e piatto tibiale mediale. Poi, hanno incluso anche lesioni del compartimento laterale e del compartimento femoro-rotuleo e anche in associazione ad altre tecniche chirurgiche.
“Un altro caso è quello di subcondroplastica nelle protesi monocompartimentali dolorose, in particolare nei pazienti con dolore elettivo a livello tibiale, senza segni di instabilità o malposizione dell’impianto. L’introduzione di questa tecnica ci è VENUTA studiando […] la letteratura: dal 24 al 48% delle protesi mono è dovuto a un dolore non spiegato, unexplained pain. Questi lavori hanno controllato il carico dell’osso spongioso sottoprotesico e hanno visto che, in relazione a diverse entità di carico assiale […], negli impianti All-Poly il volume di osso spongioso sottoprotesico sottoposto a un sovraccarico patologico è di 2-3 volte maggiore rispetto agli impianti metal-backed. In più, gli impianti All-Poly sono associati a un maggior numero di micro-cracks (da 1,8 a 6 volte). […] Hanno concluso dicendo che questi micro-cracks possono essere la causa responsabile del dolore sottoprotesico. Quindi, abbiamo iniziato a fare questo trattamento, assolutamente off-label, in pochi pazienti: per ora, 6, di cui uno purtroppo è fallito.”
In conclusione, nel trattamento delle bone marrow lesion associate ad osteoartrosi refrattaria alle terapie conservative, la subcondroplastica rappresenta una procedura efficace e tissue-sparing che non altera l’anatomia e non preclude eventuali trattamenti ulteriori più invasivi. Gli studi in letteratura riportano risultati favorevoli in termini di miglioramento del dolore e della funzionalità, con ripresa dell’attività a 3 mesi dall’intervento. Tuttavia, a causa della mancanza di trial clinici randomizzati e della scarsità dei campioni considerati, sono necessarie più evidenze scientifiche e studi più robusti per definire meglio le indicazioni di trattamento.