venerdì, Luglio 4, 2025
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The magazine for bone & joint specialists

Il magazine multimediale “The magazine for bone & joint specialists” dedicato all’informazione e all’aggiornamento di medici, ricercatori, farmacologi in tema di metabolismo minerale, osteoporosi e malattie dello scheletro nasce dall’esigenza di evolvere la comunicazione tradizionale e offrire ai lettori nuovi sistemi per la fruizione dei contenuti: arricchito da foto gallery, podcast, video e animazioni dà allo specialista dell’osso un’esperienza immersiva godibile da qualsiasi dispositivo e disponibile in ogni momento.

copertina del primo numero di Bone Health Magazine
Il magazine si integra nella piattaforma editoriale ideata da MakingLife che diventa sempre più – grazie al sito, ai convegni, ai congressi e ora al magazine multimediale – il punto di riferimento in grado di aggiornare e migliorare la conoscenza delle patologie ossee presso medici e operatori sanitari, che sono a loro volta interlocutori insostituibili per i malati, le loro associazioni e le famiglie.

La femoro-rotulea: trattamenti conservativi

Sabato 11 marzo si è tenuto il convegno targato Bone Health sulla femoro-rotulea, che ha portato all’Ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio di Milano tanti medici e specializzandi. La faculty di specialisti, presieduta dal dottor Federico Valli, ha reso la mattinata molto interessante spaziando dall’inquadramento clinico del dolore anteriore del ginocchio all’inserimento di protesi femoro-rotulea all’avanguardia.

I trattamenti conservativi sono la prima linea per iniziare un percorso di guarigione, quando questi falliscono si rende necessaria la chirurgia. In questa sessione del convegno, sempre relativa al dolore anteriore di ginocchio, il dottor Rossi e il dottor Negrini hanno approfondito i due tipi di trattamenti conservativi: quelli rigenerativi e quelli riabilitativi.

I farmaci ortobiologici utilizzano componenti cellulari autologhe per promuovere la guarigione dei tessuti e ne esistono di quattro categorie:

  1. Derivati piastrinici (PRP, PRGF, APS)
  2. Bone marrow aspirate concentrate (BMAC)
  3. Lipoaspirate (Microfragmented adipose tissue)
  4. Amniotic Tissue and Umbelical products

Secondo la letteratura scientifica la medicina rigenerativa è fortemente in aumento, e i trattamenti con derivati piastrinici sono usati in larga maggioranza. I trattamenti PRP (platelet rich plasma) sono un concentrato di piastrine e fattori di crescita che stimolano la rigenerazione tissutale. Le loro proprietà sono anti-infiammatorie; rigenerative, inducendo la proliferazione di cellule staminali nel sito di infiltrazione e sostituendo il tessuto danneggiato con la stimolazione della produzione di matrice extracellulare. Sono angiogeniche e analgesiche e infine anti-batteriche, riducendo il rischio di infezione.

L’altra grande categoria di ortobiologici è la terapia con cellule staminali che possono essere mesenchimali o ematopoietiche. Le principali fonti di queste cellule sono nell’adulto il tessuto adiposo e il midollo osseo, mentre a livello fetale sono reperibili nel fluido amniotico o nel cordone ombelicale. La procedura di prelievo è fondamentale per il risultato che si vuole ottenere, sia per quanto riguarda il prelievo da midollo osseo sia da tessuto adiposo; quest’ultimo presenta notevoli pregi, è una procedura poco invasiva, la quantità di cellule staminali mesenchimali nel tessuto adiposo è nettamente superiore a quella presente nel midollo osseo ed hanno una capacità immunomodulatoria superiore. Al contrario, le cellule staminali da tessuto adiposo sembrano avere un minor potenziale osteogenico rispetto a quello del midollo osseo, ma al momento non ci sono evidenze scientifiche a supporto della superiorità di un trattamento rispetto all’altro. È bene ricordare, inoltre, che le infiltrazioni intra-articolari riducono i sintomi e migliorano la qualità della vita dei pazienti ma purtroppo non sono ancora trattamenti definitivi, vanno ripetuti con ciclicità.

Per quanto riguarda la medicina riabilitativa, ci sono prove significative in letteratura che la terapia fisica per la sindrome da dolore patello-femorale possa comportare una riduzione clinicamente importante del dolore e un miglioramento della capacità funzionale, oltre a migliorare il recupero a lungo termine. Tuttavia non ci sono prove sufficienti per determinare la migliore forma di terapia fisica e non è noto se questo risultato si applichi a tutte le persone affette da PFPS. indubbiamente la tipologia di esercizi detta “a catena cinetica chiusa” sono preferibili in quanto prevedono il movimento non solo del ginocchio ma anche dell’anca, rendendo l’esercizio più fattibile. Un altro importate strumento è il taping, che se utilizzato in maniera personalizzata in combinazione con la terapia fisica, può portare ad una immediata riduzione del dolore a livello patellare, e può migliorare i risultati della terapia riabilitativa nel breve tempo. Ulteriori dati sconsigliano l’uso di ginocchiere e di solette plantari a meno che non si verifichino in concomitanza anche problematiche ai piedi.

Un fattore importante per la riabilitazione fisica è l’educazione del paziente e la cura non solo del suo dolore fisico ma attenzionando anche la componente psicologica. Se il paziente cade nella depressione che spesso il dolore cronico porta, e si lascia andare alla kinetofobia, la paura del movimento, sarà molto più difficile e lungo il percorso di riabilitazione.

 

Con il contributo non condizionante di:

zimmer       

 

 

                                     

La femoro-rotulea: inquadramento clinico

Sabato 11 marzo si è tenuto il convegno targato Bone Health sulla femoro-rotulea, che ha portato all’Ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio di Milano tanti medici e specializzandi. La faculty di specialisti, presieduta dal dottor Federico Valli, ha reso la mattinata molto interessante spaziando dall’inquadramento clinico del dolore anteriore del ginocchio all’inserimento di protesi femoro-rotulea all’avanguardia.

Il convegno si è svolto sviluppando gli argomenti in tre sessioni:

  1. Dolore anteriore di ginocchio
  2. Instabilità femoro-rotulea
  3. Artrosi femoro-rotulea

Nella prima parte della mattinata, con gli interventi del dottor Agnoletto e del dottor Albano, si è parlato delle cause e del riconoscimento del dolore anteriore di ginocchio.

Inquadramento clinico

Il dolore anteriore al ginocchio è la prima causa che porta il paziente ad un consulto specialistico, nel 15-30% della popolazione adulta attiva e nel 20-40% degli adolescenti. Colpisce maggiormente il genere femminile per questioni anatomiche ma anche sociali come il (troppo) frequente accavallamento delle gambe. È un dolore che ha un elevato tasso di ricorrenza e nel 70-90% dei casi tende a cronicizzarsi, generando restrizioni nelle attività sportive ma anche nella quotidianità del paziente.

Per il clinico è importante fare una corretta e approfondita anamnesi del paziente, per capire le caratteristiche del dolore (progressivo/acuto, sordo/intenso) la sua insorgenza in termini di localizzazione e in relazione al movimento (durante/dopo) e in questo caso che tipo di movimento scatena il dolore; infine il clinico deve essere informato del tipo di manifestazione del dolore (click/scatti/scrosci articolari).

I principali fattori che causano questo dolore sono: imbalance femoro-rotulea come prima causa, a seguire lesioni condrali e artrosi, tendinopatia della rotula e quadricipitale, plica sinoviale, infiammazione. Il dolore al ginocchio non è da sottovalutare non solo per le sue implicazioni mediche ma anche per i risvolti psicologici che comporta: infatti è molto comune per chi soffre di dolori cronici al ginocchio sviluppare catastrofizzazione e kinesiofobia, ovvero la paura di svolgere un movimento, che rende ulteriormente difficoltoso il processo di riabilitazione.

Diagnostica per immagini

Per lo specialista il miglior strumento a disposizione è l’imaging radiologico, dal quale emerge, in base al tipo di acquisizione delle immagini, la natura dell’instabilità femoro-rotulea del paziente. I fattori più frequenti sono la displasia trocleare, la rotula alta e la lateralizzazione del tubercolo tibiale, mentre tra i fattori minori sono riscontrati difetti torsionali del femore e tibia e il valgismo del ginocchio. Grazie alle accurate immagini radiologiche viene data particolare attenzione alla morfologia della troclea femorale, la quale può subire delle modificazioni portando a displasia più o meno grave. Anche la risonanza magnetica è molto importante nel determinare la causa del dolore al ginocchio, una volta individuata una lussazione rotulea infatti è possibile osservare se ci sia o meno edema osseo e delle parti molli, versamenti cartilaginei o lesioni condrali/osteocondrali della rotula.

 

Con il contributo non condizionante di:

zimmer       

 

 

                                     

Osteoporosi da deprivazione ormonale

L’osteoporosi da deprivazione ormonale, scientificamente nota come “cancer treatment induced bone loss” è una condizione che colpisce diverse categorie di pazienti: donne con tumore alla mammella in età pre- e postmenopausa, uomini con tumore alla prostata, persone sottoposte o in lista per il trapianto di midollo osseo allogenico e pazienti in terapia con glucorticoidi da più di tre mesi.

Il dottor Guabello illustra, attraverso molte interessanti pubblicazioni scientifiche dalle più note a quelle con i più recenti sviluppi, alcuni casi clinici spiegando caso per caso quando sia consigliata la terapia anti-riassorbimento e a quali rischi di frattura vanno incontro determinati pazienti.

Gli effetti collaterali delle terapie ormonali sulla salute delle ossa sono ormai noti ma purtroppo non ancora presi nella totale considerazione del trattamento del paziente oncologico, per questo è auspicabile una maggior comunicazione tra gli specialisti in modo da offrire le migliori cure ai pazienti.

Per approfondire e ascoltare il commento di alcuni casi clinici da parte del dottor Guabello, a questo link trovate il video completo.

Osteoporosi da deprivazione ormonale – lezione di Gregorio Guabello – YouTube

Effetti sul metabolismo osseo della terapia endocrina per tumori ginecologici e alla prostata

Dopo i primi venti anni di vita, nell’uomo come nella donna, la presenza di estrogeni ed androgeni è essenziale per il raggiungimento di un’omeostasi ossea in cui l’attività degli osteoblasti che formano l’osso e il riassorbimento da parte degli osteoclasti si mantiene in equilibrio, garantendo il mantenimento della massa e della struttura ossea.

Questo equilibrio può essere gravemente alterato in pazienti che presentano un sostanziale cambiamento nella concentrazione degli ormoni sessuali, in primis nelle donne in menopausa o in gravidanza per quanto riguarda eventi non patologici, ma allo stesso modo si verifica un grave squilibrio in pazienti con disordini endocrini o sottoposti a cure che modificano l’assetto ormonale fisiologico. Tutto ciò porta ad una maturazione eccessiva degli osteoclasti e della loro attività riassorbitiva, dove invece la funzione degli osteoblasti rimane invariata, creando una disparità tra le due attività.

Uno studio del 2010 condotto negli Stati Uniti ha stimato che sono 40 milioni le persone che presentano una diminuzione della densità minerale ossea (BMD), e tra le persone affette dal cancro l’incidenza è nettamente più alta. Questo dato prende in considerazione sicuramente l’effetto diretto del cancro sulle cellule delle ossa quando sono sede di metastasi, ma in questo articolo ci interessa maggiormente l’effetto che hanno alcune terapie oncologiche sul metabolismo osseo, dalla chemio-radio terapia alle terapie a soppressione ormonale che hanno un gravissimo effetto sulla densità ossea dei pazienti.

Le donne con tumori ginecologici sono maggiormente colpite da questi effetti collaterali, molto spesso infatti le terapie a cui sono sottoposte portano ad una menopausa precoce, che sappiamo essere un grande fattore di rischio per l’osteoporosi ma la stessa radioterapia, uno dei trattamenti preferenziali per trattare il cancro ginecologico, è nota per avere effetti deleteri sulla densità ossea.

Chemioterapia e radioterapia per tumori ginecologici

Gli effetti della chemio e radioterapia sulla densità ossea sono tra i più studiati per quanto riguarda il metabolismo osseo nelle pazienti oncologiche con tumori ginecologici. Un piccolo studio del 2013 è andato a osservare gli effetti di chemio e radioterapia sulla densità ossea in 35 donne in premenopausa affette da tumori ginecologici (cancro ovarico, endometrico e cervicale), e hanno misurato la densità ossea con lo scanner Dexa (assorbimetria a raggi X a doppia energia) all’inizio e a 12 mesi dalla terapia. Quello che hanno riportato è una significativa diminuzione della BMD tra l’inizio e i 12 mesi di terapia in tutte le pazienti che avevano ricevuto una terapia combinata di chemio e radioterapia. Altri studi hanno dimostrato la correlazione tra la radioterapia nella zona pelvica e la diminuzione del materiale osseo con conseguente frattura delle ossa pelviche nel 12% delle pazienti.

Terapia endocrina sul cancro al seno e alla prostata

Il cancro al seno nella donna e quello alla prostata nell’uomo sono le due forme più comuni di neoplasie maligne, entrambi esprimono recettori ormonali e tendono ad essere particolarmente sensibili alle terapie endocrine. Purtroppo la maggior parte di questi trattamenti si ripercuote sulla salute delle ossa e sulla loro forza. Ci sono molti studi in supporto a queste evidenze per quanto riguarda il cancro al seno, ma pochissimi sono gli studi sugli altri tumori di tipo ginecologico, in cui pure è stata riscontrata una ripercussione sul metabolismo osseo in seguito a queste terapie.

Le donne con cancro al seno vengono sottoposte a terapia endocrina in base alle caratteristiche del tumore ma soprattutto in base al loro stato ormonale, pre o post menopausa. Nelle donne in premenopausa le ovaie sono la sede di produzione della maggior parte degli estrogeni presenti nel corpo; la soppressione delle funzioni ovariche si può ottenere in modo permanente con ovariectomia oppure con una radioterapia localizzata. Un’alternativa reversibile è la somministrazione di un agonista dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) che può interrompere le funzioni ovariche in maniera temporanea riducendo la secrezione di gonadotropina da parte dell’ipofisi e di conseguenza diminuendo la produzione di estrogeni da parte delle ovaie. Nelle donne in post menopausa gli estrogeni circolanti derivano per lo più dalla conversione degli androgeni in estrogeni da parte dell’enzima CYP19AI, un’aromatasi fortemente espressa nel tessuto tumorale della mammella. Gli inibitori delle aromatasi costituiscono una terapia ormonale molto comune come trattamento del cancro al seno positivo ai recettori ormonali, e sono in grado di ridurre significativamente il livello di estrogeni circolanti per un tempo che va da una settimana sino a qualche mese.

In pazienti con cancro alla prostata le terapie endocrine sono simili a quelle usate per il cancro al seno nelle donne e consistono in una soppressione della produzione degli androgeni o nella somministrazione di inibitori dei recettori per gli androgeni nel tessuto tumorale. Nell’uomo la maggior parte del testosterone viene prodotta nei testicoli; la castrazione chirurgica tradizionale, grazie alla quale il testosterone circolante viene ridotto sino al 95%, è stata ampiamente sostituita da approcci farmacologici altrettanto efficaci, per esempio gli agonisti di GnRH che riducono le concentrazioni di testosterone ad un livello paragonabile alla castrazione in sole tre settimane ma è un processo reversibile e sicuramente più accettabile. Gli anti-androgeni bloccano i loro recettori prevenendo la cascata di segnale nelle cellule tumorali della prostata, ma non sono in grado di ridurre la quantità di androgeni circolanti per cui sono solitamente abbinati ad una terapia con agonisti di GnRH per ottenere un blocco totale degli ormoni sessuali maschili.

Effetti della terapia endocrina sulle ossa

La perdita di massa ossea generalmente aumenta con l’avanzare dell’età, circa dell’1% all’anno negli uomini a del 2% all’anno nelle donne in menopausa. Durante il trattamento con terapia endocrina è stato osservato un aumento della perdita di massa ossea del 2,6% nelle donne in post menopausa in cura con inibitori delle aromatasi, e del 4,6% negli uomini in cura con GnRH analoghi, per arrivare ad una riduzione della massa ossea del 7% in donne in premenopausa trattate con una combinazione di GnRH analoghi e inibitori delle aromatasi. Alla luce di questi dati, nonostante gli inibitori delle aromatasi siano il trattamento più efficace nel prevenire le recidive tumorali, possono essere somministrati solo alle donne in post menopausa affette da un tumore al seno sensibile al trattamento ormonale.

Tamoxifen è il farmaco più utilizzato tra i modulatori dei recettori degli estrogeni e, se combinato al trattamento con GnRH analoghi, aiuta a ridurre significativamente la perdita di materiale osseo in seguito alla soppressione degli estrogeni durante la cura del cancro al seno. Uno studio di grandi dimensioni con oltre 13000 soggetti ha analizzato gli effetti del tamoxifen nel ridurre il rischio di frattura in donne a rischio tumore al seno; dopo cinque anni di trattamento, il tamoxifen ha ridotto il rischio di insorgenza di un tumore invasivo del 49% e ha anche ridotto il rischio di fratture da osteoporosi del 32%.

Le terapie da deprivazione di androgeni nell’uomo inducono un alto livello di turn over osseo, che porta ad una riduzione della densità ossea, è stata osservata una diminuzione del 4% della BMD nella colonna vertebrale dopo 12 mesi di trattamento. In un grande trial clinico, uomini sottoposti a terapia da deprivazione di androgeni hanno avuto un rischio di fratture ossee del 23% più alto rispetto ai pazienti con cancro alla prostata trattati con diversa terapia.

Ad eccezione del tamoxifen per le donne in post menopausa, è evidente che la terapia endocrina ha effetti collaterali negativi sulla salute delle ossa, benché i suoi benefici a livello di sopravvivenza ne garantiscano ancora l’utilizzo. Detto questo, il metabolismo osseo andrebbe attivamente monitorato prima e durante la terapia endocrina.

Gestione della perdita di massa ossea a causa del trattamento endocrino

L’efficacia dei bisfosfonati per prevenire la perdita ossea in pazienti sottoposti a terapia endocrina per il cancro è stata evidenziata in seguito a diversi clinical trials, in particolare i bisfosfonati hanno mostrato effetti positivi sulla densità minerale ossea nei pazienti che ricevono inibitori delle aromatasi. Nelle donne con osteoporosi l’assunzione di alendronato ha incrementato la BMD del 15% dopo tre anni di assunzione, nelle donne in condizioni di osteopenia (meno debilitante dell’osteoporosi) invece la BMD è salita del 6,3% in più rispetto alle pazienti assegnate al gruppo placebo che hanno visto invece una riduzione della BMD del 5,4%.

I bisfosfonati sono stati oggetto di diversi studi clinici anche sugli uomini in trattamento con terapie endocrine, mostrando un effetto protettivo contro la perdita di BMD nei pazienti trattati rispetto a quelli che hanno ricevuto il placebo. Una miglior alternativa ai bisfosfonati è il denosumab, un anticorpo monoclonale diretto contro RANKL largamente utilizzato per il trattamento dell’osteoporosi e, al doppio del dosaggio, nelle metastasi ossee. Nonostante sia un farmaco decisamente più costoso è risultato essere preferito rispetto a bisfosfonati per la sua somministrazione sottocutanea mensile, invece che quella orale o endovenosa del bisfosfonato.

Ciò che emerge da questi studi è che la sensibilizzazione sugli effetti sulla densità ossea per i pazienti sottoposti a terapia endocrina è essenziale da parte dei professionisti sanitari che hanno in cura uomini e donne con tumori di tipo ormonale come il cancro alla prostata e al seno.

 

Iperfosfatemia: sintomi e cause

L’iperfosfatemia è un disturbo forse meno complesso rispetto all’ ipofosfatemia ma è sintomo di malattie assolutamente da non sottovalutare. Le cause dell’iperfosfatemia  infatti sono nella maggior parte dei casi riconducibili a disfunzioni renali, croniche o acute.

Definizione di Iperfosfatemia

Se un normale range di fosfato nel siero è tra 0.80 e 1.45 mmol/L e una grave ipofosfatemia si verifica quando il livello scende sotto 0.32 mmol/L, si parla di iperfosfatemia acuta quando il fosfato nel siero supera le 2mmol/L nell’adulto, ricordiamo invece che nei bambini i livelli di fosfato fisiologico sono significativamente maggiori.

L’iperfosfatemia cronica è spesso asintomatica, rendendo quindi più difficile il suo riconoscimento, ma può altresì causare una calcificazione dei tessuti molli e dei vasi sanguigni.

I meccanismi biologici che conducono allo svilupparsi dell’iperfosfatemia sono due: un significativo aumento del fosfato extracellulare dovuto ad uno shift tra compartimenti intra ed extracellulari, oppure una diminuzione della secrezione di fosfato a livello renale a causa di una ridotta filtrazione glomerulare o un aumento del riassorbimento tubulare.

Cause dell’iperfosfatemia acuta

Danni renali acuti: la causa sicuramente più comune per l’insorgenza di iperfosfatemia è un danno renale, in particolare è stata riscontrata nel 65% dei pazienti prima di un trapianto di reni. La causa è una riduzione nel numero dei nefroni correttamente funzionanti e quindi una forte diminuzione del fosfato secreto attraverso l’urina, il tutto accompagnato dalla mancanza di un meccanismo compensatorio; nei primi stadi di una malattia renale cronica, infatti, il fosfato nel siero viene mantenuto a livelli fisiologici grazie all’aumento degli ormoni FGF23 e PTH, che invece vengono meno quando il danno renale è troppo grave.

Aumento dell’assorbimento intestinale: se associato ad una funzione renale compromessa, un alto assorbimento del fosfato può essere causa di iperfosfatemia, così come un’intossicazione da vitamina D, proprio contrariamente a quanto avviene nel caso dell’ipofosfatemia.

Shift transcellulare: questo fenomeno avviene molto spesso nella sindrome della lisi tumorale, quando le cellule tumorali, in risposta ad una terapia chemioterapica, riversano il loro contenuto nel circolo sanguigno portando gravissime complicazioni, tra cui iperfosfatemia. Quando nel sangue aumentano i livelli di calcio, il fosfato presente si lega ad esso formando dei cristalli di calcio-fosfato causando danni al corretto funzionamento renale e ipocalcemia, dovuta alla sottrazione di tutto il calcio presente liberamente nel sangue.

Cause dell’iperfosfatemia cronica

Malattie renali croniche: è la più diffusa causa per l’iperfosfatemia, che si manifesta di solito in una fase tardiva della malattia renale cronica e incrementa il rischio di mortalità del paziente.

Ipoparatiroidismo acquisito: quando il livelli dell’ormone PTH si abbassano il paziente va incontro a ipocalcemia e a iperfosfatemia, che può contribuire alla produzione di calcoli renali e alla nefrocalcinosi a causa della formazione del calcio-fosfato. La causa più comune per l’ipoparatiroidismo è un danno, o addirittura la resezione, della ghiandola paratiroidea.

Ipoparatiroidismo genetico: nonostante questa malattia si manifesti geneticamente in meno del 10% dei casi, è la causa primaria di ipoparatiroidismo infantile e presenta la stessa sintomatologia del precedente, in particolare l’ipocalcemia.

Esiste anche una forma genetica di iperfosfatemia, che si manifesta in modo non aggressivo e altalenante ed è causata da una mutazione loss of function nel gene che codifica per la fosfatasi alcalina non tessuto specifica, portando ad una distribuzione non omogenea del calcio nelle ossa, fenomeno particolarmente pericoloso nei bambini.

L’iperfosfatemia congenita può provocare anche un aumento del riassorbimento renale del fosfato, i cui sintomi possono essere letali nella forma neonatale oppure, nell’adulto, possono presentarsi sporadicamente a livello dentale.

Approccio clinico all’iperfosfatemia

Quando la malattia si manifesta nella sua forma acuta, si andranno a cercare e trattare i suoi sintomi più gravi come danni renali acuti, associati o meno ad uno shift transcellulare di fosfato, emolisi o sindrome della lisi tumorale.

In assenza di una sintomatologia acuta, la storia clinica del paziente aiuterà nell’escludere un’eventuale falsa iperfosfatemia e per capire se sono presenti dei disturbi renali cronici o un ipoparatiroidismo acquisito, le due più comuni cause riscontrate sino ad ora.

La comunità scientifica è concorde sull’affermare che l’iperfosfatemia sia, nella maggior parte dei casi, una conseguenza di un disfunzionamento renale, cronico o acuto.

Fonte The Causes of Hypo and Hyperphosphatemia in Humans

Vitamina D, aggiornamento nota 96

In seguito a numerose evidenze scientifiche si è reso necessario un aggiornamento della Nota 96 istituita nel 2019 (determina AIFA n. 48/2023 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 20 febbraio 2023) sui criteri per la prescrizione della supplementazione di Vitamina D per la prevenzione e trattamento degli stati di carenza nell’adulto.

In merito al ruolo della vitamina D in assenza di concomitanti condizioni di rischio sono stati presi in considerazione due grandi studi clinici, lo studio americano VITAL (LeBoff M et al, NEJM 2022) e lo studio europeo DO-HEALTH (Bischoff-Ferrari HA et al, JAMA 2020). Entrambi gli studi concludono che una supplementazione di Vitamina D in dosi adeguate, anche nel lungo periodo (rispettivamente 5 e 3 anni di trattamento), non è in grado di modificare il rischio di frattura nella popolazione sana, senza fattori di rischio per osteoporosi.

Anche in soggetti affetti da Covid-19, di cui si trovano numerosi studi nella recente letteratura, la supplementazione di Vitamina D non sembra portare beneficio.

Le modifiche introdotte con l’aggiornamento della Nota 96 sono le seguenti:

  • introduzione della nuova categoria di rischio “persone con gravi deficit motori o allettate che vivono al proprio domicilio”;
  • riduzione da 20 a 12 ng/mL (o da 50 a 30 nmol/L) del livello massimo di vitamina 25(OH)D sierica, in presenza o meno di sintomatologia specifica e in assenza di altre condizioni di rischio associate, necessario ai fini della rimborsabilità;
  • specificazione di livelli differenziati di vitamina 25(OH)D sierica in presenza di determinate condizioni di rischio (ad es. malattia da malassorbimento, iperparatiroidismo) già presenti nella prima versione della Nota;
  • aggiornamento del paragrafo relativo alle evidenze più recenti sopracitate e inserimento di un breve paragrafo dedicato a vitamina D e COVID-19;
  • introduzione di un paragrafo sui potenziali rischi associati all’uso improprio dei preparati a base di vitamina D.

 

SCARICA LA NOTA 96

 

Le numerose cause dell’ipofosfatemia

L’omeostasi del fosfato avviene in molti dei nostri organi più importanti come scheletro, intestino, reni e ghiandole paratiroidee, ed è regolata dall’ormone paratiroideo (PTH), dal fibroblast growth factor 23 (FGF-23) e dalla vitamina D. Quando uno di questi organi o regolatori subisce una disfunzione, acquisita o genetica, si può andare incontro a iper- o ipofosfatemia.

Metabolismo del fosfato

Nonostante l’85% del fosfato risieda nelle ossa e nei denti, e solo l’1% del fosfato del nostro corpo sia extracellulare, è proprio questo ad essere quantificabile a livello clinico, ovvero i livelli di fosfato nel siero. I fisiologici livelli di fosfato nel siero si trovano in un range tra 0,8 e 1,45 mmol/L nell’adulto, e possono variare sia durante il giorno che in base alla dieta; circa il 65% del fosfato assunto tramite dieta viene assorbito a livello del piccolo intestino, mentre il re-assorbimento avviene nel tubulo renale prossimale e, in minima parte, nella parte distale del nefrone.

Definizione di Ipofosfatemia

Nel momento in cui i livelli di fosfato nel siero scendono al di sotto del range sopracitato, il soggetto può andare incontro ad una ipofosfatemia debole, moderata o grave in base alla quantità di fosfato misurato, rispettivamente: tra 0.65 e 0.80 mmol/L, tra 0-32 e 0.65 mmol/L e infine la malattia si aggrava quando i livelli scendono al di sotto di 0.32 mmol/L.

Nei bambini questi valori sono proporzionalmente più alti.

I sintomi dell’ipofosfatemia dipendono sia dalla gravità che dalla cronicità con cui si manifesta la malattia: in una fase acuta i sintomi possono manifestarsi come debolezza muscolare, mialgia e fatica per arrivare ad una sintomatologia grave come scompenso cardiaco, anemia emolitica, convulsioni ed encefalopatie.

L’ipofosfatemia cronica invece si manifesta con un dolore cronico alle ossa sino ad arrivare a fratture.

È possibile identificare tre meccanismi che singolarmente, o nella loro combinazione, possono portare a questa malattia: una riduzione dell’assorbimento del fosfato a livello intestinale, una ridistribuzione (shift) tra il fosfato extracellulare e quello intracellulare oppure un aumento della secrezione di fosfato da parte dei reni.

Principali cause dell’Ipofosfatemia

Ipofosfatemia acuta

Questa forma della malattia si presenta dal 30 al 50% dei casi, e può essere dovuta a diversi fattori: alcalosi respiratoria, sepsi, assunzione di alcol, malnutrizione, chetoacidosi diabetica, aumento della secrezione di insulina durante la somministrazione del glucosio o in seguito a traumi come chirurgie a cure aperto o al fegato.

Alcalosi respiratoria acuta: la riduzione di fosfato nel siero è tanto maggiore quanto più alto è il valore raggiunto dal pH del sangue e, di conseguenza, tanto minore è la concentrazione di CO2. L’ipofosfatemia può insorgere anche qualora lo shift intracellulare del fosfato avvenga durante una ventilazione assistita in pazienti con ostruzione polmonare cronica.

Assunzione di alcol: l’ipofosfatemia si manifesta in oltre il 50% di pazienti con un livello di alcol nel sangue superiore alla norma, ed anche in questo caso come sopra può verificarsi una ipofosfatemia da redistribuzione del fosfato intra ed extracellulare.

Inoltre è importante ricordare che molti pazienti alcolizzati hanno una dieta sbilanciata con un basso apporto di fosfato e vitamina D, oltre al fatto che l’assorbimento del fosfato è fortemente ridotto dall’uso di antiacidi, vomito o diarrea.

Ipofosfatemia cronica

Anoressia nervosa: una normale diminuzione di assunzione di fosfato nella dieta non basta a scatenare la malattia, ma l’ipofosfatemia è stata spesso riscontrata in pazienti gravemente malnutriti o con anoressia nervosa, disturbo che molto spesso comporta anche una diminuzione dell’assunzione del calcio e della vitamina D.

Carenza di vitamina D: riferendosi ad una grave deprivazione di questa vitamina, la comunità scientifica è d’accordo nel definire carenza di vitamina D quando questa scende al di sotto di 10 ng/mL, accompagnata da un malassorbimento intestinale di calcio e fosfato o da un iperparatiroidismo secondario.

La carenza di vitamina D può inoltre essere essa stessa un sintomo di malattie come il morbo di Chron, resezione del piccolo intestino o malattia celiaca.

Iperparatiroidismo primario: dal 50 al 70% dei pazienti con questa malattia presentano anche una moderata ipofosfatemia, con valori di fosfato nel siero tra 0.6 e 0-8 nmol/L.

L’iperparatiroidismo è dovuto ad un accrescimento del tessuto paratiroideo che causa una eccessiva secrezione di PTH.

Iperparatiroidismo secondario: anche in questo caso il PTH è secreto in modo eccessivo e sregolato, ma in risposta ad una carenza di calcio e vitamina D; quest’ultima è la causa principale dell’insorgenza di questo disturbo, banalmente a causa di una bassissima esposizione al sole oppure per gravi restrizioni alimentari o malassorbimento intestinale.

Sindrome di Fanconi: si tratta di una rara patologia che coinvolge le funzioni del tubulo prossimale renale, portando ad una eccessiva perdita di glucosio, aminoacidi e sali di fosfato attraverso le urine. L’ipofosfatemia può essere un sintomo associato sia nella sindrome acquisita che in quella genetica.

  • Sindrome di Fanconi acquisita: causata principalmente dalla somministrazione di alcuni farmaci come il cisplatino utilizzato contro alcune forme tumorali, avvelenamento da metalli pesanti, gravi ustioni o mielomi.
  • Sindrome di Fanconi genetica: la causa più comune è la cistinosi, una malattia metabolica autosomica recessiva che comporta l’accumulo anomalo dell’aminoacido cistina

Sono numerose le altre cause che comportano l’insorgenza dell’ipofosfatemia e che è possibile approfondire in questa review.

Approccio clinico all’ipofosfatemia

Dopo un’accurata anamnesi familiare e del paziente, le prime cause della malattia da ricercare sono la carenza di vitamina D, disordini gastrointestinali, malnutrizione o anoressia nervosa, uso cronico di antiacidi o antiepilettici e disordini renali.

Per quanto riguarda le analisi verteranno sui livelli di calcio, albumina, vitamina D e PTH nel siero.  Una volta ripristinata la corretta concentrazione di vitamina D il clinico potrà procedere ad investigare una eventuale disfunzione renale.

Romosozumab e alendronato per osteoporosi post-menopausale

Romosozumab è una molecola relativamente nuova nel panorama farmacologico italiano, è infatti stata approvata nel 2019 da FdA e da EMA, ma solo nel 2022 da AIFA, e si colloca all’interno del gruppo dei farmaci biologici per la prevenzione delle fratture in donne affette da osteoporosi post-menopausale.

Come denosumab, anche romosozumab è un anticorpo monoclonale, ma va a legarsi alla sclerostina, una proteina espressa agli osteociti che inibisce la produzione di nuovo materiale osseo da parte degli osteoblasti. Impedendo il legame della sclerostina ai recettori LRP 5/6 si incrementa la proliferazione e la sopravvivenza degli osteoblasti e quindi la formazione ossea ma anche, in misura minore, si riduce il riassorbimento osseo.

Combinazione romosozumab alendronato

In uno degli studi più importanti che hanno portato all’approvazione di questa molecola, Saag et al nel 2017 hanno provato a combinare l’effetto del romosozumab con alendronato, il principio attivo più comunemente usato nel trattamento dell’osteoporosi femminile facente parte del gruppo dei bifosfonati, confrontando il risultato con quello ottenuto con la sola somministrazione di alendronato.

Il trial clinico

In questo trial clinico di fase 3, multicentrico, randomizzato e in doppio cieco (1:1) sono state arruolate 4093 donne con età media di 74 anni, selezionate tramite criteri relativi al loro bone mineral density (BMD) T score e alle precedenti fratture vertebrali e femorali avvenute dai 45 anni in su.

I soggetti sono quindi stati trattati con una dose di romosozumab sottocutanea (210 mg) al mese oppure con una dose di alendronato orale ( 70 mg) alla settimana per 12 mesi, al termine dei quali a tutte le 4093 donne sono stati somministrati settimanalmente 70 mg di alendronato  sino alla fine del trial (durata totale 24 mesi). Tutte le pazienti hanno assunto calcio e vitamina D per tutta la durata del trattamento.

Ogni 12 mesi sono state svolte radiografie toraciche e lombari così come è stata analizzata la BMD delle vertebre lombari, bacino e collo del femore.

Come end point primario è stata valutata l’incidenza di nuove fratture vertebrali a 24 mesi dall’inizio del trattamento, mentre gli end points secondari comprendevano l’analisi della BMD delle vertebre lombari, tutto il bacino e collo del femore.

Risultati ed efficacia

Delle 4093 donne prese in esame hanno completato il trial clinico il 77%, di queste il 96% aveva avuto precedentemente fratture vertebrali e il loro BMD T score medio era compreso tra -2,8 e -2,96 (viene confermata la diagnosi di osteoporosi quando il T score scende al di sotto del -2,5).

Al termine dei 24 mesi di trial è stato osservato che il trattamento con romosozumab seguito da alendronato ha portato ad un abbassamento del rischio di fratture vertebrali del 48% rispetto al solo trattamento con alendronato. Al primo check up il trattamento con romosozumab abbassava il rischio di frattura vertebrale del 27% e del 19% per quanto riguarda le fratture non vertebrali, rispetto al trattamento con solo alendronato.

La BMD delle pazienti trattate con romosozumab è risultato fortemente aumentata in tutte le parti scheletriche prese in considerazione, e questo risultato è stato mantenuto anche dopo lo shift ad alendronato per i successivi 12 mesi.

Per quanto riguarda l’insorgenza di effetti collaterali non gravi tutto sommato le due terapie si equivalgono, mentre effetti collaterali gravi sul sistema cardiovascolare sono stati riscontrati maggiormente nelle pazienti trattate con romosozumab (2,5%) mentre solo 1,9% delle pazienti trattate con alendronato da solo sono andate incontro a complicanze cardiovascolari.

Che cosa si evince dallo studio

Ripercorrendo questo trial clinico di fase 3 su donne con osteoporosi post-menopausale ed una storia di fratture ossee alle spalle, la differenza tra il trattamento con solo alendronato rispetto al trattamento con romosozumab seguito, dopo 12 mesi, da alendronato è evidente e pone ottimi presupposti per la cura di questa malattia.

Già dopo 6 mesi la somministrazione di romosozumab ha incrementato significativamente il BMD nelle vertebre lombari, bacino e collo del femore rispetto al solo alendronato, e questa differenza si mantiene anche dopo il passaggio al bifosfonato dopo 12 mesi di romosozumab.

Gli effetti collaterali sono stati riscontrati in entrambi i gruppi di pazienti con una maggior gravità, seppure in basse percentuali, nelle donne trattate con romosozumab; bisogna però tenere presente che questo trial clinico non era stato strutturato tenendo conto di criteri cardiovascolari.

Il grande impatto di questo studio che ha contribuito a lanciare romosozumab sta sicuramente nell’aver raggiunto risultati molto soddisfacenti in termini di BMD e riduzione di fratture in meno di un anno, combinando l’effetto dell’anticorpo monoclonale al già collaudato alendronato.

Per un maggior approfondimento il commento su questo trial clinico da parte del dott. Gregorio Guabello.