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Associazione tra assunzione di selenio nella dieta e prevalenza di osteoporosi

L’eziologia dell’osteoporosi è multifattoriale e, tra le eziologie già note, si ritiene che i fattori dietetici abbiano una grande importanza. Tuttavia, la maggior parte degli studi esistenti si concentra sull’assunzione di calcio, mentre sono raramente studiati altri fattori dietetici, in particolare gli oligoelementi, che possono anche svolgere un ruolo significativo nella prevenzione dell’osteoporosi (OP) [1].

Il selenio (Se) è un oligoelemento essenziale per l’essere umano: una carenza di Se può portare a un aumento dei livelli intracellulari di specie reattive dell’ossigeno (ROS), considerati causa prossimale nella patogenesi dell’OP [2].

Diversi studi sull’uomo che hanno analizzato l’associazione tra concentrazione di Se e BMD o frattura dell’anca osteoporotica, ma i risultati sono inconcludenti, inoltre la maggior parte degli studi si è focalizzata sulla concentrazione di Se nel sangue piuttosto che sull’assunzione di Se nella dieta.

Per colmare questa lacuna di conoscenza, è stato condotto uno studio trasversale su un ampio campione per valutare l’associazione tra l’assunzione di Se con la dieta e la prevalenza di OP in una popolazione cinese di mezza età e anziana.

Assunzione di selenio e prevalenza di osteoporosi

Un gruppo di ricercatori della Central South University di Changsha in China ha esaminato la correlazione tra l’assunzione di selenio con la dieta (Se) e la prevalenza di osteoporosi (OP) nella popolazione di mezza età e anziana in Cina.

I dati dello studio pubblicato su BMC Musculoskeletal Disorders sono stati raccolti da uno studio trasversale sulla popolazione condotto presso l’Health Management Centre dell’ospedale Xiangya.

Metodi

L’assunzione di Se attraverso la dieta è stata valutata usando un questionario semiquantitativo di frequenza alimentare validato. L’osteoporosi è stata diagnosticata sulla base di scansioni della densità minerale ossea utilizzando un sistema compatto di assorbimetria radiografica. La correlazione tra l’assunzione di Se nella dieta e la prevalenza di OP è stata principalmente esaminata attraverso un modello di regressione logistica multivariabile.

Risultati

Lo studio trasversale ha incluso un totale di 6.267 soggetti di età pari o superiore a 40 anni (età media: 52,2 ± 7,4 anni; 42% donne) e la prevalenza di OP tra i soggetti inclusi è stata del 9,6% (2,3% negli uomini e 19,7% nelle donne).

Rispetto al quartile più basso, che ha assunto con la dieta mediamente 22,8 μg/day di Se, il secondo quartile (assunzione di Se media 34,8 μg/day) ha avuto rapporti di probabilità (odds ratio OR) – dopo aggiustamento per assunzione di calorie, età, sesso e indice di massa corporea (BMI) – di OP pari a 0,72 (intervallo di confidenza al 95% CI 0,55-0,94), il terzo quartile (assunzione di Se media 45,0 μg/day) 0,72 (IC al 95% 0,51-1,01), il quarto quartile (assunzione di Se media 63,4 μg/day) 0,47 (IC 95% 0,31-0,73), con P per tendenza = 0,001.

I risultati sono rimasti coerenti in soggetti maschi e femmine.

L’aggiustamento per ulteriori potenziali fattori confondenti (ad es. fumo, stato di consumo, livello di attività fisica, assunzione di integratori alimentari, diabete, ipertensione, apporto di fibre e apporto di calcio) non ha comportato cambiamenti sostanziali nei risultati.

Inoltre è stata osservata una correlazione negativa tra l’assunzione di Se nella dieta e l’OR per OP, con una relazione dose-risposta.

Conclusioni

In soggetti di età pari o superiore ai quarant’anni, livelli più bassi di assunzione di selenio attraverso la dieta corrispondono a una maggiore prevalenza di OP con una correlazione dose-risposta.

Lo studio

Wang Y, Xie D, Li J, Long H, Wu J, Wu Z, He H, Wang H, Yang T, Wang Y Association between Dietary Selenium Intake and the Prevalence of Osteoporosis: A Cross-Sectional Study. BMC, 22 nov 2019.

Bibliografia

  1. Zofkova I, Nemcikova P, Matucha P Trace elements and bone health. Clin Chem Lab Med 2013, 51(8):1555-1561.
  2. Manolagas SC From estrogen-centric to aging and oxidative stress: a revised perspective of the pathogenesis of osteoporosis. Endocr Rev2010, 31(3):266-300

Correlazione tra durata del sonno e rischio di osteoporosi in donne in postmenopausa

È noto che dormire meno di sette ore per notte può causare problemi alla salute, ma l’associazione tra sonno e salute delle ossa non è ancora nota.

Un team di ricercatori dell’Università di Buffalo, New York, ha condotto uno studio su 11.084 donne in postmenopausa aderenti al programma Women’s Health Initiative (età media 63,3 anni, DS = 7,4) per verificare le associazioni tra comportamento normale del sonno e densità minerale ossea (BMD) e osteoporosi. I risultati dello studio sono stati riportati in un articolo pubblicato sul Journal of Bone and Mineral Research.

La Women’s Health Initiative (WHI) ha arruolato 161.808 donne in postmenopausa di età compresa tra 50 e 79 anni in 40 centri clinici per studi clinici e uno studio osservazionale. Lo studio si è concentrato sulla coorte WHI DXA: un gruppo di donne per le quali è stata misurata l’assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA) in uno dei tre centri clinici (Pittsburgh, Pennsylvania, Birmingham, Alabama, Tucson / Phoenix, Arizona). Circa 11.323 donne hanno avuto una scansione DXA completa alla visita di base WHI. Dopo aver escluso 239 donne con dati sul sonno incompleti, il campione finale esamitanto è stato di 11.084 donne.

È stato condotto uno studio studio trasversale (crosssectional) sull’associazione tra le ore consuete dichiarate di sonno e la qualità del sonno con i valori di BMD osservata in tutto il corpo, a livello dell’anca, del collo del femore e della colonna vertebrale usando modelli di regressione lineare.

È stata inoltre indagata, mediante assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA), la relazione tra durata e qualità del sonno e bassa densità minerale ossea (T-score da −2,5 a <−1) e osteoporosi (T-score ≤ −2,5), usando modelli di regressione multinomiale.

I risultati sono stati adattati per età, macchina DXA usata, razza, sintomi della menopausa, educazione, fumo, indice di massa corporea, uso di alcol, movimento fisico e uso di farmaci per il sonno. Nei modelli di regressione lineare adattati, le donne che hanno riferito di dormire cinque ore o meno a notte hanno fatto registrare valori di BMD mediamente inferiori da 0,012 a 0,018 g/cm2 in tutti e quattro i siti indagati rispetto alle donne che hanno riferito di dormire sette ore a notte (riferimento).

Nei modelli multinomiali adattati, le donne che hanno riferito di dormire cinque ore o meno a notte avevano probabilità più alte di avere bassa densità minerale ossea e osteoporosi a livello dell’anca (odds ratio [OR] = 1,22; intervallo di confidenza al 95% [CI] 1,03–1,45 e 1,63; 1,15– 2,31, rispettivamente). Sono stati rilevati risultati simili relativamente ai valori di BMD registrati a livello della colonna vertebrale: donne con cinque ore o meno di sonno a notte avevano probabilità più elevate di osteoporosi (aggiustamento OR = 1,28; IC 95% 1,02–1,60).

Per confermare gli effetti trasversali della durata del sonno sulla salute delle ossa ed esplorare i meccanismi associati, sono necessari studi longitudinali.

Sonno e salute

Il sonno è un processo biologico fondamentale che svolge un ruolo chiave in una varietà di funzioni metaboliche ed endocrine [1]. Il cattivo sonno è collegato a una vasta gamma di condizioni di salute avverse, tra cui obesità, diabete [2], ipertensione, malattie cardiovascolari [3] e mortalità [4].

La bassa densità ossea e le fratture osteoporotiche sono manifestazioni comuni dell’invecchiamento e associate entrambe a maggiori rischi di morbilità e mortalità. Circa una donna su tre di età pari o superiore a 50 anni subirà una frattura nel corso della sua vita.

SCARICA IL REPORT “BONE CARE FOR THE POSTMENOPAUSAL WOMAN”

I ricercatori hanno considerato che non esistevano molti  studi di grandi dimensioni sull’associazione tra salute del sonno e salute delle ossa, comprese le misurazioni della densità minerale ossea e il rischio di osteoporosi e hanno valutato che, poiché l’invecchiamento è associato a cambiamenti nel riassorbimento osseo e nella formazione ossea, sarebbe stato opportuno condurre studi epidemiologici ampi su donne in postmenopausa che presentano il più alto rischio di fratture.

Lo studio per valutare se il comportamento del sonno è anche associato a una bassa densità minerale ossea (BMD) si è basato su un lavoro precedente in cui i ricercatori avevano identificato un’associazione tra un sonno breve o lungo e disturbato con cadute e fratture ricorrenti [5] .

L’obiettivo dello studio era quindi di esaminare l’associazione della durata e della qualità del sonno con la BMD in più siti del corpo e la prevalenza di osteopenia e osteoporosi.

Sonno e osteoporosi

Nel più grande studio condotto finora sul sonno e sulla BMD in un campione di donne in postmenopausa negli Stati Uniti, i risultati indicano che nelle donne adulte anziane un sonno di breve durata è associato a BMD inferiore in più siti del corpo, sebbene con modesta rilevanza clinica. In particolare, le donne che hanno dormito per cinque ore o meno avevano probabilità più elevate di bassa massa ossea e osteoporosi dell’anca e di tutto il corpo.

In sintesi, lo studio ha fornito prove epidemiologiche sul sonno come fattore di rischio parzialmente modificabile per la BMD che merita ulteriori repliche e studi meccanicistici.

Sono necessari studi prospettici per valutare se la durata del sonno è associata alla perdita di BMD e gli effetti a breve e lungo termine di cattiva gestione del sonno sulla salute delle ossa. Se gli studi dimostrano che la durata del sonno ha un nesso causale con la densità ossea, gli interventi di promozione del sonno possono essere utili per mitigare la perdita ossea in soggetti ad alto rischio di osteoporosi.

Lo studio

H M Ochs‐Balcom, K M Hovey, C Andrews, J A Cauley, L Hale et al Short Sleep Is Associated With Low Bone Mineral Density and Osteoporosis in the Women’s Health InitiativeJbmr, 2019 https://doi.org/10.1002/jbmr.3879

Bibliografia

[1] Van Cauter EPlat LLeproult RCopinschi GAlterations of circadian rhythmicity and sleep in aging: endocrine consequencesHorm Res. 1998493–4): 147– 52

[2] Bayon VLeger DGomez‐Merino DVecchierini MFChennaoui MSleep debt and obesityAnn Med. 2014465): 264– 72

[3] Bayon VLeger DGomez‐Merino DVecchierini MFChennaoui MSleep debt and obesityAnn Med. 2014465): 264– 72

[4] Lee WJPeng LNLiang CKChiou STChen LKLong sleep duration, independent of frailty and chronic inflammation, was associated with higher mortality: a national population‐based studyGeriatr Gerontol Int.20171710): 1481– 7

[5] Cauley JAHovey KMStone KL, et al. Characteristics of self‐reported sleep and the risk of falls and fractures: the Women’s Health Initiative (WHI)J Bone Miner Res. 2019343): 464– 74

 

Trattamento anti-interleuchina-1 in pazienti con artrite reumatoide e diabete di tipo 2

Negli ultimi due decenni, l’introduzione di farmaci biologici antireumatici modificanti la malattia (bDMARD) associati a un approccio treat-to-target ha migliorato notevolmente la gestione dell’artrite reumatoide (RA) [Biologics for rheumatoid arthritis: an overview of Cochrane reviews]; tuttavia, nonostante la significativa riduzione dei danni strutturali articolari, diversi studi hanno dimostrato che gli eventi cardiovascolari (CV) stanno emergendo come la principale causa di morte in questi pazienti, sottolineando così la stretta associazione tra RA e malattia CV (CVD) [Cardiovascular comorbidity in rheumatic diseases].

Per quanto riguarda il ruolo dei tradizionali fattori di rischio CV nella RA, è stata evidenziata un’aumentata associazione tra RA e il metabolismo anomalo del glucosio, ciò che spiega l’elevata prevalenza di diabete di tipo 2 (T2D) e di insulino-resistenza (IR) in questi pazienti [Prevalence of type 2 diabetes and impaired fasting glucose in patients affected by rheumatoid arthritis].

L’interleuchina-1β (IL-1β), IL-6 e il fattore di necrosi tumorale (TNF), che sono coinvolti nella patogenesi della RA, possono anche svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’IR [Targeting inflammation in the treatment of type 2 diabetes: time to start].

È interessante notare che l’aumento dei livelli di glucosio stressa le isole pancreatiche e i tessuti sensibili all’insulina, portando all’iperproduzione di IL-β. Questo IL-1β sovraespresso contribuisce alla patogenesi del T2D, causando disfunzione e apoptosi delle cellule β, con conseguente riduzione della produzione di insulina.  Inoltre, IL-1β potrebbe inibire direttamente la secrezione di insulina stimolata dal glucosio e innescare la via intrinseca apoptotica mitocondriale nelle cellule β.

La recente conoscenza del contributo dei processi infiammatori alla patogenesi del T2D ha suggerito nuove strategie terapeutiche antidiabetiche in cui i bDMARD, che sono comunemente usati nel trattamento della RA, possono essere efficaci nel migliorare le anomalie del glucosio. Tuttavia, nonostante il crescente numero di prove provenienti da studi preclinici e clinici che confermano il ruolo del targeting per citochine infiammatorie nel miglioramento degli esiti clinici e di laboratorio nei pazienti T2D, nessuno studio clinico specificamente progettato per valutare l’esito glicemico in pazienti con RA e T2D è stato finora pianificato [Anti-interleukin-1 treatment in patients with rheumatoid arthritis and type 2 diabetes (TRACK): A multicentre, open-label, randomised controlled trial].

Basandosi sull’approccio treat-to-target che accomuna RA e T2D, l’individuazione di un singolo trattamento che controlla entrambe queste malattie sembra essere una scelta promettente per migliorare la gestione dei pazienti con RA e T2D [IL-1β at the crossroad between rheumatoid arthritis and type 2 diabetes: may we kill two birds with one stone?]. L’aderenza alla terapia è infatti inversamente proporzione al numero di farmaci assunti dai pazienti in politerapia e ogni singola strategia terapeutica che tratta contemporaneamente due malattie diverse può anche aiutare i decisori delle politiche sanitarie a ottimizzare i costi mantenendo la qualità dei trattamenti.

A partire da queste considerazioni, per verificare se l’inibizione dell’IL-1 con anakinra potesse indurre il miglioramento dei parametri glicemici e infiammatori nei partecipanti con RA e T2D, rispetto ai partecipanti trattati con un inibitore del TNF (TNFi), ricercatori coordinati dalla Cattedra di Reumatologia del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze Cliniche Applicate dell’Università de L’Aquila hanno condotto uno studio multicentrico, randomizzato, in aperto, prospettico, controllato, a gruppi paralleli. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS Medicine Anti-interleukin-1 treatment in patients with rheumatoid arthritis and type 2 diabetes (TRACK). A multicentre, open-label, randomised controlled trial.

Metodi e risultati

Lo studio multicentrico, open-label, randomizzato ha coinvolto e seguito per sei mesi (tra il 2013 e il 2016) 41 pazienti con RA e T2D in 12 unità reumatologiche italiane. I partecipanti sono stati trattati con anakinra o con un TNFi (come ad es. adalimumab, certolizumab pegol, etanercept, infliximab o golimumab) e l’end point primario era la variazione della percentuale di emoglobina glicata (HbA1c%) (EudraCT: 2012-005370-62 ClinicalTrial.gov: NCT02236481).

In totale, sono stati randomizzati 41 partecipanti con RA e T2D e ne sono stati trattati 39 ammissibili (età 62,72 ± 9,97 anni; 74,4% sesso femminile). La maggior parte dei partecipanti era affetta da artrite reumatoide sieropositiva (fattore reumatoide e/o anticorpi anti peptide ciclico citrullinato [ACPA] 70,2%) con malattia attiva (Disease Activity Score-28 [DAS28]: 5,54 ± 1,03; proteina C reattiva 11,84 ± 9,67 mg/L, rispettivamente). Tutti i partecipanti avevano T2D (HbA1c%: 7,77 ± 0,70; glicemia a digiuno: 139,13 ± 42,17 mg).

Dopo i primi sei mesi di follow-up, l’importante differenza nel raggiungimento dell’end point principale – confermato da un’analisi ad hoc non pianificata che ha mostrato la superiorità di anakinra rispetto agli altri TNFis – ha portato a fermare lo studio per beneficio anticipato.

I partecipanti al gruppo anakinra hanno avuto una riduzione significativa dell’HbA1c%, in un modello misto lineare non aggiustato, dopo tre mesi (β:−0,85; p<0,001; IC al 95% da −1,28 a −0,42) e dopo sei mesi (β:−1,05; p<0,001; IC al 95% da −1,50 a −0,59). Risultati simili sono stati osservati modificando il modello per rilevanti confonditori clinici di RA e T2D (sesso maschile, età, positività ACPA, uso di corticosteroidi, durata della RA, durata T2D, uso di un farmaco antidiabetico orale, indice di massa corporea [BMI]) dopo tre mesi (β:−1,04; p<0,001; IC al 95% da −1,52 a −0,55) e dopo sei mesi (β:−1,24; p<0,001; IC al 95% da −1,75 a −0,72). I partecipanti al gruppo TNFi hanno avuto una leggera riduzione non significativa dell’HbA1c%. Supponendo che la soglia di successo sia HbA1c% ≤ 7, è stata considerata una riduzione del rischio assoluto (ARR) = 0,42 (tasso di eventi sperimentali = 0,54; tasso di eventi di controllo = 0,12); pertanto, è stato stimato, arrotondando per eccesso, un numero necessario per il trattamento (NNT) = 3.

Per quanto riguarda la RA, è stata osservata una riduzione progressiva dell’attività della malattia in entrambi i gruppi.

Non sono stati osservati eventi avversi gravi, episodi ipoglicemici o decessi. Reazioni locali nel sito di iniezione hanno portato alla sospensione di 4 (18%) partecipanti trattati con anakinra. Inoltre, sono state osservate infezioni non gravi, tra cui influenza, rinofaringite, infezione del tratto respiratorio superiore, infezione del tratto urinario e diarrea in entrambi i gruppi.

Interruzione per beneficio precoce

Inaspettatamente, l’ipotesi di studio è stata dimostrata prima della fine dello studio, con una maggior percentuale di partecipanti trattati con anakinra che hanno soddisfatto l’end point primario (variazione dei livelli di HbA1c% tra la baseline e le visite successive, con differenza assoluta tra i due bracci valutata significativa, in accordo con la letteratura, se pari allo 0,25%) rispetto ai partecipanti trattati con TNFi.

I risultati suggeriscono che l’inibizione dell’IL-1 da parte di anakinra può consentire il targeting terapeutico di entrambi i disturbi e l’uso di un singolo agente può aiutare nella gestione delle malattie infiammatorie e metaboliche.

Nei partecipanti trattati con anakinra è stata osservata una significativa riduzione di HbA1c%, che suggerisce l’efficacia metabolica dell’inibizione dell’IL-1. I risultati sono in linea con quelli di un precedente studio [Interleukin-1–Receptor Antagonist in Type 2 Diabetes Mellitus] in quanto i partecipanti al T2D trattati con anakinra hanno mostrato una diminuzione di HbA1c e del rapporto tra proinsulina e insulina. È interessante notare che l’estensione di questo studio ha dimostrato che questo miglioramento dei parametri glicemici era ancora presente 39 settimane dopo l’interruzione di anakinra, confermando che anakinra è in grado di migliorare la secrezione di insulina. Inoltre, confrontando i risultati dello studio in oggetto con il precedente studio su T2D [Interleukin-1–Receptor Antagonist in Type 2 Diabetes Mellitus], è stata osservata una riduzione più evidente dell’HbA1c%, suggerendo che i meccanismi patogeni infiammatori di T2D potrebbero essere esagerati nel contesto della RA. In effetti, è stata osservata una correlazione significativa tra i livelli decrescenti di HbA1c% e la riduzione dell’attività della malattia. Al contrario, la terapia con anakinra non ha mostrato alcun effetto nei partecipanti con diabete di tipo 1 (T1D), probabilmente perché l’insulite pancreatica nel T1D è principalmente guidata da un processo autoimmune-mediato, piuttosto che da un processo autoinfiammatorio, come suggerito in T2D, quindi non supporta i benefici dell’inibizione dell’IL-1 nel T1D. Infatti, durante il T2D, i livelli eccessivi di nutrienti, tra cui glucosio e acidi grassi liberi, stressano le isole pancreatiche e i tessuti sensibili all’insulina, portando all’iperproduzione di IL-β tramite l’attivazione inflammasoma NLRP3, un sensore di pericolo metabolico. Inoltre, alte concentrazioni di glucosio inducono la sovraespressione del recettore FAS proapoptotico sulle cellule β. Di conseguenza, IL-1β e FAS possono contribuire, da un lato, alla compromissione indotta dal glucosio della funzione secretoria delle cellule β e, dall’altro, può portare all’apoptosi delle cellule β.

In questo studio, nei partecipanti trattati con anakinra, parallelamente alla riduzione dell’HbA1c%, è stata osservata una riduzione di FPG (fasting plasma glucose). Nonostante il miglioramento dell’HbA1c% e dell’FPG nei partecipanti trattati con anakinra, non è stata osservata ipoglicemia sintomatica. In effetti, le limitazioni dei trattamenti antidiabetici, come l’insulina e le sulfoniluree, possono includere l’insorgenza di ipoglicemia sintomatica imprevedibile. Al contrario, è stato suggerito che, a seguito del miglioramento della funzione delle cellule β, usando l’antagonismo dell’IL-1, queste cellule dovrebbero rilasciare quantità adeguate di insulina dopo la stimolazione metabolica, riducendo così il rischio di ipoglicemia. Infine, il BMI (body mass index) dei partecipanti è rimasto stabile, escludendo così la possibilità che il miglioramento dei parametri metabolici possa essere associato a un effetto anoressigenico di anakinra.

Per quanto riguarda il trattamento con TNFi, durante il follow-up non è stato osservato un effetto statisticamente significativo sull’HbA1c%. Nonostante l’evidenza sperimentale suggerisca un possibile ruolo del TNF nella regolazione della produzione e della funzione dell’insulina, la traduzione dagli studi di base al contesto clinico non è riuscita a confermare un ruolo del TNFi nel trattamento del T2D umano.

In base a questi risultati, è stato deciso, con l’ulteriore supporto di diverse evidenze statistiche, di interrompere anticipatamente lo studio per motivi relativi all’efficacia.

Lo studio suggerisce che, nei pazienti con RA e T2D, anakinra potrebbe essere considerato un trattamento mirato, portando a un miglioramento dei parametri metabolici e dei segni infiammatori, adattando il trattamento medico alle caratteristiche individuali. Inoltre, considerando l’effetto confermato dell’inibizione dell’IL-1 nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, è possibile suggerire che l’inibizione dell’IL-1 possa ridurre l’incidenza del rischio cardiovascolare nella RA. I risultati del studio potrebbero anche aprire la strada a successivi studi di conferma che analizzano l’efficacia della strategia terapeutica mirata all’IL-1 nella RA con T2D.

Limitazioni dello studio

Lo studio presenta alcune limitazioni, dovute principalmente al design in aperto e a un’analisi ad interim non precedentemente pianificata, che è più soggetta a distorsioni rispetto a uno studio controllato in doppio cieco.

Inoltre, secondo il disegno dello studio e la legge italiana, erano consentiti solo test di routine consolidati per la gestione di T2D e/o CVD e non è stato quindi possibile pianificare alcune valutazioni, come il peptide C, il plasma endogeno insulina IL-1Ra, così come marcatori di laboratorio della disfunzione endoteliale, che sarebbero di interesse.

A causa del progetto di studio della “vita reale”, il risultato potrebbe essere stato influenzato dalla continuazione dell’utilizzo di altri farmaci, d’altra parte la randomizzazione al placebo dei partecipanti affetti da una malattia attiva, limitando il possibile beneficio di terapie standard ben note, avrebbe potuto sollevare alcuni problemi etici.

Dimostrando che l’end point primario è stato raggiunto solo nel gruppo anakinra, i risultati hanno mantenuto la loro rilevanza statistica nonostante il basso numero di pazienti arruolati, risolvendo parzialmente risolto il problema scientifico.

Conclusioni

Lo studio ha permesso di osservare un beneficio dell’inibizione dell’IL-1 nei partecipanti con AR e T2D, raggiungendo gli obiettivi terapeutici di entrambe le malattie.

I partecipanti trattati con anakinra hanno raggiunto l’end point primario (riduzione dell’HbA1c%) in pochissimo tempo. Nei partecipanti trattati con TNFi non è stata osservata una riduzione significativa dell’HbA1c% .

I risultati suggeriscono che l’inibizione dell’IL-1 può essere considerata un trattamento mirato per i pazienti con RA e T2D.

La gestione della malattia infiammatoria e della comorbilità metabolica da parte di un agente che inibisce l’IL-1 può comportare un conseguente impatto benefico sulla compliance dei partecipanti, sul loro rischio cardiovascolare generale (CV) e sull’onere dei costi sanitari.

Tuttavia, sono necessari altri studi – che potrebbero includere l’uso di anakinra in monoterapia – per valutare ulteriormente l’uso di inibitori dell’IL-1 in pazienti con AR e T2D e per valutare i risultati a lungo termine sulla malattia cardiovascolare.

Ruscitti P, Masedu F, Alvaro S, Airò P, Battafarano N, Cantarini L, et al. (2019) Anti-interleukin-1 treatment in patients with rheumatoid arthritis and type 2 diabetes (TRACK): A multicentre, open-label, randomised controlled trial. PLoS Med 16(9): e1002901. 

Screening dell’osteoporosi, opportunità mancata per pazienti con ESRD

Un gruppo di ricercatori dell’università della Florida ha effettuato uno studio per verificare se le pazienti con malattia renale allo stadio terminale (ESRD) in emodialisi (MH) vengano sottoposte a screenig per l’osteporosi.
Tale screening sarebbe importante in questa popolazione che è particolarmente esposta al rischio di sviluppare malattie ossee, in quanto i reni hanno un ruolo chiave nell’omeostasi del calcio. Inoltre, in questi casi, le opzioni terapeutiche sono limitate dal fatto che nei pazienti con ESRD i bisfosfonati sono controindicati. Un’azione preventiva sarebbe quindi utile, ma lo studio ha dimostrato che, purtroppo, meno del 20% delle donne con ERSD coinvolte nella sperimentazione veniva sottoposto a screening per l’osteoporosi.

Lo studio è partito dalla considerazione il vantaggio di sopravvivenza che le donne hanno sugli uomini nella popolazione generale è notevolmente diminuito nella popolazione con MH e identifica lo screening dell’osteoporosi come un’opportunità per migliorare le cure preventive per le donne con malattia renale allo stadio terminale trattata con emodialisi.

Metodi

Per verificare la diffusione dello screening per l’osteoporsi, i ricercatori hanno effettuato un sondaggio trasversale di pazienti adulti con ESRD sottoposti a MH in due centri di dialisi ambulatoriale presso l’Università della Florida. Le interviste sono state condotte utilizzando uno strumento di indagine che conteneva domande su informazioni demografiche, tipi di fornitori di assistenza sanitaria e una serie di misure preventive messe eventualmente in atto. Per determinare l’idoneità e il completamento dello screening per i tumori al seno e cervicali e per l’osteoporosi, i ricercatori hanno utilizzato le linee guida della US Task Force (Uspstf) degli Stati Uniti.

Risultati

Dei 132 pazienti che hanno partecipato a questo studio, 66 (50%) erano donne. L’età media delle donne era di 60 anni (intervallo = 22-84). La maggior parte (95,5%, n = 63) ha riferito di avere un fornitore di cure primarie (l’equivalente del nostro medico di base). Dei pazienti eleggibili, l’81,4% (35/43) ha riferito di essere aggiornato sullo screening del cancro al seno, il 75% (33/44) sullo screening del cancro cervicale e il 16,7% (4/24) sullo screening dell’osteoporosi. Avere un fornitore di cure primarie era associato a una tendenza verso una maggiore aderenza con le misure di cura preventiva.

Conclusioni

Lo studio identifica lo “screening dell’osteoporosi” come un’opportunità per migliorare l’assistenza preventiva delle donne con ESRD trattate con MH di mantenimento. In questa coorte, i tassi di screening dell’osteoporosi sono risultati inferiori al 20%: addirittura più bassi di quelli condotti sulla popolazione generale (cioè il 25%). È interessante notare, invece, che rispetto alla popolazione generale le donne coinvolte nello studio hanno riportato tassi più elevati di screening per tumori maligni della mammella e della cervice.

Al di là dell’indicazione che sono necessari ulteriori studi per meglio identificare quali siano gli strumenti più idonei per garantire a queste pazienti cure preventive appropriate e promuovere una maggiore aderenza alle stesse, quello che emerge chiaramente è la necessità di un approccio multidisciplinare, che coinvolga specialisti di aree differenti per la corretta gestione dei pazienti.

Bibliografia

Abstract TH-PO728 “Screening for Osteoporosis Represents a Missed Opportunity in Women with ESRD” (autori A.Kazory, S.Phem, S.Bozorgmehri, T.Ozrazgat-Baslanti, M.Sattari) presentato al Meeting annuale Kidney Week 2019 dell’American Society of Nephrology il 7 novembre 2019

 

 

Secukinumab fornisce sollievo nella spondiloartrite assiale

Lo studio clinico di fase III PREVENT– tuttora in corso – ha soddisfatto il suo endpoint primario di ASAS40 alla settimana 16, con il 42,2% dei pazienti con spondiloartrite assiale non radiografica (nr-axSpA, non-radiographic axial spondyloarthritis) trattati con secukinumab 150 mg che ha mostrato una riduzione clinicamente significativa della progressione della patologia rispetto a placebo (42,2% vs 29,2%: p <0,05) [1]. Sono stati inoltre dimostrati miglioramenti statisticamente significativi degli endpoint secondari, inclusi dolore, mobilità e qualità della vita correlata alla salute [1]. Lo studio ha dimostrato una risposta e un profilo di sicurezza coerenti con i precedenti studi clinici [1-7]. Non sono stati rilevati nuovi segnali di sicurezza [1].

“Lo studio PREVENT ha mostrato, nei pazienti trattati con secukinumab, esiti significativi già a partire dalla settimana 3 e che si protraggono fino a un anno“, ha dichiarato Atul Deodhar, MD, professore di medicina, direttore medico della Rheumatology Clinics presso la Oregon Health & Science University e autore responsabile dello studio clinico. “La spondiloartrite assiale non radiografica può presentare una sintomatologia debilitante e, se sarà formalizzata la domanda di approvazione, questa rappresenterebbe un’ulteriore opzione terapeutica rispetto ai trattamenti disponibili”.

“Questi dati rafforzano l’evidenza a favore di secukinumab come opzione terapeutica mirata all’intero spettro della malattia della axSpA“, ha affermato Eric Hughes, Global Development Unit Head, Immunology, Hepatology & Dermatology presso Novartis. “PREVENT – il più vasto studio clinico del suo genere mai condotto nella nr-axSpA – è una testimonianza del nostro impegno nel re-immaginare la medicina, al fine di migliorare gli esiti terapeutici dei pazienti”.

Novartis ha recentemente annunciato di aver presentato all’EMA – e di essere in procinto di presentare anche alla FDA – la domanda di approvazione per secukinumab nella nr-axSpA9. Questa sarebbe la quarta indicazione per secukinumab, un farmaco già supportato da dati di efficacia e sicurezza fino a cinque anni nella spondilite anchilosante, nella psoriasi e nell’artrite psoriasica [3-8].

La spondiloartrite assiale (axSpA)

Il termine spondiloartrite assiale (axSpA, axial spondyloarthritis) raggruppa uno spettro di malattie infiammatorie croniche caratterizzate da mal di schiena infiammatorio persistente [10]. La axSpA comprende la spondilite anchilosante, in cui il danno articolare è visibile alla radiografia, e la spondiloartrite assiale non radiografica (nr-axSpA, non-radiographic axial spondyloarthritis), in cui il danno articolare non è invece visibile alla radiografia [10]. Entrambe le componenti dello spettro della malattia presentano un carico sintomatico simile, che include dolore notturno, affaticamento, rigidità mattutina e disabilità funzionale [10]. Se non viene trattata, la axSpA può compromettere le normali attività quotidiane, causare una perdita di produttività sul lavoro e avere un impatto significativo sulla qualità della vita [10].

In Europa e US circa 1,7 milioni di pazienti soffrono di spondiloatrite assiale non radiografica [2].

La spondiloartrite assiale

Lo studio clinico PREVENT

Tuttora in corso, PREVENT è uno studio di fase III della durata di due anni, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo e dotato di una fase di estensione di due anni, condotto per studiare l’efficacia e la sicurezza di secukinumab nei pazienti con nr-axSpA attiva. Lo studio ha arruolato 555 pazienti adulti maschi e femmine con nr-axSpA attiva (con insorgenza prima dei 45 anni, con dolore spinale valutato come ≥40/100 su una scala analogica visiva [VAS, visual analog scale] e con un BASDAI (Bath Ankylosing Spondylitis Disease Activity Index) ≥4) che avevano assunto almeno due diversi farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) alla massima dose fino a 4 settimane prima dell’avvio dello studio. I pazienti potevano aver assunto in precedenza un inibitore del TNFα (non più di uno), per il quale avevano mostrato una risposta inadeguata. Dei 555 pazienti arruolati nello studio, 501 (90%) erano naïve ai farmaci biologici. I pazienti sono stati assegnati a uno dei tre bracci di trattamento: secukinumab 150 mg per via sottocutanea con dose di carico (induzione: 150 mg di secukinumab per via sottocutanea una volta alla settimana per 4 settimane, quindi mantenimento con 150 mg di secukinumab una volta al mese); secukinumab 150 mg senza dose di carico (150 mg di secukinumab per via sottocutanea una volta al mese) o placebo (induzione per via sottocutanea una volta alla settimana per 4 settimane, seguita da mantenimento con somministrazione una volta al mese) [1].
Gli endpoint primari sono la percentuale di pazienti che hanno ottenuto una risposta ASAS40 con secukinumab 150 mg alle settimane 16 e 52 nel braccio di pazienti naïve all’inibitore del TNFα. Gli endpoint secondari includono la variazione del BASDAI nel corso del tempo e la variazione del punteggio ASDAS-CRP (Ankylosing Spondylitis Disease Activity Score with CRP) [1].
La risposta ASAS40 si ottiene quando esiste una misura di miglioramento pari ad almeno il 40% e un miglioramento di almeno 10 unità su una scala da 0 a 100 in almeno tre dei seguenti domini: valutazione globale del paziente, valutazione del dolore, funzionalità (Bath Ankylosing Spondylitis Functional Index [BASFI]) e infiammazione (gravità e durata della rigidità mattutina). L’indice BASDAI valuta l’attività della malattia di un paziente su sei misure: affaticamento, dolore spinale, dolore/gonfiore articolare, entesite, durata della rigidità mattutina e sua gravità [11].

Bibliografia

1. Deodhar A, et al. Secukinumab 150 mg Significantly Improved Signs and Symptoms of Non-radiographic Axial Spondyloarthritis: Results from a Phase 3 Double-blind, Randomized, Placebo-controlled Study. Presented at ACR/ARP Annual Meeting – American College of Rheumatology; 8-13 November, 2019; Atlanta, Georgia, USA. Abstract number: L21.
2. DRG Epidemiology Database – Axial Spondyloarthritis: Disease Landscape & Forecast. August 2019. Last accessed: November 2019.
3. Data on file. CAIN457F2310 (MEASURE 2): 5 Year Report. Novartis Pharmaceuticals Corp; September 15, 2015.
4. Data on file. CAIN457F2310 and CAIN457F2305 Summary of 5 Year Clinical Safety in (Ankylosing Spondylitis). Novartis Pharmaceuticals Corp; May 2019.
5. Data on file. CAIN457F2310 (MEASURE 1 and 2): Pooled Safety Data. Novartis Pharmaceuticals Corp; July 23, 2018.
6. Data on file. Data Analysis Report: Study CAIN457A2302E1. Novartis Pharmaceuticals Corp; November 30, 2015.
7. Data on file. CAIN457F2312 (FUTURE 2): 5 Year- Interim Report. Novartis Pharmaceuticals Corp; May 2019.
8. Data on file. CAIN457F2312 Data Analysis Report. Novartis Pharmaceuticals Corp; November 2008.
9. Novartis. Novartis positive 52-week PREVENT data confirm Cosentyx® efficacy in addressing entire axSpA spectrum. October 2 2019. Last accessed: November 2019.
10. Strand V and Singh JA. Evaluation and Management of the Patient with Suspected Inflammatory Spine Disease. Mayo Clin Proc 2017; 92:555–564.
11. Mease PJ, et al. Characterization of patients with ankylosing spondylitis and nonradiographic axial spondyloarthritis in the US-based Corrona Registry. Arthritis Care Res (Hoboken). 2018;70(11):1661-1670.
12. Landewe R, et al. Clinical Tools to Assess and Monitor Spondyloarthritis. Curr Rheumatol Rep. 2015; 17(7): 47.

 

Disclaimer di Novartis

Il comunicato stampa diffuso da Novartis e sopra riportato contiene dichiarazioni a carattere previsionale, secondo quanto definito dal Private Securities Litigation Reform Act del 1995 degli Stati Uniti d’America. Le dichiarazioni a carattere previsionale sono caratterizzate da espressioni come “potenziale”, “può”, “sarà”, “si pianifica”, “si prevede”, “si attende”, “impegnato”, “sperimentale”, “pipeline”, “lancio” o termini simili o altre espressioni equivalenti, esplicite o implicite, riguardanti potenziali approvazioni, nuove indicazioni di prodotti sperimentali o approvati descritti nel comunicato oppure riguardanti potenziali futuri ricavi ottenuti da tali prodotti. Non si deve fare affidamento indebito su queste affermazioni. Queste affermazioni riguardanti il futuro riflettono le convinzioni dell’azienda e le aspettative attuali riguardo a eventi futuri e implicano incertezze e rischi noti e imprevisti significativi. Nell’eventualità che si verifichino uno o più di questi rischi e incertezze, o che gli impliciti presupposti si rivelino non corretti, i risultati ottenuti potrebbero variare rispetto a quelli qui descritti nelle dichiarazioni previsionali. Non può esservi alcuna garanzia che per i prodotti sperimentali o approvati descritti nel comunicato sarà inviata una richiesta o che siano approvati per la vendita o per nuove indicazioni in un qualsiasi mercato o in un momento specifico. Non vi è nemmeno alcuna certezza che in futuro tali prodotti saranno commercializzati con successo. In particolare, le aspettative dell’azienda in merito a tali prodotti potrebbero essere influenzate, fra l’altro, dalle incertezze inerenti alla ricerca e allo sviluppo inclusi i risultati di studi clinici e le ulteriori analisi di dati clinici esistenti; da azioni normative, ritardi o regolamenti governativi in generale; dalla nostra capacità di ottenere o mantenere la protezione di proprietà intellettuali; dalle preferenze di prescrizione di medici e pazienti; dalle tendenze globali in direzione di un contenimento dei costi a carico del sistema sanitario, tra cui pressioni su prezzi e rimborsi da parte del governo, dei pagatori e del pubblico generale; dalle condizioni generali economiche e del settore, inclusi gli effetti delle instabili condizioni economiche e finanziare di molti Paesi; da problemi di sicurezza, qualità o produzione o da altri rischi e fattori a cui si fa riferimento nel Modulo 20-F di Novartis AG aggiornato, depositato presso la SEC (Securities and Exchange Commission). Novartis fornisce queste informazioni, per mezzo del comunicato stampa, con validità alla data del 13 novembre 2019 e non si assume l’obbligo di aggiornare alcuna affermazione a carattere previsionale contenuta nel comunicato stampa anche a seguito di nuove informazioni, di eventi futuri o altro.

Posizione di Siot su nota 96 Aifa relativa alla prescrizione di vitamina D

La Società italiana di ortopedia e traumatologia (Siot)  ha realizzato una lettura ragionata e analitica della nota 96 di Aifa che regolamenta la prescrizione a carico del Sistema sanitario nazionale (Ssn), nella popolazione adulta (età > 18 anni), dei medicinali con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D” (colecalciferolo, colecalciferolo/sali di calcio, calcifediolo).

La Siot ne evidenzia alcuni aspetti positivi e le diverse aree grigie, nonchè la necessità di tempo per poterne valutare il reale impatto sulla pratica clinica.

Un tentativo di razionalizzare l’uso di vitamina D

“La Nota 96 – spiega il Professor Umberto Tarantino, Coordinatore della Commissione Osteoporosi della Siot e direttore Unità operativa complessa di Ortopedia e Traumatologia Fondazione Policlinico Tor Vergata – provvederà a regolamentare la prescrizione nella popolazione adulta (età > 18 anni) di colecalciferolo, colecalciferolo/sali di calcio, calcifediolo con il chiaro obiettivo di contenere la spesa a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Questa posizione, comprensibile, deve essere letta, a nostro parere, non come un attacco alla terapia di supplementazione con vitamina D, di cui infatti viene ribadita e precisata l’utilità e l’efficacia, ma come un tentativo di razionalizzarne l’uso da parte dei medici”.

Tre categorie di pazienti per tre criteri di rimborsabilità

La Nota 96 delinea, per quanto riguarda la prescrizione della vitamina D, tre categorie di pazienti, caratterizzate dalla necessità o meno di provvedere a un preliminare esame della determinazione del livello di vitamina D prima di accedere al trattamento rimborsato da parte del Ssn.

“Per quanto riguarda la prima categoria di pazienti che vede l’identificazione di coorti di popolazioni – continua il Professor Tarantino – che riguardano principalmente le persone anziane istituzionalizzate, le donne in gravidanza o in allattamento e in generale le persone affette da osteoporosi e da patologie ossee non candidate a terapia remineralizzante, il riconoscimento di un automatismo della supplementazione di vitamina D è in pratica una conferma doverosa della sua efficacia e un ottimo segnale. Queste persone infatti sono tutte ad altissimo rischio di patologie da ipovitaminosi D e il razionale scientifico che suggerisce la loro inclusione è davvero robusto e stratificato nella letteratura scientifica. Per fare un esempio riferito anche solo alle prime due popolazioni, è noto che gli anziani istituzionalizzati hanno un problema molto severo di malattia ossea e che le donne in gravidanza o in allattamento possono avere problemi personali o addirittura trasmettere problemi al feto in seguito a frequenti fenomeni di ipovitaminosi D”.

Esiste poi una seconda “sottocategoria” di pazienti specificati nell’allegato della Nota 96 “affetti da: insufficienza renale (eGFR<30 mmol/L), urolitiasi, ipercalcemia, sarcoidosi, neoplasie metastatiche, linfomi” per cui viene garantita la supplementazione rimborsata della vitamina D, indipendentemente dalla valutazione del suo livello, ma la cui gestione della terapia viene demandata alla valutazione dello specialista.

La terza e ultima categoria si propone di chiarire le popolazioni che possono accedere alla terapia rimborsata, previa valutazione del livello di vitamina D, ne definisce il valore di 25-OHD <20ng/mL come soglia minima per accedere al trattamento e suggerisce gli schemi terapeutici da adottare.

“La soglia 25-OHD <20ng/mL è un indicatore di sicura ipovitaminosi D – chiarisce Giovanni Iolascon, professore di Medicina Fisica e Riabilitazione presso la Seconda Università di Napoli e membro della Commissione Osteoporosi Siot. – Quindi, dal nostro punto di vista è più che corretto che tutte le persone che hanno tali bassi valori di dosaggio ematico possano avere accesso alla terapia rimborsata. Va invece sottolineato come nel tentativo di rendere più appropriata e adeguata la prescrizione di vitamina D, la subordinazione dell’accesso alla terapia alla determinazione dei livelli sierici potrebbe potenzialmente, nel medio-lungo periodo, aprire il fronte di un incremento della spesa del Ssn per gli esami di laboratorio necessari a effettuare dosaggio della vitamina D. Per questo motivo riteniamo che sarà molto importante poter valutare nel tempo quale sarà il reale impatto clinico ed economico della Nota 96 anche in considerazione delle precedenti indicazioni fornite dalla Nota 79 che prevedono in pratica l’automatica associazione delle terapie per osteoporosi con supplementazione con vitamina D”.

Malattia parodontale e osteoporosi in pazienti trattati con acido zoledronico

È stato condotto uno studio clinico randomizzato per valutare se l’acido zoledronico combinato con il mantenimento della salute orale possa migliorare la malattia parodontale associata all’osteoporosi, riducendo altresì il rischio di perdita dei denti.

Il processo dinamico di rimodellamento osseo viene mantenuto attraverso un equilibrio controllato tra formazione ossea e riassorbimento osseo, ma in pazienti con osteoporosi il riassorbimento osseo avviene più velocemente della formazione ossea, portando a una maggiore fragilità ossea e a un aumentato rischio di fratture.

Nella malattia parodontale, il riassorbimento dell’osso alveolare è invece indotto da reazioni infiammatorie che si verificano in risposta a un’infezione localizzata causata da scarsa igiene orale.

Numerosi studi condotti in tutto il mondo hanno indicato una stretta associazione tra osteoporosi e malattia parodontale.

L’acido zoledronico è un bisfosfonato di terza generazione (BP); se somministrato una volta all’anno per via endovenosa ha un potente effetto antiriassorbimento. Uno studio multicentrico internazionale (HORIZON-PFT), ha dimostrato che la somministrazione di acido zoledronico per un periodo di tre anni ha ridotto il rischio di nuove fratture vertebrali del 70% e di fratture dell’anca del 41%. Analogamente, lo studio clinico ZONE (ZOledroNate treatment in Efficacy to osteoporosis) ha valutato gli effetti dell’acido zoledronico sul rischio di frattura in pazienti giapponesi: la somministrazione di due anni di questo farmaco ha ridotto l’incidenza di nuove fratture vertebrali del 66%.

Scopo

Per dimostrare l’effetto sinergico dell’uso di bifosfonati e di una corretta igiene orale, sono stati condotti studi clinici randomizzati su piccola scala (Effect of Alendronate on Periodontal Disease in Postmenopausal Women: A Randomized Placebo-Controlled Trial; Bisphosphonate Therapy Improves the Outcome of Conventional Periodontal Treatment: Results of a 12-Month, Randomized, Placebo-Controlled Study) che hanno confermato l’efficacia della combinazione delle due azioni nel miglioramento del disturbo infiammatorio, ma non nel miglioramento della malattia parodontale sintomatica che si manifesta clinicamente con gonfiore, sanguinamento, dolore e/o mobilità dei denti.

Inoltre, in pazienti con osteoporosi in terapia con bisfosfonati è dimostrato un aumento del rischio di osteonecrosi della mascella (ONJ) che aumenta considerevolmente in presenza di un dente con sintomi clinici di parodontite (Periodontal disease as a risk factor for bisphosphonate-related osteonecrosis of the jaw, Prevalence, initiating factor, and treatment outcome of medication-related osteonecrosis of the jaw—a 4-year prospective study). Se l’utilizzo di bisfosfonati in combinazione con una corrette gestione dell’igiene orale può migliorare la malattia parodontale sintomatiaca, è quindi anche probalible che il rischio di ONJ possa diminuire, così come il rischio di perdita di denti.

Scopo dello studio in oggetto era determinare se la somministrazione di acido zoledronico una volta all’anno in combinazione con un’adeguata gestione dell’igiene orale possa migliorare la malattia parodontale sintomatica e ridurre il rischio di perdita dei denti rispetto al placebo.

Metodi

I partecipanti erano quelli dello studio ZONE (ZOledroNate treatment in Efficacy to osteoporosis), nel quale tutti i pazienti hanno ricevuto cure professionali per per l’igiene orale e trattamenti dentali prima e durante la sperimentazione. Nessuno dei partecipanti presentava una malattia parodontale sintomatica al basale. I partecipanti hanno ricevuto acido zoledronico (5 mg; n = 333 [maschio 21, femmina 312]) o placebo (n = 332 [maschio 19, femmina 313]) una volta all’anno per due anni e la loro età era di 74,0 ± 5,3 (65- 88) e 74,3 ± 5,4 (65-87) anni, rispettivamente. Per analizzare gli eventi avversi sono stati inclusi tutti i casi. I test di significatività sono stati condotti utilizzando il test esatto di Fisher (P <0,05).

Risultati

L’incidenza di eventi avversi orali è stata significativamente più alta nel gruppo di controllo (67 casi, 20,2%) rispetto al gruppo di pazienti che hanno assunto acido zoledronico (47 casi, 14,1%; P = 0,04). La frequenza della malattia parodontale sintomatica osservata durante lo studio è stata significativamente più alta nel gruppo di controllo (40 casi, 12,0%) rispetto al gruppo trattato con acido zoledronico (18 casi, 5,4%; P = 0,002). La perdita dei denti è stata più frequente nel gruppo di controllo (36 casi, 10,8%) rispetto al gruppo dell’acido zoledronico (24 casi, 7,2%), sebbene la differenza non fosse significativa.

Conclusioni

I risultati dello studio dimostrano che l’acido zoledronico è stato più efficace del placebo nel prevenire la malattia parodontale sintomatica nei pazienti con osteoporosi che hanno mantenuto una buona igiene orale.

Questi risultati hanno anche mostrato che l’acido zoledronico potrebbe essere più efficace del placebo nel prevenire la perdita dei denti. Poiché l’acido zoledronico può prevenire la malattia parodontale sintomatica se combinato con una buona gestione dell’igiene orale, è possibile che le procedure eseguite in questo studio possano sopprimere lo sviluppo di ONJ.

Bibliografia

FGF23, ipofosfatemia e trattamenti emergenti

FGF23 è un importante regolatore ormonale dell’omeostasi del fosfato. Insieme al suo co-recettore Klotho, modula il riassorbimento del fosfato e sia l’1α-idrossilazione sia la 24-idrossilazione nei tubuli prossimali renali.

L’ipofosfatemia mediata da FGF23 più comune è l’ipofosfatemia legata all’X (XLH), causata da mutazioni del gene PHEX. Le forme di ipofosfatemia mediate da FGF23 sono caratterizzate da fosfaturia e da basse concentrazioni di calcitriolo e, a differenza del rachitismo alimentare, queste non possono essere curate con l’integrazione nutrizionale di vitamina D.

Le forme autosomiche dominanti e autosomiche recessive di ipofosfatemia mediata da FGF23 mostrano una patofisiologia simile, nonostante una varietà di diverse cause genetiche sottostanti.

Un eccesso di attività di FGF23 può essere associato anche a una serie di altre condizioni che causano ipofosfatemia, tra cui osteomalacia indotta da tumore, displasia fibrosa dell’osso e CSHS (Cutaneous Skeletal Hypphosphatemia Syndrome).

Per gestire le condizioni di ipfosfatemia è stata tradizionalmente utilizzata integrazione con fosfato e terapie basate su analoghi della vitamina D altamente attivi (per esempio calcitriolo, alfacalcidolo, paricalcitolo, eldecalcitolo). Recentemente, come terapia per il trattamento di disordini FGF23 mediati è stato introdotto l’anticorpo neutralizzante per FGF23 (burosumab).

 

Femmina di 14 anni con XLH (PHEX: c. [151C> T]; [=] p. [Gln51 *]) diagnosticata a 7 mesi di età. (A) Radiografia della mano sinistra e del polso alla diagnosi con alterazioni rachitiche del raggio distale e dell'ulna e dell'aspetto livido dell'osso. (B) Radiografia del ginocchio destro a 18 mesi mentre trattata con fosfato e calcitriolo. Vi sono sfilacciamenti e distorsioni alle metafisi e una coppettazione precoce notata al femore distale, nonché alla tibia e al perone prossimale. (C) A 14 anni, è stata gestita con fosfato e calcitriolo. Aveva bassa statura, ALP normale e lieve aumento della PTH. I sintomi includevano dolore alla caviglia persistente e andatura ondeggiante. C'era anche un inchino laterale sia del femore che della tibia con l'allargamento della placca prossimale di crescita tibiale. (D) Radiografia della mano sinistra all'età di 14 anni che mostra un allargamento del raggio prossimale e delle placche di crescita dell'ulna con evidenza di alterazioni rachitiche.
Femmina di 14 anni con XLH (PHEX: c. [151C> T]; [=] p. [Gln51 *]) diagnosticata a 7 mesi di età. (A) Radiografia della mano sinistra e del polso alla diagnosi con alterazioni rachitiche del raggio distale e dell’ulna e dell’aspetto livido dell’osso. (B) Radiografia del ginocchio destro a 18 mesi mentre trattata con fosfato e calcitriolo. Vi sono sfilacciamenti e distorsioni alle metafisi e una coppettazione precoce notata al femore distale, nonché alla tibia e al perone prossimale. (C) A 14 anni, è stata gestita con fosfato e calcitriolo. Aveva bassa statura, ALP normale e lieve aumento della PTH. I sintomi includevano dolore alla caviglia persistente e andatura ondeggiante. C’era anche un inchino laterale sia del femore che della tibia con l’allargamento della placca prossimale di crescita tibiale. (D) Radiografia della mano sinistra all’età di 14 anni che mostra un allargamento del raggio prossimale e delle placche di crescita dell’ulna con evidenza di alterazioni rachitiche.

Potenziale terapeutico di Burosumab, un anticorpo monoclonale umano neutralizzante anti-FGF23

La regolazione omeostatica dei livelli sierici di fosfato implica il coordinamento tra più sistemi di organi, con FGF23 e il suo co-recettore Klotho come fattori regolatori chiave. L’interruzione di questi percorsi provoca malattie sistemiche con conseguenze per tutta la vita che sono difficili da gestire, come esemplificato da XLH.

Dalla revisione degli studi è emerso che la terapia con anticorpi neutralizzanti anti-FGF23 come il burosumab è un trattamento sicuro ed efficace per l’ipofosfatemia legata all’X e può stabilizzare rapidamente i livelli sierici di fosfato e portare a miglioramenti nel rachitismo, nella guarigione scheletrica e nella funzione fisica.

I futuri studi di ricerca clinica e di base dovranno affrontare l’utilità di burosumab nel trattamento di altre condizioni associate alla disregolazione del fosfato, comprese altre forme autosomiche di rachitismo ipofosfatemico e condizioni come TIO, FD e CSHS.

Bibliografia

E Imel, A Biggin, A Schindeler, C Munns. FGF23, Hypophosphatemia, and Emerging Treatments [pubblicato online il 13 maggio 2019] JBMR Plus doi: 10.1002/jbm4.10190

 

Per saperne di più sull’asse FGF23-Klotho

Nuove acquisizioni dell’asse FGF23-Klotho

Tofacitinib, cautele d’uso per pazienti a rischio di sviluppare coaguli di sangue

Il comitato di sicurezza dell’Ema (Prac) raccomanda di usare Xeljanz con cautela nei pazienti ad alto rischio di sviluppare coaguli di sangue, perché in questi soggetti può aumentare il rischio di sviluppare coaguli di sangue nei polmoni e nelle vene profonde.

Il trattamento di  mantenimento con dosi di 10 mg due volte al giorno non deve essere usato nei pazienti con colite ulcerosa ad alto rischio a meno che manchi la disponibilità di un trattamento alternativo adeguato.

Inoltre, il Prac raccomanda che i pazienti di età superiore ai 65 anni debbano essere trattati con Xeljanz solo quando non sia disponibile un trattamento alternativo.

Per approfondire

Comunicazione Ema su Xeljanz

 

Diagnosi e gestione della malattia di Paget negli adulti, linea guida

Utilizzando il metodo Grade (Grading of Recommendations Assessment, Development and Evaluation) un Guideline Development Group (GDG) guidato dalla Paget’s Association (UK) ha sviluppato una linea guida clinica basata sull’evidenza per la diagnosi e la gestione della malattia ossea di Paget.

Radiografia pelvica di un paziente con malattia di Paget che colpisce il femore destro. La radiografia evidenzia aree alternate di osteolisi e osteosclerosi nei trocantere maggiore e minore e nel collo del femore; perdita di distinzione tra corteccia e midollo nel femore superiore; espansione ossea e deformità del femore interessato; e una pseudofrattura sul lato laterale del femore opposta al piccolo trocantere.

Per la stesura della linea guida è stata condotta una revisione sistematica dei test diagnostici e delle opzioni di trattamento farmacologico e non farmacologico, con l’obiettivo di affrontare diverse questioni chiave di rilevanza clinica.

Principali raccomandazioni per la diagnosi e la gestione della malattia di Paget

Le seguenti raccomandazioni sono state identificate come le più importanti:

  1. Per determinare in modo completo e accurato l’estensione della malattia metabolicamente attiva nei pazienti con morbo d Paget (PDB) sono consigliate, oltre a radiografie mirate, scansioni ossee con radionuclidi;
  2. Come test di screening biochimico di prima linea per determinare la presenza di PDB metabolicamente attivo è raccomandata la determinazione della fosfatasi alcalina totale sierica (ALP) in combinazione con test di funzionalità epatica;
  3. Per il trattamento del dolore osseo associato alla malattia di Paget sono raccomandati i bifosfonati. Tra questi è da preferire l’acido zoledronico, poiché è il bifosfonato che ha maggiori probabilità di dare una risposta favorevole al dolore;
  4. Il trattamento finalizzato al miglioramento dei sintomi è da preferire rispetto a un treat-to-target volto a normalizzare la ALP totale nel PDB;
  5. Per pazienti con PDB che sviluppano osteoartrosi e per i quali la terapia farmacologica è inadeguata, è raccomandata la sostituzione totale dell’anca o del ginocchio. Non ci sono informazioni sufficienti per raccomandare un tipo di approccio chirurgico rispetto a un altro.

La linea guida è stata approvata dalla European Calcified Tissues Society, dalla International Osteoporosis Foundation, dalla American Society of Bone and Mineral Research, dalla Bone Research Society (Regno Unito) e dalla British Geriatric Society.

Diagnosi e monitoraggio della malattia di Paget

Abbreviazioni:

  • ALP – fosfatasi alcalina totale,
  • BALP – fosfatasi alcalina ossea,
  • PINP – propeptide N-terminale del procollagene di tipo 1,
  • uNTX – telopeptide N-terminale reticolato urinario di collagene di tipo I

Gestione della malattia di Paget

Bibliografia

S Ralston, L Corral-Gudino, C Cooper, RFrancis, W Fraser, L  Gennari et al. Diagnosis and Management of Paget’s disease of Bone in Adults: A clinical guideline [pubblicato online il 25 febbraio 2019] J Bone Miner Res doi: 10.1002/jbmr.3657

Per saperne di più sulla malattia di Paget

Malattia di Paget e metabolismo osseo