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Uso di denosumab in bambini con displasia ossea osteoclastica

Il denosumab è usato con successo per trattare malattie associate all’iperattività degli osteoclasti, tra cui il tumore a cellule giganti delle ossa (GCTB), osteoporosi e lesioni litiche associate a metastasi ossee.

Sempre più spesso denosumab è utilizzato off-label per altri disturbi dell’osso che si ritiene derivino, almeno in parte, da una patologia osteoclastica simile. Questi includono granuloma a cellule giganti centrali (CGCG), cisti ossea aneurismatica (ABC), cherubismo e displasia fibrosa (FD).

L’uso di denosumab nei pazienti pediatrici è scarsamente studiato e, in assenza di studi relativi a sicurezza ed efficacia, i clinici sono comprensibilmente riluttanti a usare la terapia in questa popolazione.

Nello studio “Use of Denosumab in Children With Osteoclast Bone Dysplasias: Report of Three Cases” i ricercatori presentano la loro esperienza nel trattamento off-label con denosumab di tre pazienti pediatrici per una diagnosi di CGCG, ABC e cherubismo.

I bambini sono stati seguiti per un periodo di tre anni presso l’UCLA Medical Center (Los Angeles e Santa Monica, California, USA): un dodicenne con ABC ricorrente del bacino, un quattordicenne con CGCG della mandibola e un dodicenne con cherubismo. Tutti hanno iniziato con un ciclo di un anno di 15 dosi 120 mg sottocutanea, somministrate mensilmente con due dosi di carico l’8 e il 15° giorno.

Durante il trattamento con denosumab, tutti i pazienti hanno mostrato un miglioramento clinico rapido e pronunciato, inclusa una significativa riduzione del dolore e sclerosi delle lesioni litiche (valutate con radiografie). Entro un mese dall’inizio della terapia, due pazienti hanno manifestato ipocalcemia (Common Terminology Criteria for Adverse Events [CTCAE] grado 2) e ipofosfatemia, con un paziente con sintomi. Un paziente ha continuato a sperimentare ipercalcemia di rimbalzo sintomatica (grado CTCAE 4) cinque mesi dopo aver completato la terapia, richiedendo bifosfonati e calcitonina. Per il secondo paziente, è stato sviluppato un programma per la progressiva sospensione di denosumab che prevede l’allungamento progressivo del tempo tra le dosi da uno a quattro mesi con incrementi di un mese prima della cessazione.

La terapia con denosumab porta a un significativo miglioramento clinico e radiografico per i pazienti pediatrici con ABC, CGCG e cherubismo non resecabili.

I problemi di calcemia possono essere più comuni nei pazienti più giovani, con ipercalcemia di rimbalzo sintomatica e protratta dopo l’interruzione della terapia. I ricercatori hanno individuato una potenziale soluzione a questo problema effettuando un progressivo allungamento degli intervalli tra la somministrazione delle dosi. Potenziali eventi avversi gravi da alterazioni dell’omeostasi del calcio devono essere esplorati in studi clinici prospettici.

Somministrazione di denosumab a paziente con cisti ossea aneurismatica (ABC) ricorrente del bacino

A una bambina di dieci anni era stata diagnosticata un’estesa ABC del bacino. Sottoposta a curettage e innesto osseo ha tollerato bene la procedura. Tuttavia, due anni dopo si è presentata con dolore dopo una caduta; constatato che l’ABC pelvica si era ripresentata, la paziente ha subito un secondo curettage e innesto osseo. L’istologia ha rivelato una lesione ossea cistica con tessuto connettivo, tessuto osseo reattivo ed emorragia, con fibroblasti e cellule giganti sparse di tipo osteoclasto.

Il suo caso è stato esaminato da un team multidisciplinare specializzato nel trattamento di tumori muscoloscheletrici: è stato convenuto che era presente un’ulteriore ABC e che la lesione non era suscettibile di ripetere il curettage senza significativa potenziale morbilità. A un mese dal suo 13° compleanno, con un peso di 40 kg, la paziente ha iniziato la terapia con denosumab. Ha ricevuto per un anno dosi di 120 mg di denosumab con un programma mensile, con una dose di carico di 8 giorni (ha perso una dose di carico di 15 giorni).

La paziente ha ottenuto un’eccellente risposta clinica e l’ultimo imaging ha mostrato sclerosi delle cisti, senza aumento delle dimensioni. Il dolore all’anca che era presente prima dell’inizio del trattamento con denosumab si è risolto rapidamente nel corso del primo mese di terapia. Ha continuato a non avere dolori all’anca e non ha avuto problemi di deambulazione nei 13 mesi successivi all’interruzione di denosumab.

Denosumab e ABC
Paziente con cisti ossea aneurismatica del bacino. (A, B) Judet film normale e TC sagittale prima della terapia con denosumab e dopo i due precedenti interventi chirurgici; (C, D) e film posteroanteriore del bacino e TC sagittale dopo terapia con denosumab

Gli eventi avversi sono stati misurati attraverso CTCAE v4.0 (Common Terminology Criteria for Adverse Events). Nel primo mese di terapia, la paziente ha manifestato ipocalcemia asintomatica con ipofosfatemia associata. La calcemia si è normalizzata entro due mesi senza alcun intervento. Cinque mesi dopo la sua dose finale, è stata ricoverata con calcio sierico di 15,5 mg/dL e sintomi di ipercalcemia, incluso dolore addominale diffuso grave, nausea e vomito. Non aveva evidenze di analisi di laboratorio o radiologiche di nefrocalcinosi. Ha richiesto bisfosfonati, furosemide e calcitonina per abbassare la calcemia. Dopo la dimissione, la calcemia era tornata alla normalità a 9,6. Ha avuto due episodi di ipercalcemia asintomatica il mese successivo con 11,6 e 11,5 mg/dL , rispettivamente, che si sono corretti con due settimane di terapia con furosemide e successivamente ha avuto livelli normali di calcemia.

Somministrazione di denosumab a paziente con granuloma a cellule giganti centrali della mandibola

All’età di 14 anni, a un paziente che dall’età di dieci anni presentava una massa mandibolare progressiva è stato diagnosticato un granuloma a cellule giganti centrali (CGCG). Ha avuto una recidiva di CGCG con denti inferiori fluttuanti e forte dolore alla masticazione. Dato il dolore progressivo grave, il fallimento degli steroidi intralesionali e della calcitonina, la significativa limitazione funzionale e la crescita progressiva della massa, è stata presa in considerazione una mandibulectomia parziale. A causa della potenziale morbilità derivante da questa procedura chirurgica, è stata considerata la terapia con denosumab come un potenziale modo per evitarne o ritardarne la necessità. Il paziente ha iniziato la terapia con denosumab all’età di 14 anni e ha ricevuto dosi di denosumab mensili con dosi di carico il giorno 8° e il giorno 15° per un totale di 15 dosi da 120 mg nel corso di un anno. All’inizio della terapia il ragazzo pesava 56 kg all’inizio. Durante il trattamento con denosumab o dopo il completamento della terapia il paziente non ha avuto alcuna complicazione e le sue analisi di laboratorio non hanno dimostrato alcuna marcata anomalia dei livelli di calcitonia e durante la terapia la fosfatasi alcalina sierica è stata adeguatamente contenuta al di sotto dell’intervallo normale.

Il paziente ha avuto un’eccellente risposta clinica e radiologica. Entro un mese dall’inizio della somministrazione di denosumab, il dolore mandibolare grave è stato completamente risolto, la masticazione è tornata pienamente funzionale e la dentatura, che era libera e dolorosa, si è fissata nella mandibola. Con la terapia, la fosfatasi alcalina sierica è diminuita in modo appropriato.

Denosumab e CGCG
Paziente con granuloma a cellule giganti centrali della mandibola (A) prima di denosumab, (B) dopo sei mesi di terapia e (C) dopo dieci mesi di terapia.

Somministrazione di denosumab a paziente con cherubismo

A una bambina era stato diagnosticato cherubismo all’età di cinque anni. La malattia era progressiva e refrattaria ai trattamenti. La paziente presentava forte dolore bilaterale a mandibola e mascella e sanguinamento gengivale e orale incontrollato. La situazione ha provocato numerosi accessi al pronto soccorso e ha richiesto uso di oppioidi e procoagulanti orali (acido aminocaproico). La bambina ha iniziato la terapia con denosumab a 12 anni. All’inizio della terapia, la ragazza pesava 42 kg.

Entro un mese dall’inizio della terapia con denosumab, il dolore si era completamente risolto così come il sanguinamento orale. Dopo sei mesi di trattamento, la paziente ha mostrato un’eccellente risposta radiografica con aumento della sclerosi delle lesioni mandibolari e mascellari gravemente osteolitiche.

Denosumab e cherubismo
Paziente con cherubismo (A, C). Immagini sagittali e coronali rappresentative prima dell’inizio della terapia con denosumab (B, D) e dopo sei mesi di terapia.

La tossicità associata al trattamento ha incluso un evento avverso grave di ipocalcemia di grado 3 CTCAE che ha richiesto il ricovero ospedaliero, con sintomi di formicolio e intorpidimento delle mani, nonché di debolezza generalizzata. La paziente mostrava concomitante ipofosfatemia a 2,6 mg/dL, con un PTH sierico normale di 48 pg/mL (intervallo da 11 a 51 pg/mL). Contrariamente ai pazienti con ABC e CGCG, in risposta alla terapia con denosumab la fosfatasi alcalina sierica inizialmente è aumentata per poi diminuire. Dopo questo episodio, la dose di denosumab è stata ridotta del 50% e portata a 60 mg al mese. Dopo dieci mesi di terapia, è iniziato il programma di interruzione graduale di denosumab. La paziente ha ricevuto l’undicesima dose due mesi dopo la decima e la dodicesima dose due mesi dopo. La tredicesima dose è prevista tre mesi dopo la dodicesima; la dose finale sarà somministrata quattro mesi dopo la dose precedente.

Indicazioni di uso off-label di denosumab

Nei casi descritti nello studio, la terapia con denosumab ha determinato un significativo miglioramento dei parametri clinici e degli esiti radiografici in pazienti pediatrici con ABC, CGCG e cherubismo.

Nei pazienti più giovani, i problemi di calcemia sia all’inizio del trattamento che alla sospensione della somministrazione di denosumab possono essere più comuni  rispetto a quelli rilevati negli adulti, con ipercalcemia di rimbalzo sintomatica e protratta dopo l’interruzione della terapia più significativa. Come soluzione al problema i ricercatori hanno proposto il progressivo allungamento del tempo tra le somministrazioni da uno a quattro mesi, con incrementi di un mese prima della cessazione definitiva di denosumab. Raccomandano inoltre di ridurre o possibilmente eliminare le dosi di carico per evitare ipocalcemia all’inizione della terapia.

Denosumab può essere un’opzione terapeutica praticabile per i bambini con displasia ossea osteoclastica non resecabile come ABC, CGCG, cherubismo e FD.

Tuttavia, a causa di potenziali eventi avversi gravi da alterazioni dell’omeostasi del calcio, questa opzione deve essere esplorata attentamente in studi clinici prospettici su denosumab in bambini e adolescenti con le suddette malattie.

Lo studio

A. Upfill‐Brown, S. Bukata, N. M. Bernthal et al. Use of Denosumab in Children With Osteoclast Bone Dysplasias: Report of Three Cases, JBMR Plus. 2019 Oct; 3(10): e10210, doi: 10.1002/jbm4.10210

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Discontinuazione del denosumab e terapia di consolidamento farmacologico

Microarchitettura ossea e ipoparatiroidismo post-chirurgico

L’ipoparatiroidismo è una rara condizione clinica caratterizzata da ipocalcemia e iperfosfatemia dovuta a bassi livelli di paratormone (PTH).

Bassi livelli di PTH circolante portano a uno stato di turnover osseo basso, con conseguente aumento della densità della massa ossea (BMD) insieme a cambiamenti di microarchitettura.

L’effetto di questi cambiamenti sul rischio di frattura deve ancora essere determinato e i dati pubblicati sono ancora discordanti: alcuni indicano protezione contro le fratture degli arti superiori [hazard ratio (HR), 0,69; IC al 95%, da 0,49 a 0,97] e altri che mostrano una maggiore prevalenza di fratture vertebrali morfometriche in pazienti con PsH (63%) rispetto ai controlli (11,8%). Per quanto riguarda l’incidenza delle fratture, uno studio prospettico che ha seguito 32 pazienti per una media (± DS) di 78 ± 68 mesi ha identificato quattro pazienti (12,5%) con eventi di frattura durante il periodo di follow-up.

Strumenti complementari alla densitometria ossea, come il punteggio dell’osso trabecolare (TBS, trabecular bone score), possono aiutare a stimare il rischio di fratture nella popolazione generale. La TBS è associata al rischio di frattura osteoporotica, indipendentemente dalla BMD e dai fattori di rischio clinici. Valori TBS più elevati riflettono trabecole più dense con buona connettività e microarchitettura più resistente alla frattura. Punteggi >1,310 indicano un basso rischio di fratture osteoporotiche, valori <1,230 indicano un rischio elevato e valori intermedi indicano un rischio intermedio.

Gli effetti della deprivazione di paratormone (PTH) sull’osso non sono ancora chiari. Un gruppo di ricercatori dell’Università di San Paulo (Brasile) ha condotto uno studio per verificare il deterioramento dell’architettura ossea in pazienti con ipoparatiroidismo post-chirurgico (PsH), correlando i loro dati clinici, densitometrici e di laboratorio ai valori di TBS. Come obiettivo secondario sono state esplorate le possibili associazioni tra queste variabili e gli eventi fratturativi verificatisi.

Risultati

L’analisi ha incluso 82 pazienti di cui 12 uomini (14,6%) e 70 donne (85,4%), con un’età media di 59 anni e un BMI mediano di 27,7 kg/m2 . La maggior parte delle donne (68,6%) era in menopausa; 17 pazienti avevano diabete mellito di tipo 2 (T2DM).

Delle 68 scansioni di assorbimento di raggi X a doppia energia (DXA) ottenute, l’osteopenia e l’osteoporosi erano presenti rispettivamente nel 32,4% delle pazienti femmine e nel 2,9% dei pazienti maschi. Complessivamente, sono state analizzate 62 scansioni lombari utilizzando TBS. Il valore medio di TBS (± DS) era 1,338 ± 0,140 e il 32,2% dei risultati era <1,310.

I valori di TBS sono risultati correlati negativamente con BMI (principalmente >30 kg/m2), età (principalmente >60 anni) e glicemia, mentre TBS anormale è risultato correlata a osteopenia, T2DM, frattura a basso impatto e menopausa.

Sei pazienti di sesso femminile presentavano fratture a basso impatto, associate a una TBS inferiore (1,178 ± 0,065 vs. 1,404 ± 0,130 nel gruppo senza fratture; P<0,001), età avanzata, indice di massa corporea superiore, funzione renale compromessa, glicemia anormale e osteopenia.

Fattori di rischio per la perdita ossea e microarchitettura ossea in individui con PsH

L’ipoparatiroidismo è una condizione derivante dalla ridotta secrezione o produzione di PTH con successiva ipocalcemia cronica e iperfosfatemia. Lo stato risultante di basso turnover osseo è di solito accompagnato da una BMD più elevata rispetto a una normale popolazione di età e sesso.

Nonostante la limitazione del piccolo numero di pazienti e di eventi di frattura, lo studio in esame – che descrive i valori di TBS esclusivamente nei pazienti con PsH, correlando questi valori con le caratteristiche cliniche e di laboratorio e fornendo dati sulle fratture in questa popolazione – ha trovato correlazioni significative tra i valori di TBS e le variabili raccolte, suggerendo che anche i fattori noti per interferire nella qualità dell’osso esercitano influenza in questa popolazione, indipendentemente dal BMD più elevato riscontrato.

Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori affermano che:

i fattori di rischio noti per la perdita ossea compromettono la microarchitettura ossea degli individui con PsH, indipendentemente dai risultati DXA.

Le donne in menopausa con PsH e i pazienti più anziani con PsH che hanno osteopenia, un BMI più elevato o T2DM possono essere candidati per una valutazione più dettagliata usando, ad esempio, la TBS.

Tutto ciò suggerisce la necessità di valutare in modo personalizzato la qualità ossea in pazienti con PsH, tenendo conto del rischio di frattura di ciascuno di essi.

Ipoparatiroidismo

L’ipoparatiroidismo è una rara condizione clinica caratterizzata da ipocalcemia e iperfosfatemia dovuta a bassi livelli di paratormone (PTH).

Cause

La causa più comune di questa condizione è il danno alle ghiandole paratiroidi a seguito di interventi chirurgici al collo anteriore, ma può anche essere causata da malattie autoimmuni, genetiche o infiltrative.

Prevalenza

La prevalenza dell’ipoparatiroidismo varia ampiamente a seconda di diversi fattori, come l’estensione chirurgica, l’uso della radioterapia e l’esperienza del chirurgo. I dati provenienti da centri specializzati negli Stati Uniti e in Europa riportano un tasso <2% di ipoparatiroidismo post-chirurgico permanente (PsH) dopo resezione totale della tiroide; tuttavia, l’ipocalcemia transitoria (della durata di <6 mesi) è molto più comune e si verifica tra il 20% e il 30% dei pazienti sottoposti a tiroidectomia.

Sintomi

I sintomi dell’ipoparatiroidismo derivano da ipocalcemia e possono presentarsi come parestesia, crampi, disfunzioni cognitive, convulsioni, anomalie cardiovascolari e calcificazioni dei tessuti molli.

Lo studio

Eliane Naomi Sakane, Maria Carolina Camargo Vieira, Marise Lazaretti-Castro, Sergio Setsuo Maeda, Predictors of Poor Bone Microarchitecture Assessed by Trabecular Bone Score in Postsurgical Hypoparathyroidism The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 104, Issue 12, December 2019, Pages 5795–5803, https://doi.org/10.1210/jc.2019-00698

Vitamina K e salute delle ossa

Ricercatori dell’Ospedale universitario Fundación Jiménez Díaz di Madrid hanno effettuato una review della letteratura pubblicata sul Journal of Osteoporosis per studiare gli effetti della carenza di vitamina K, della supplementazione di vitamina K e dell’assunzione di anticoagulanti orali antagonisti della vitamina K su diversi parametri ossei. I ricercatori hanno preso in considerazione articoli che analizzano gli aspetti rilevanti della relazione tra vitamina K e salute delle ossa presenti nei database PubMed, Medline e Cochrane.

Sebbene sia nota per la sua importanza nella cascata della coagulazione, la vitamina K ha anche altre funzioni. Poiché prende parte alla carbossilazione di molte proteine ​​correlate alle ossa, regola la trascrizione genetica dei marker osteoblastici e regola il riassorbimento osseo, la vitamina K è essenziale alla salute delle ossa.

La carenza di vitamina K non è rara, poiché l’organismo non è in grado di produrne in quantità sufficienti e deve essere assunta con la dieta. Inoltre anche l’assunzione di anticoagulanti orali dell’antagonista della vitamina K induce carenza di vitamina K. La maggior parte degli studi rileva che basse concentrazioni sieriche di K1, alti livelli di osteocalcina carbossilata (ucOC) e un basso apporto dietetico di K1 e K2 sono associati a un rischio maggiore di fratture e a una densità di massa ossea (BMD) inferiore.

Gli studi relativi alla relazione tra la supplementazione di vitamina K e il rischio di frattura rilevano che assumendo integratori si potrebbe ridurre il rischio di fratture, ma sono necessari studi appositamente progettati che prevedano come endpoint primario la frattura.

Anche la riduzione del rischio di frattura con l’uso di anticoagulanti orali non antagonisti della vitamina K (NOAC) al posto del warfarin è interessante, ma ancora una volta le prove disponibili offrono risultati difformi. Le prove scarse e limitate, inclusi studi di bassa qualità che hanno raggiunto conclusioni discordanti, rendono impossibile trarre solide conclusioni su questo argomento, in particolare per quanto riguarda l’uso di integratori di vitamina K.

Vitamina K, fratture e densità minerale ossea

La maggior parte degli studi rileva che basse concentrazioni sieriche di K1, alti livelli di osteocalcina non carbossilata (ucOC) e un basso apporto dietetico di K1 e K2 sono associati a un maggior rischio di fratture.

La correlazione tra assunzione di vitamina K attraverso la dieta e il rischio di fratture ha evidenze sostanziali. Uno dei più grandi studi in materia è l’analisi prospettica risalente al 1999 “Vitamin K intake and hip fractures in women: a prospective study” condotta nell’ambito dello Nurse’ Health Study effettuata su 72.327 donne di età compresa tra 38 e 74 anni, con un follow-up di 10 anni. In questo studio, i soggetti con un apporto di vitamina K1 superiore a 109 μg/die hanno presentato un rischio relativo di frattura dell’anca significativamente inferiore aggiustato per età rispetto alle donne con un apporto inferiore (RR: 0,70; intervallo di confidenza al 95% (CI): 0,53, 0,93 ). L’assunzione di dosi più elevate di vitamina K non ha apportato nessun ulteriore beneficio nella riduzione di fratture, anzi sembra esistere una soglia oltre la quale il rischio di fratture inizia a salire.

La meta-analisi “Vitamin K intake and the risk of fractures: a meta-analysis” del 2017 che includeva quattro studi di coorte e uno studio di case-control nidificato, sommando un totale di 80.982 partecipanti e 1114 fratture ha mostrato una proporzionalità inversa tra l’assunzione di vitamina K1 con la dieta e il rischio di fratture, senza trovare alcun “effetto soglia”. In questo studio, i soggetti con il più alto apporto di vitamina K hanno presentato una riduzione del 22% nel rischio di fratture (IC 95%: 0,56-0,99), ma vale la pena ricordare che tra gli studi è stata riscontrata una moderata eterogeneità. L’analisi dei sottogruppi ha mostrato che solo studi con un follow-up di dieci o più anni hanno trovato questa associazione.

Se una maggior assunzione di vitamina K sia associata a valori di BMD più alti è ancora una questione controversa. Sebbene l’assunzione di vitamina K con la dieta sia stata collegata a un minor rischio di frattura, i risultati dell’effetto sulla BMD sono più incoerenti. Ad esempio, usando la Framingham study cohort, Booth et al. nello studio “Dietary vitamin K intakes are associated with hip fracture but not with bone mineral density in elderly men and women“, pubblicato nel maggio del 2000 su The American Journal of Clinical Nutrition hanno analizzato la variazione della BMD in sei siti anatomici di 888 pazienti con un’età media di 75 anni con assunzioni PK diverse valutate attraverso un questionario validato sulla frequenza alimentare. Gli autori non hanno trovato un’associazione significativa tra BMD in nessun sito e assunzione di PK, nonostante la correzione di potenziali variabili confondenti come l’età, l’indice di massa corporea, il consumo di fumo/alcol, altre assunzioni dietetiche (calcio e vitamina D) e l’uso di estrogeni. Tuttavia, hanno trovato un’associazione significativa tra l’assunzione di PK e le fratture, suggerendo che questo evento è stato mediato da fattori diversi dalla perdita di BMD. Gli stessi autori hanno pubblicato tre anni dopo “Vitamin K intake and bone mineral density in women and men”, questa volta includendo 2591 individui, con un’età media più giovane (rispettivamente 58 e 59 anni per donne e uomini). In questa analisi, un basso apporto di PK ha mostrato un’associazione indipendente dall’età con BMD all’anca e alla colonna vertebrale, ma solo nelle donne. Gli autori non possono giustificare questi risultati con la differenza di età tra le due coorti, ma suggeriscono piuttosto che il maggior numero di partecipanti può spiegare la variazione dei risultati. Inoltre, uno studio del 2016 che ha coinvolto una coorte di donne danesi in perimenopausa non ha trovato alcuna associazione tra assunzione di K1 e BMD al collo del femore o alla colonna lombare.

Nel complesso, sono ignote le ragioni alla base dei risultati contraddittori relativi agli effetti che l’assunzione di vitamina K ha sui parametri ossei.

Un problema può essere ricondotto al fatto che molti studi si limitano a valutare solamente l’assunzione di vitamina K1, che è la forma principale presente nella dieta, senza considerare che anche l’assunzione di vitamina K2 può rappresentare una variabile importante.

Un’altra difficoltà è che l’assunzione di vitamina K viene mal correlata ai cambiamenti nelle concentrazioni sieriche. Nello studio “Associations between Vitamin K Biochemical Measures and Bone Mineral Density in Men and Women” Booth et al. hanno valutato la presenza di vitamina K attraverso i valori plasmatici di K1 e i valori sierici di osteocalcina non carbossilata (under-γ-carboxylated osteocalcin ucOC). Nello studio, che ha coinvolto 863 donne e 741 uomini senza differenze significative nell’assunzione di K1 media (151-177 μg/giorno), uno stato di vitamina K scarso è stato associato a BMD bassa al collo del femore negli uomini e BMD bassa alla colonna vertebrale nelle donne senza terapia sostitutiva con estrogeni. Questa associazione non era significativa nelle donne in premenopausa o postmenopausa con terapia sostitutiva con estrogeni. Pertanto, questo studio evidenzia l’importanza di regolare i risultati per variabili come lo stato degli estrogeni. Infine, nel piccolo studio “Relation Between Circulating Vitamin K1 and Osteoporosis in the Lumbar Spine in Syrian Post-Menopausal Women” condotto da Jaghsi et al. nelle donne in postmenopausa senza terapia sostitutiva con estrogeni, il K1 sierico era positivamente correlato alla BMD della colonna lombare. La sensibilità diagnostica e la specificità dei valori di vitamina K1 per l’osteoporosi erano rispettivamente del 90% e del 98% e gli autori propongono che la vitamina sierica K1 potrebbe essere utile come strumento diagnostico per l’osteoporosi.

Una limitazione importante a questi studi è la difficoltà di regolare i risultati per le variabili confondenti. Gli alimenti ricchi di vitamina K possono veicolare anche altri nutrienti “amici” delle ossa (calcio, magnesio ecc.) che possono interferire con i risultati.

Alla luce degli studi riportati, sembra che i valori di ucOC siano un buon indicatore della salute delle ossa.

Effetto della supplementazione di vitamina K su fratture e BMD

Gli effetti della supplementazione di vitamina K sulla BMD sono riassunti nella meta-analisi “Effect of vitamin K on bone mineral density: a meta-analysis of randomized controlled trials” eseguita da Fang et al., che comprendeva sia soggetti sani che pazienti affetti da osteoporosi primaria/secondaria. In totale, sono stati inclusi 17 studi, dieci dei quali includevano integratori di vitamina K2 (otto con MK-4 alla dose di 15–45 mg/die e due con MK-7 alla dose di 0,2-3,6 mg/die) e sette studi con supplementazione di vitamina K1 (0,2-10 mg/die). Nell’analisi generale, inclusi tutti gli studi selezionati, gli autori hanno scoperto che l’integrazione di vitamina K non ha influenzato significativamente la BMD (misurata in base alla differenza media ponderata) al collo del femore, ma ha aumentato significativamente la BMD della colonna lombare dell’1,27% (IC 95%: 0,47– 2,06) dopo 6–36 mesi di trattamento. Tuttavia, quando le analisi dei sottogruppi sono state eseguite in base al tipo di vitamina K somministrata, gli effetti non erano significativi per K1 e rimanevano comunque significativi per K2 (aumento medio dell’1,8% della BMD della colonna lombare, CI 95%: 0,87–2,75). Gli autori sono cauti su questi risultati; molti degli studi inclusi erano di bassa qualità ed è stata riscontrata una significativa eterogeneità tra questi studi.

Un’altra meta-analisi (“Does vitamin K2 play a role in the prevention and treatment of osteoporosis for postmenopausal women: a meta-analysis of randomized controlled trials“) ha esplorato specificamente il ruolo degli integratori di vitamina K2 sia nella BMD che nella frattura. Attraverso 19 studi (11 dei quali non sono stati inclusi nella meta-analisi sopra menzionata) con 6759 partecipanti, gli autori hanno scoperto che i supplementi di K2 hanno migliorato significativamente la BMD vertebrale a medio e lungo termine e la BMD dell’avambraccio a lungo termine in donne in postmenopausa con osteoporosi.

Infine, lo studio “Possible site-specific effect of an intervention combining nutrition and lifestyle counselling with consumption of fortified dairy products on bone mass: the Postmenopausal Health Study II” condotto su 115 donne in postmenopausa ha dimostrato che tutti e tre i gruppi che avevano assunto rispettivamente integratori contenenti calcio e vitamina D; calcio, vitamina D e vitamina K1; calcio, vitamina D e vitamina K2 per un anno avevano mostrato un aumento significativo della BMD totale rispetto ai controlli, con ulteriori vantaggi per la BMD lombare nei gruppi che hanno assunto K1 o K2.

In generale, la maggior parte degli studi riporta una correlazione positiva, almeno in alcuni sottogruppi, tra l’assunzione di integratori di vitamina K e aumento della BMD.

Inoltre, sebbene alcuni studi non abbiano dimostrato cambiamenti significativi nella BMD, sono riusciti a ottenere risultati significativi in ​​altri parametri ossei.

I ricercatori concludono che l’integrazione con vitamina K sembra ridurre le fratture, ma che è necessario uno studio ampio e di alta qualità per confermare questi risultati al fine di formulare una raccomandazione specifica.

Effetto della supplementazione di vitamina K in associazione con altri trattamenti finalizzati al trattamento dell’osteoporosi

Le prove in materia sono scarse, soprattutto per quanto riguarda l’effetto sulle fratture. Il più grande studio che affronta questo problema è “Comparison of concurrent treatment with vitamin K2 and risedronate compared with treatment with risedronate alone in patients with osteoporosis: Japanese Osteoporosis Intervention Trial-03” che ha coinvolto 1874 donne di età pari o superiore a 65 anni con osteoporosi, che sono state sottoposte a terapia con risedronato e vitamina K2 o solo risedronato. I tassi di incidenza della frattura erano simili tra i due gruppi e l’analisi dei sottogruppi non ha dimostrato differenze quando i pazienti sono stati stratificati su valori sierici di ucOC.

Altri studi più piccoli hanno portato a risultati contraddittori e i ricercatori concludono che gli integratori di vitamina K non possono essere raccomandati per il trattamento dell’osteoporosi, almeno nei soggetti che non sono a rischio di carenza di vitamina K per motivi specifici.

Nuovi anti coagulanti orali (NOAC) e fratture

La terapia con antagonisti della vitamina K (VKA) causa carenza di vitamina K, bloccando l’enzima vitamina K epossido reduttasi, esaurendo così la vitamina K idrochinone che è essenziale per l’attività della glutamil carbossilasi e quindi rappresenta una potenziale minaccia per la salute delle ossa attraverso questo meccanismo. Tuttavia, l’evidenza disponibile sull’effetto della VKA sulla frattura offre risultati contraddittori, con alcuni studi che riportano un aumento del rischio di frattura in siti diversi (tranne l’anca) e altri no. Questi risultati possono essere imputati ai limiti di questi studi, ad esempio un breve follow-up degli individui inclusi in essi o la valutazione delle fratture solo in alcuni siti.

La prescrizione di NOAC è notevolmente aumentata negli ultimi anni in alternativa ai VKA e, al contrario di questi ultimi, i NOAC non interferiscono con il ciclo della vitamina K. Sono state pubblicate prove che esplorano il loro profilo di sicurezza ossea, sia nei ratti che nell’uomo.

Gli studi che esplorano l’effetto dei NOAC nei ratti suggeriscono un profilo favorevole di sicurezza ossea; sono state anche pubblicate prove relative al profilo di sicurezza ossea di NOAC negli esseri umani, ma non esiste un singolo studio controllato randomizzato che ne valuti l’esito primario.

Alla luce degli studi analizzati dai ricercatori, è chiaro che è necessario uno studio controllato randomizzato che paragoni il rischio di fratture tra chi assume NOAC e chi assume VKA. Fino ad allora, non è possibile trarre alcuna conclusione solida sul profilo di sicurezza ossea dei NOAC a causa di prove limitate e disparate.

Limitazioni delle prove disponibili

Le differenze nei risultati tra gli studi possono essere influenzate da molti fattori confondenti, tra cui le diverse forme di vitamina K utilizzate, l’assunzione di vitamina K nella dieta di base dei soggetti inclusi, il livello di assunzione con la dieta di calcio e vitamina D, l’uso di altri integratori e differenze nelle caratteristiche basali della popolazione.

Conclusioni

La vitamina K svolge un ruolo importante nella salute delle ossa. Negli studi osservazionali, una bassa assunzione di vitamina K, bassi valori sierici di vitamina K e alti livelli di osteocalcina non carbossilata circolatoria (ucOC) sono associati al rischio di frattura (in particolare frattura dell’anca). Tuttavia, gli studi clinici non ottengono risultati conclusivi e, pertanto, sussistono ancora controversie sull’uso degli integratori di vitamina K1 e K2.

Sono necessari studi clinici di alta qualità su pazienti con bassi valori sierici di vitamina K e/o basso apporto dietetico per chiarire il ruolo della vitamina K nel rischio di fratture.

Lo studio

Celia Rodríguez-Olleros Rodríguez, Manuel Díaz Curiel, Vitamin K and Bone Health: A Review on the Effects of Vitamin K Deficiency and Supplementation and the Effect of Non-Vitamin K Antagonist Oral Anticoagulants on Different Bone Parameters, Journal of Osteoporosis, 2019, https://doi.org/10.1155/2019/2069176

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Vitamina K1, K2 e K3

 

Uso di miRNA come attivatori di superfici di impianti dentali

I microRNA (miRNA) sono brevi sequenze di RNA non codificanti cruciali nella regolazione dello sviluppo, proliferazione e differenziazione delle cellule. Alcuni di essi hanno mostrato di essere correlati con l’espressione di geni osteogenici, come RUNX2 e SMAD5.

Scopo del riesame effettuato da Riccardo Di Gianfilippo dell’Università del Michigan e pubblicato sull’International Journal of Bone and Mineral Metabolism è stata la valutazione degli effetti biologici delle superfici di impianti in titanio attivate con miRNA o antimiRNA.

Dopo ricerca bibliografica elettronica, sono stati inclusi nella revisione cinque articoli che studiano l’influenza delle superfici funzionalizzate con miRNA su cellule umane o animali.

Le superfici funzionalizzate con miRNA hanno dimostrato di sovraregolare l’espressione di geni osteogenici come RUNX2, OPN, OCN, BMP, OSX, ALP, COL1 e COL3. Le superfici investigate hanno inoltre mostrato più tessuti mineralizzati ossei, lacune ossee, osteociti e nuovi vasi sanguigni.

I miRNA caricati sulle superfici degli impianti in titanio stimolano l’espressione di geni correlati alla differenziazione degli osteoblasti, osteogenesi, osteointegrazione e riparazione dei tessuti mineralizzati.

I vettori utilizzati per collegare le superfici in titanio e i miRNA non hanno mostrato citotossicità o interferenze con la vitalità delle cellule.

Epigenetica in odontoiatria

Nell’ultimo decennio, il ruolo dell’epigenetica in medicina e in odontoiatria è cresciuto in modo impressionante e l’epigenomica è considerata uno degli argomenti più importanti della scoperta scientifica. I meccanismi molecolari epigenetici principalmente studiati sono la produzione di miRNA, la metilazione del DNA e la modificazione degli istoni.

I microRNA (miRNA) sono brevi sequenze di RNA non codificanti (ncRNA) composti da diciassette/venticinque nucleotidi. Sono cruciali nella regolazione dello sviluppo, proliferazione, differenziazione, apoptosi e risposta a diversi segnali extracellulari e stres . Si pensa che siano in relazione con l’espressione di geni osteogenici come RUNX2 e SMAD5.. Le vie del microRNA regolano l’espressione genica inducendo il degrado e/o la repressione traslazionale degli mRNA target. Si ritiene che oltre il 40% di tutti i geni umani sia sotto la regolazione dei miRNA. MessengerRNA può legare il promotore di specifici microRNA attivando un circuito di feedback autoregolamentato; quindi, quando un mRNA specifico è sovraregolato, anche il miRNA correlato è sovraespresso. Ogni miRNA può colpire centinaia di mRNA e alcuni target sono influenzati da più miRNA. Probabilmente, i miRNA sono fondamentali nel mantenimento della pluripotenza e dell’indifferenziazione delle cellule staminali adulte; infatti, diversi miRNA sembrano modulare significativamente la differenziazione dei precursori mesenchimali nelle cellule di osteoblasti, regolando l’attività dei fattori di trascrizione.

Nel campo della parodontologia, in persone sane l’espressione di miR-181b, mi-R19b, miR-30a, miR-let 7a e miR-301a è più bassa rispetto a quella riscontrata in soggetti con parodontite. L’espressione di microRNA-155 è legata ai meccanismi di segnalazione dell’IL-1 e alla risposta infiammatoria.

Nel campo dell’odontoiatria implantare, nuove superfici in titanio sono state funzionalizzate per aumentare i livelli di espressione dei geni osteogenici.

Nonostante l’interesse sull’uso di attivatori biologici per migliorare l’osteointegrazione degli impianti dentali, le conoscenze disponibili sembrano essere scarse.

L’autore della revisione ha quindi analizzato pubblicazioni relative a studi in vitro e in vivo che riportassero effetti biologici dell’uso di miRNA come attivatori di superfici di impianti sulla formazione ossea e sull’osteointegrazione. Dei 91 articoli selezionati, cinque sono risultati conformi ai criteri di inclusione [1, 2, 3, 4, 5] e riguardavano studi in vitro che analizzavano gli effetti genetici di superfici funzionalizzate con miRNA rispetto a superfici non funzionalizzate su cellule umane o animali.

Tutti gli articoli hanno riportato che le superfici di impianti funzionalizzate hanno sovraregolato l’espressione dei geni osteogenici.

I benefici della funzionalizzazione con miRNA

In tutti gli studi analizzati, per i gruppi di controllo sono state utilizzate superfici ossidate con Micro-Arc (MAO). Le superfici micro-ruvide e nano-ruvide hanno dimostrato di facilitare le interazioni con le cellule ossee e, in particolare, le superfici in titanio ossidate con Micro-Arc hanno mostrato di avere effetti favorevoli sull’osteointegrazione degli impianti attraverso l’induzione della deposizione di apatite e la promozione delle funzioni degli osteoblasti.

Tuttavia, i miglioramenti nella sola topografia della superficie implantare potrebbero non essere sufficienti per stimolare il massimo potenziale osteogenico. Una strategia più efficace per promuovere un’osteointegrazione prevede il caricamento di biomolecole sulle superfici dell’impianto per stimolare la differenziazione cellulare, la migrazione, l’espressione genica e la deposizione di matrice extracellulare.

Anche se ci sono studi disponibili che analizzano il caricamento di oligonucleotidi o peptidi, solo alcuni hanno studiato i miRNA. Al momento, i miRNA utilizzati come attivatori per le superfici degli impianti sono miR122, miR-21, miR-29b, antimiR204 e antimiR138.

A causa dell’esiguo numero di pubblicazioni esistenti, sono necessari ulteriori studi per una migliore comprensione degli effetti indotti dagli impianti attivati ​​con miRNA sui geni osseogenetici. Al momento sono disponibili solo studi con prove indirette. Inoltre, non è ancora documentato se la maggiore espressione dei geni osseogenetici causata dai miRNA potrebbe portare a un alto tasso di osteointegrazione nell’uomo.

Nonostante la piccola quantità di dati, tutti gli studi inclusi hanno concordato che le superfici degli impianti funzionalizzate con miRNA o antimiRNA hanno stimolato una maggiore espressione di geni osseogenici, una maggiore differenziazione e una maggiore deposizione di collagene e noduli mineralizzati.

Sono necessari ulteriori studi per una completa comprensione degli effetti indotti dai miRNA sui precursori degli osteoblasti. Inoltre, è necessario approfondire il ruolo del tempo e studiare gli effetti delle superfici funzionalizzate con miRNA con modelli in vivo.

Le conoscenze nel campo dell’epigenetica potrebbero essere utilizzate per sviluppare nuove superfici attivate dal miRNA, geneticamente e biologicamente compatibili, in grado di migliorare la deposizione ossea.

La review

Di Gianfilippo Riccardo, The use of miRNAs as activators of dental implant surfaces, A review, International Journal of Bone and Mineral Metabolism, Volume 1, Issue 1, 2018, Pages 2-9, ISSN Coming Soon, https://doi.org/

Gli studi analizzati

  1. Wang Z, Wu G, Feng Z, Bai S, Dong Y. (2015) Microarc-oxidized titanium surfaces functionalized with microRNA-21-loaded chitosan/hyaluronic acid nanoparticles promote the osteogenic differentiation of human bone marrow mesenchymal stem cells, Int J Nanomedicine;10: 6675-6687.
  2. Wu K, Song W, Zhao L, Liu M, Yan J. (2013) MicroRNA functionalized microporous titanium oxide surface by lyophilization with enhanced osteogenic activity, ACS Appl Mater Interfaces;5: 2733-2744.
  3. Song W, Yang C, Svend Le DQ, Zhang Y, Kjems J.(2018). Calcium-MicroRNAComplex-Functionalized Nanotubular Implant Surface for Highly Efficient Transfection and Enhanced Osteogenesis of Mesenchymal Stem Cells, ACS Appl Mater Interfaces;10: 7756-7764.
  4. Shao D, Wang C, Sun Y, Cui L. (2018) Effects of oral implants with miR122modified cell sheets on rat bone marrow mesenchymal stem cells. Mol Med Rep;17:. 1537-1544.
  5. Liu X, Tan N, Zhou Y, Wei H, Ren S. (2017) Delivery of antagomiR204-conjugated gold nanoparticles from PLGA sheets and its implication in promoting osseointegration of titanium implant in type 2 diabetes mellitus. , Int J Nanomedicine;12: 7089-7101.

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miRNA come biomarcatori per le malattie ossee

miRNA come biomarcatori per le malattie ossee

I microRNA (miRNA) sono RNA a singolo filamento e non codificanti che regolano l’espressione dell’mRNA e la quantità di prodotti genici. I miRNA regolano l’espressione dell’mRNA attraverso il legame diretto e influenzano varie vie di segnalazione nell’organismo.

È stato scoperto che i miRNA svolgono ruoli chiave nella proliferazione cellulare, nella differenziazione, nello sviluppo di organi e tessuti e nella regolazione dell’omeostasi ossea. Contribuiscono alla formazione e al riassorbimento osseo, al rimodellamento osseo e alla differenziazione delle cellule ossee.

L’espressione alterata di miRNA distinti può influenzare l’insorgenza di patologie ossee, come l’osteoporosi, l’osteodistrofia renale e i tumori ossei maligni.

I miRNA vengono rilasciati nel flusso sanguigno, in parte attraverso la secrezione attiva, e sono legati a strutture, come proteine ​​ed esosomi, che proteggono i miRNA dalla degradazione. Pertanto, i miRNA sono facili da campionare e sono stabili con un grande potenziale come biomarcatori per diverse malattie, inclusa l’osteoporosi.

Un gruppo di ricercatrici della Medical University of Graz ha realizzato una review, tracciando una panoramica ed evidenziando esempi della rilevanza dei miRNA nelle malattie ossee e sintetizzando le conoscenze sui miRNA come biomarcatori per l’osteoporosi.

 Trascrizione e maturazione dei miRNA
Trascrizione e maturazione dei miRNA

Rimandando all’articolo originale per quanto riguarda l’interessante dissertazione sulla storia dei miRNA, l’origine della loro nomenclatura, la loro biogenesi e le tecnologie di dosaggio miRNA, sintetizziamo gli aspetti della review maggiormente legati all’utilizzo di miRNA come biomarcatori per l’osteoporosi.

miRNA come nuovi biomarcatori

Nel 2008, due gruppi di ricerca indipendenti hanno identificato la presenza di miRNA nel flusso sanguigno. Da allora, sono state trovate molte sequenze diverse nel plasma e nel siero di origine umana e animale. Ad oggi, questi miRNA circolanti sono stati associati a molte malattie, portando alla conclusione che i miRNA sono “impronte digitali” per malattie specifiche. Poiché i miRNA sono stati annotati con successo a specifiche funzioni e malattie biologiche, sono presto diventati una nuova classe di biomarcatori e persino potenziali obiettivi per terapie in future.

miRNA circolanti

Chim et al. nel 2008 sono stati i primi a descrivere gli acidi nucleici fetali circolanti nel flusso sanguigno della madre che sono stati identificati come miRNA. Quasi contemporaneamente, in pazienti con linfoma a cellule B diffuso sono stati rilevati miRNA associati al tumore, il che ha suggerito per la prima volta il loro potenziale utilizzo come biomarcatori. I miRNA circolanti possono essere trovati in diverse forme nel flusso sanguigno: il 90% dei miRNA extracellulari è legato alle proteine ​​AGO come complessi proteici liberi nel flusso sanguigno. Il restante 10% è impacchettato in esosomi, in corpi apoptotici o legati a HDL (lipoproteine ​​ad alta densità). L’origine dei miRNA in circolazione è difficile da rintracciare. Da un lato, i miRNA circolanti derivano da cellule del sangue morto, specialmente nel caso di miRNA legati a corpi apoptotici, ma possono anche essere secreti attivamente dalle cellule viventi. È interessante notare che la stabilità di questi miRNA circolanti è elevata perché gli esosomi sono impermeabili per le RNasi e le proteine ​​AGO proteggono i miRNA dalla distruzione enzimatica. Mantenuti a -70 °C, i miRNA rimangono stabili per almeno un anno.

Poiché i miRNA circolanti sono stabili per un certo periodo e facilmente accessibili dai fluidi corporei, sono candidati ideali per il loro uso come nuovi biomarcatori.

 Panoramica schematica dei complessi circolanti di miRNA
Panoramica schematica dei complessi circolanti di miRNA

Esosomi: miRNA carrier nella malattia ossea

Gli esosomi sono particelle di dimensioni nanometriche attivamente prodotte da un gran numero di cellule e partecipano a vari processi di segnalazione, trasportando, tra le altre molecole, anche i miRNA. Gli esosomi sono prodotti da tutti i tipi di cellule ossee e sembrano svolgere un ruolo importante nel processo di differenziazione di osteoclasti e osteoblasti e, negli ultimi anni, sono stati identificati come importanti mediatori del segnale nel metabolismo osseo.

Poiché gli esosomi e i miRNA associati agli esosomi svolgono ruoli chiave in diversi aspetti del turnover osseo e delle patologie associate, rappresentano strumenti promettenti e versatili per l’identificazione dei biomarcatori. Dal momento che gli esosomi trasmettono una varietà di molecole segnale diverse dalle cellule donatrici alle cellule riceventi e agiscono come i cosiddetti “segnalosomi”, potrebbero essere utili per identificare un gruppo di biomarcatori. Inoltre, gli esosomi si trovano in quasi tutti i fluidi corporei, inclusi sangue, saliva e urina e consentirebbero la raccolta di biopsie liquide non invasive. Sebbene molti studi siano stati in grado di identificare il carico esosomiale che è coinvolto nella formazione ossea e che potrebbe essere in grado di fungere da biomarcatore per la perdita ossea, esistono solo pochi studi che hanno cercato di identificare i marcatori esosomiali nell’osteoporosi.

miRNA come biomarcatori sistemici per l’osteoporosi

È evidente che i miRNA influenzano il metabolismo osseo influenzando la formazione e il riassorbimento osseo prendendo di mira i processi anabolici o catabolici.

Negli ultimi anni, prove crescenti hanno suggerito i miRNA come biomarcatori per l’osteoporosi, poiché sono stati identificati per svolgere un ruolo cruciale nell’interazione tra osteoblasti e osteoclasti.

Monociti circolanti in vivo, una fonte di precursori degli osteoclasti, hanno mostrato un’associazione di miR-133a con l’osteoporosi.

MiR-133a e miR-21 sono stati suggeriti anche come biomarcatori del plasma per l’osteoporosi.

I lisati di sangue intero di donne cinesi in postmenopausa hanno rivelato diversi miRNA regolati in modo differenziato, ovvero miR-130b-3p, miR-151a-3p, miR-151b, miR-194-5p, miR-590-5p e miR-660-5p. Tra questi, miR-194-5p era il più altamente sovraregolato con una variazione di oltre 5 volte. MiR-194-5p è stato identificato come discriminare tra osteoporosi e osteopenia, uno stadio precursore dell’osteoporosi.

In un’altra coorte di pazienti cinesi, miR-125b, miR-30 e miR-5914 circolanti erano sovraregolati e associati all’osteoporosi postmenopausale.

Un altro studio ha analizzato il tessuto osseo di pazienti sani e osteoporotici e ha trovato potenziali miRNA predittivi, vale a dire miR-365, miR-10b e miR-129-3p up-regolati e miRNA-671-5p, miR-141 e miR-25 down-regolato.

Un gruppo di ricerca tedesco ha mostrato che miR-21-5p, miR-93-5p, miR-100-5p e miR-125b-5p erano significativamente sovraregolati in siero, tessuto e cellule ossee di pazienti osteoporotici, indipendentemente dal sesso ma direttamente correlati con BMD.

Tra 790 miRNA che potevano essere rilevati, 82 (~ 10%) sono stati espressi in modo differenziato in uno studio che ha confrontato campioni di ossa di donne fratturate all’anca con un gruppo di controllo di pazienti osteoartritici femminili. Tra gli otto miRNA con i p-values più bassi, due potrebbero essere confermati: miR-320a e miR-483-5p colpiscono entrambi i geni coinvolti nel metabolismo osseo.

Nei pazienti con osteoporosi idiopatica, è stato identificato un diverso miRNA-pattern nel siero. Otto miRNA (miR-152-3p, miR-30e-5p, miR-140-5p, miR-324-3p, miR-19b-3p, miR-335-5p, miR-19a-3p, miR-550a-3p) hanno mostrato un’associazione con le fratture osteoporotiche indipendentemente dall’età e dal sesso dei partecipanti allo studio.

L’osteoporosi è una malattia che causa la perdita ossea generale e anche la mascella e le mandibole sono affette dalla malattia. In topi ovariectomizzati, un modello consolidato per l’osteoporosi postmenopausale, mandibole e femori erano affetti dalla malattia e nella mandibola dei topi il panel di miRNA era regolato in modo differente. I ricercatori hanno suggerito miR-17-5p e miR-133a-3p come candidati biomarcatori più promettenti.

Da notare che,oltre ai miRNA, altre specie di RNA non codificanti, come gli RNA circolari (circRNA), sono anche in grado di aggiungere informazioni sullo stato della malattia. Uno studio ha scoperto che Hsa_Circ_0001275 era negativamente correlato con i T-score della densità ossea e aveva un valore diagnostico significativo nell’osteoporosi postmenopausale. Inoltre, una specie di RNA lunghi non codificanti (lncRNA) chiamati DANCR è stata sovraregolata in pazienti in postmenopausa femminile con bassa BMD.

Molti studi mostrano che i miRNA sono espressi in modo differenziato nell’osteoporosi, tuttavia, questi dati suggeriscono che un solo miRNA regolato in modo differenziato non funzione come biomarker. Piuttosto, differenti pattern di numerosi miRNA possono costruire una previsione basata su algoritmo. Inoltre, diversi gruppi di ricerca trovano modelli di miRNA abbastanza diversi in funzione delle coorti che confrontano. L’approccio retrospettivo della maggior parte degli studi limita il potere predittivo dei risultati. Inoltre, mancano ancora meta-analisi. In caso di profili specifici e replica stabile dei risultati, ci sono alcuni tentativi promettenti di utilizzare i profili miRNA a fini diagnostici (Tabella 1).

 MiRNA selezionati con i loro target e funzioni nel metabolismo osseo

miRNA nella terapia ossea

Poiché i miRNA ospitano funzioni diffuse nello sviluppo osseo e nel contesto della progressione della malattia, i miRNA potrebbero essere un possibile bersaglio per nuove terapie.

Soprattutto gli anti-miR (inibitori di miRNA) e i miRNA-mimici (miRNA sintetici) sono interessanti in termini di uso farmacologico e terapeutico.

Tuttavia, i ricercatori devono esaminare attentamente le potenziali applicazioni terapeutiche dei miRNA, soprattutto in termini di somministrazione sistemica, poiché un miRNA può influenzare diversi target e tessuti distinti.

Un uso terapeutico dei miRNA deve essere esaminato criticamente e l’effetto della potenziale applicazione dei miRNA o del knockdown dei miRNA con anti-miR deve essere verificato mediante la loro caratterizzazione in diversi tessuti.

I miRNA sono attori chiave in vari aspetti del metabolismo osseo. Numerosi studi hanno dimostrato l’importanza della regolazione del miRNA per la differenziazione degli osteoblasti e degli osteoclasti. L’espressione disregolata del miRNA in entrambi i tipi di cellule è coinvolta nello sviluppo di patologie ossee come l’osteoporosi. Dal momento che in circolazione si possono trovare quantità significative di miRNA (e altri RNA non codificanti), essi offrono un potenziale unico per i nuovi biomarcatori: mostrano specificità per alcune malattie e sono molecole facilmente accessibili e stabili. Pertanto, lo studio dei modelli di miRNA nelle biopsie liquide rappresenta una nuova promettente strada per la diagnosi precoce dell’osteoporosi e di altre malattie ossee.

Lo studio

Foessl I, Kotzbeck P, Obermayer-Pietsch B miRNAs as novel biomarkers for bone related diseases Journal of Laboratory and Precision Medicine, December 2019 doi:10.21037/jlpm.2018.12.06

Conservazione parziale dell’aumento di massa ossea con zoledronato dopo sospensione di denosumab

L’interruzione della terapia con denosumab è associata a un rapido ritorno della densità minerale ossea (BMD) al basale e a un maggior rischio di fratture vertebrali multiple.

A oggi, dopo l’interruzione di denosumab, non è stato ancora stabilito un regime di terapeutico da seguire per prevenire la perdita di BMD o fratture vertebrali multiple.

Iniezione di zoledronato dopo sospensione di denosumab

Un gruppo di ricercatori svizzeri, guidato da Judith Everts-Graber del centro OsteoRheuma Bern, ha condotto uno studio osservazionale della durata di otto anni con l’obiettivo di studiare l’effetto di una singola infusione di zoledronato, somministrata sei mesi dopo l’ultima iniezione di denosumab, sull’occorrenza di fratture e sulla perdita di BMD. Lo studio “A single infusion of zoledronate in postmenopausal women following denosumab discontinuation results in partial conservation of bone mass gains” è stato pubblicato sul J. Bone Miner Res.

Sono stati analizzati i dati relativi a 120 donne con osteoporosi postmenopausale trattate con 60 mg di denosumab ogni sei mesi per 2-5 anni (durata media tre anni) e quindi con 5 mg di zoledronato sei mesi dopo l’ultima iniezione di denosumab.

I ricercatori hanno valutato le fratture vertebrali tramite DXA prima della prima e dopo l’ultima iniezione di denosumab e a una mediana di 2,5 anni dopo l’interruzione del denosumab.

All’interno della coorte, 97 donne hanno ricevuto da quattro a sei iniezioni di denosumab (81%), 11 hanno ricevuto tra sette e nove iniezioni (9%) e 12 donne hanno ricevuto dieci iniezioni di denosumab (10%).

Dopo l’interruzione della terapia con denosumab, tre donne hanno subito una singola frattura vertebrale sintomatica tra 1 e 3 anni dopo l’ultima iniezione, per un tasso di 1,1 per 100 pazienti-anno. Nessuna donna ha sviluppato fratture vertebrali multiple. Quattro donne hanno subito fratture periferiche, per un tasso di 1,4 per 100 pazienti-anno.

Dopo l’interruzione del denosumab, i ricercatori hanno osservato una riduzione della BMD in tutti i siti per la coorte. Tutta la perdita ossea si è verificata entro i primi 18 mesi dall’infusione di zoledronato. I ricercatori hanno osservato che il 66% del guadagno della BMD era trattenuto nella colonna lombare (95% CI, 57-75), il 49% era conservato nell’anca totale (95% CI, 31-67) e il 57% era conservato nel collo femorale (IC al 95%, 25-89).

Non si sono registrate differenze significative di riduzione di BMD tra le pazienti con incrementi della BMD >9% vs. <9%, durante il trattamento con denosumab.

Le donne con o senza precedente trattamento con bifosfonati e le donne con o senza una vacanza farmacologica hanno avuto una riduzione percentuale simile della BMD della colonna lombare dopo l’interruzione del trattamento con denosumab.

Possibile regime terapeutico per il trattamento a lungo termine dell’osteoporosi

I ricercatori hanno concluso che una singola infusione di 5 mg di zoledronato dopo un ciclo di trattamento con denosumab della durata da due a cinque anni ha permesso di trattenere più della metà della BMD acquisita e non è stata associata a fratture vertebrali multiple, come è invece successo in pazienti che hanno interrotto denosumab senza successivo trattamento con bifosfonati.

Un’unica infusione di zoledronato nelle donne in postmenopausa a seguito della sospensione di denosumab porta alla conservazione parziale dell’aumento di massa ossea ottenuto con la terapia

Il regime terapeutico suggerito dallo studio può rappresentare una valida indicazione per  l’identificazione di strategie sequenziali di trattamento a lungo termine per l’osteoporosi.

Lo studio

Everts‐Graber, J., Reichenbach, S., Ziswiler, H., Studer, U. and Lehmann, T. (2020),    A Single Infusion of Zoledronate in Postmenopausal Women Following Denosumab Discontinuation Results in Partial Conservation of Bone Mass Gains. J Bone Miner Res. 28 January 2020. Accepted Author Manuscript. doi:10.1002/jbmr.3962

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Quale terapia dopo sospensione di denosumab?

Rischio di infezioni durante il trattamento con denosumab per l’osteoporosi

Un gruppo di ricercatori israeliani ha effettuato una revisione sistematica e una metanalisi pubblicate sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism per valutare il rischio di eventi avversi gravi di infezioni (serious adverse events of infections – Saei) durante il trattamento con denosumab per l’osteoporosi. Gli endpoint di sicurezza, incluso il rischio di infezione, sono stati valutati come esiti secondari in studi randomizzati controllati del farmaco.

Nella revisione sono stati inclusi tutti gli studi randomizzati di denosumab (60 mg ogni 6 mesi) rispetto a qualsiasi altro comparatore. Sono stati esclusi studi clinici per la prevenzione di eventi scheletrici su pazienti oncologici. Sono stati considerati studi pubblicati fino al 27 maggio 2019 su PubMed e Cochrane Central Register of Controlled Trials, per un totale di 33 studi (22.253 pazienti).

Due revisori hanno applicato indipendentemente i criteri di selezione ed estratto i dati. I rapporti di rischio (RR) con intervalli di confidenza (CI) al 95% sono stati raggruppati utilizzando un modello a effetto fisso. L’analisi di sensibilità è stata basata sul rischio di distorsione sistematica.

Maggior incidenza di Saei legati all’uso di denosumab

Durante il trattamento con denosumab, rispetto al trattamento con qualsiasi comparatore, si è verificata una maggior incidenza di eventi avversi gravi di infezione (RR, 1,21; IC al 95%, 1,04-1,40; I2=0%), principalmente a carico di orecchio, naso e gola (RR, 2,66; IC al 95%, 1,20- 5,91) e di natura gastrointestinale (RR, 1,43; IC 95%, 1,02-2,01).

Nell’analisi di sensibilità, il rapporto di rischio di contrarre infezioni di qualsiasi tipo (RR, 1,03; IC 95%, 0,99-1,06) e di mortalità correlata all’infezione (RR, 0,50; IC 95%, 0,20-1,23) è simile nei diversi gruppi.

Risultati meritevoli di considerazione prima della prescrizione di denosumab

I ricercatori concludono che durante la terapia con denosumab per il trattamento dell’osteoporosi, il rischio di reazioni avverse gravi di contrarre infezioni è maggiore rispetto a quello registrato nei gruppi di controllo. Tuttavia, il rischio complessivo per qualsiasi infezione o mortalità correlata è simile nei gruppi di confronto. Questi risultati meritano di essere presi in considerazione prima dell’inizio della terapia.

Lo studio

Talia Diker-Cohen, Dana Rosenberg, Tomer Avni, Daniel Shepshelovich, Gloria Tsvetov, Anat Gafter-Gvili, Risk for Infections During Treatment With Denosumab for Osteoporosis: a Systematic Review and Meta-analysis, The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 03 January 2020, https://doi.org/10.1210/clinem/dgz322

Interazione tra microbiota intestinale e ossa

Recentemente è stato scoperto che il microbiota intestinale, influenzando il metabolismo dell’ospite, le sue funzioni immunitarie e la secrezione di ormoni, impatta sul metabolismo osseo.


Carla Lertola
Carla Lertola, dietologo

Le ricerche che studiano la complessa relazione tra il microbioma intestinale e il proprio ospite sono numerose e ultimamente sono sempre di più gli studi che sono stati condotti per ricercare una possibile correlazione tra microbioma intestinale e metabolismo osseo. Quest’ultimo è infatti influenzato da molti fattori tra cui l’infiammazione, i livelli di assunzione di alcuni nutrienti attraverso la dieta (es. vitamina D, calcio, fosforo…) e lo stato ormonale. Solo recentemente si è invece scoperto che la microflora intestinale è in grado di influenzare anche il metabolismo osseo modificando quello dell’ospite, la funzionalità immunitaria e la secrezione ormonale. La review “Microbial osteoporosis: The interplay between the gut microbiota and bones via host metabolism and immunity” ha esaminato i dati di alcuni rilevanti studi che hanno ricercato la relazione tra microflora intestinale e salute dell’osso e potrebbe aprire le porte a nuove ricerche in tale ambito.

Carla Lertola, dietologa


Un gruppo di ricercatori cinesi ha condotto un’ampia analisi della letteratura per valutare gli effetti del microbiota intestinale sul metabolismo osseo, al fine di trarne nuove idee e target per il trattamento clinico dell’osteoporosi.

Oltre a calcio e vitamina D, il cui assorbimento è particolarmente importante per il mantenimento di ossa sane, sono stati scoperti altri nutrienti utili per la salute delle ossa.

Ad esempio, i probiotici possono ridurre il pH intestinale e migliorare l’assorbimento del calcio. Assunti durante la crescita, fruttoligosaccaridi, galattosio, fibra di mais solubile (SCF) e altri probiotici possono aumentare l’assorbimento del calcio nell’uomo.

Rispetto a topi ovariectomizzati cui non sono stati somministrati probiotici, nel modello murino carente di estrogeni ma con alimentazione integrata con Lactobacillus reuteri è stato osservato un significativo aumento di massa ossea corticale.

I probiotici possono inibire l’attività degli osteoclasti e ridurre l’infiammazione. Inoltre, possono favorire l’assorbimento del calcio e aumentare significativamente l’espressione dei marker osteogenici.

I prebiotici possono promuovere l’assorbimento dei minerali e aumentare la mineralizzazione ossea.

Effetti del microbiota intestinale sul metabolismo e sull’omeostasi ossea

Una dieta ricca di fibre e fruttoligosaccaridi può aumentare il numero di bifidobatteri presenti nel microbiota intestinale. Gli studi suggeriscono che i probiotici possono influenzare il metabolismo dell’ospite, proteggendo le cellule epiteliali intestinali e mantenendo l’integrità dello strato mucoso.

Confrontando topi privi di germi (GF) con topi nutriti convenzionalmente, uno studio ha dimostrato che il micobiota intestinale, influendo sul metabolismo dell’ospite, influenza la densità ossea. I topi GF hanno ottenuto un aumento del 50% del volume osseo trabecolare e corticale del femore.

Lipopolisaccaridimmuni

Disordini nel microbiota intestinale possono influire sulla permeabilità delle cellule dell’intestino aumentandone il pH, riducendo l’assorbimento di calcio e accrescendo l’immissione in circolo di lipopolisaccaridi (Lps). Questi ultimi – che sono stati associati a infiammazioni croniche low-level – possono condurre a disturbi metabolici e infiammazioni e giocano un ruolo chiave nel metabolismo osseo. Diversi esperimenti sui ratti hanno dimostrato che elevate dose di Lps provocano una riduzione del volume e la perdita di tessuto osseo suggerendo che gli Lps possano ridurre la densità minerale. In particolare, sono state rilevate la perdita di tessuto osseo femorale, la riduzione del volume trabecolare delle metafisi tibiali prossimali, la diminuzione della densità minerale nelle vertebre lombari e una upregulation dei mediatori infiammatori (interleuchina (IL) -1, cicloossigenasi (COX) -2, e TNF) nella regione metafisaria.

Acidi biliari

Il microbioma gioca un ruolo significativo anche nel metabolismo degli acidi biliari, soprattutto per la sua influenza sulla sintesi degli acidi secondari come l’acido deossicolico, dovuta a batteri anaerobici presenti nell’intestino. Gli acidi biliari secondari, a loro volta, possono avere effetto sul metabolismo osseo. In particolare, l’acido litocolico monoidrossilato (LCA) è una sorta di ligando di VDR, il recettore della vitamina D che ne regola gli effetti biologici, tra i quali la gestione della codifica dei geni della osteoporina, della osteocalcina e di RANKL, che controlla direttamente il ricambio osseo. Negli studii, LCA ha ridotto la capacità della vitamina D di attivare i geni dell’osteocalcina e del RANKL rispettivamente del 79% e del 56%. A causa dell’effetto su VDR e della tossicità sugli osteoblasti, l’LCA potrebbe giocare un ruolo anche nella patogenesi dell’osteoporosi. Su modello murino, inoltre, LCA ha causato danni ai mitocondri degli osteoblasti anche in concentrazioni di 100|M e ha ridotto del 72% l’espressione dell’enzima 1a, 25-diidrossitamina D3 24-idrossilasi (CYP24A1) coinvolto nel metabolismo della stessa vitamina D.

Acidi grassi a catena corta (SCFA)

Gli acidi grassi a catena corta – prodotti nell’intestino per fermentazione di carboidrati indigeribili e di proteine – potrebbero avere un effetto sul metabolismo osseo a causa della loro influenza sulla sintesi del fattore di crescita insulinosimile IGF-1, un ormone noto per avere effetto sulla crescita ossea. Negli studi su topi, infatti, questo ormone aumenta la sua concentrazione in seguito a somministrazione di SCFA, e lo stesso effetto si ottiene trapiantando microbiota normale in topo GF (germ free) o somministrando antibiotici che colpiscono i batteri responsabili della fermentazione che genera SCFA. Gli effetti dell’IGF-1 sul metabolismo osseo, comunque, non sono chiari dato che i ricercatori hanno ottenuto risultati spesso discordanti. Le differenze riscontrate potrebbero essere legate alla durata della colonizzazione, all’età o al ceppo dei topi utilizzati nei test.

Effetto del microbiota sul sistema immunitario e sull’omeostasi ossea

Il microbiota intestinale è essenziale per la funzione e la maturazione del sistema immunitario, il quale, a sua volta, potrebbe essere significativo per l’equilibrio dello scheletro validando l’evoluzione dal campo dell’immunologia ossea alla “osteomicrobiologia“, termine coniato nel 2015 da Ohlsson e il suo team.

Il microbiota intestinale modula il metabolismo dell’ospite e lo sviluppo dello stato immunitario. Grazie a questa relazione potrebbe intervenire anche nella regolazione della massa ossea.

Studi condotti su topi in condizioni sterili hanno infatti evidenziato una maggior quantità di osso trabecolare e un minor numero di cellule CD4+T e TNF (cellule progenitrici degli osteoclasti nel midollo osseo) rispetto al gruppo di controllo cresciuto in condizioni normali. Altri studi riportano la possibilità che i probiotici aumentino la densità ossea e riducano l’infiammazione intestinale (più negli uomini che nelle donne) e hanno analizzato la stretta relazione tra perdita ossea e condizioni infiammatorie.

Cellule Th17

Producendo interleuchina-17 (IL-17) e molte altre citochine, come IL-22, le cellule Th17 sono importanti per l’attivazione delle risposte immunitarie innate. Inoltre, svolgono un ruolo significativo nella resistenza delle mucose contro batteri e funghi. Alcuni studi sui topi testimoniano l’influenza dell’ambiente intestinale sulle cellule Th17 grazie all’effetto dei batteri filamentosi segmentati. Il trapianto di questi batteri in topi GF ha infatti indotto un aumento nel numero di cellule Th17. Le cellule Th17 sono un sottoinsieme di cellule CD4+T che può condizionare il metabolismo osseo, ad esempio può produrre un effetto pro-osteoclastogenesi e svolge un ruolo chiave nella perdita di osso in carenza di estrogeni. Nelle donne, l’aumento del siero IL-17 è strettamente correlato all’osteoporosi e la sua eliminazione (o impiego dell’anticorpo anti-IL17) può prevenire la perdita ossea.

Cellule Treg

Le cellule CD4+FOXP3+Treg sono stabilmente presenti nella mucosa intestinale e hanno effetto sul sistema immunitario intestinale e sistemico. La carenza (o l’inattivazione) di cellule Treg è associata ad alcune malattie infiammatorie croniche. L’espansione delle Treg può essere indotta dalla presenza di batteri della classe Clostridia, un gruppo normalmente presente nel tratto intestinale e nella vagina umani. I Treg influiscono sul metabolismo osseo regolando la formazione degli osteoclasti mediante secrezione di IL-4, IL-10 e TGF-β e bloccando il riassorbimento osseo.

Recettori NOD1 e NOD2

Nell’intestino il sistema immunitario è in grado di riconoscere una varietà di agenti patogeni attraverso specifici recettori di riconoscimento PRR, di cui fa parte la famiglia di recettori di tipo NOD (NLR). Nel citoplasma, la rilevazione batterica viene effettuata da NLR, NOD1 e NOD2.
In topi GF la massa ossea corticale aumenta in modo significativo rispetto ai topi alimentati in modo convenzionale ma non negli individui GF che hanno specificamente disattivato NOD1 o NOD2. Il recettore NOD2, in particolare, sembra legato al processo di riassorbimento. Nei topi con deficit di NOD2, infatti, il riassorbimento osseo risulta significativamente ridotto, così come l’attività degli osteoclasti. Per contro, la stimolazione del NOD2 da parte del suo agonista, il dipeptide muramile, non risulta influente sull’osteoclastogenesi ma favorisce la capacità di riassorbimento osseo. Secondo altri studi, il recettore NOD2 potrebbe indurre l’osteoclastogenesi quando negli osteoblasti aumenta l’espressione del gene RANKL.

Wnt

La via di segnale Wnt svolge un ruolo vitale nello sviluppo precoce degli embrioni animali, nella formazione degli organi, nella rigenerazione dei tessuti e in altri processi fisiologici. Il pathway Wnt/β-catenina può essere attivato da alcuni batteri come il Fusobacterium nucleatum e Bacteroides fragilis. Anche la funzione osteoblastica risulta regolata, dall’infanzia alla maturità, dalla segnalazione Wnt/β-catenina. Per esplorare la funzione di questo percorso sugli osteoblasti, la β-catenina rappresenta un obiettivo chiave, dato il suo ruolo nel pathway della Wnt/β-catenina, che regola la trascrizione del gene target Wnt. Nei topi è stato dimostrato che nel passaggio dalla fase immatura a quella di maturità, l’impoverimento della β-catenina può inibire la differenziazione degli osteoblasti e aumentare la differenziazione degli osteoclasti, con conseguente diminuzione della massa ossea.

Effetti del microbiota sull’omeostasi ormonale e ossea

Il microbiota intestinale svolge un ruolo significativo sul metabolismo osseo attraverso molti ormoni, tra cui il più noto è il GLP-1, che svolge un ruolo importante nel ricambio osseo. Ma non è l’unico.

Ormoni sessuali

Gli studi sull’associazione tra microbiota intestinale e ormoni sessuali in persone sane hanno condotto a molti risultati contrastanti, data anche la diversa composizione del microbioma nei due generi in termini di specie e funzioni. Nei maschi, ad esempio, sono risultati maggiormente abbondanti Ruminococco, Bacteroides, Eubacterium e Blautia mentre nelle femmine era più presente Treponema. Tuttavia, queste differenze potrebbero anche essere dovute allo stile di vita specifico e a fattori culturali legati al genere, piuttosto che agli ormoni sessuali. È stato anche riportato che i microbioti intestinali possono influenzare l’equilibrio degli steroidi e, in alcune specie, hanno la capacità di metabolizzare gli ormoni sessuali e di influenzarne l’attività.
Gli ormoni sessuali, a loro volta, hanno effetto sul metabolismo osseo. Numerosi studi hanno confermato in particolare il ruolo degli estrogeni, per i quali sono presenti recettori su osteociti, osteoblasti, osteoclasti e cellule stromali del midollo osseo. Gli estrogeni sono risultati in grado di indurre l’apoptosi degli osteoclasti e di inibire quella degli osteoblasti ed è emerso che, in carenza di estrogeni, il ciclo di ricambio osseo viene attivato più frequentemente. Oltre ad avere un’influenza diretta sulle cellule ossee, gli estrogeni hanno effetto sul ciclo di ricambio osseo anche in modo indiretto, regolando lo stress ossidativo e il sistema immunitario. L’eliminazione degli estrogeni ha ridotto la capacità degli osteoblasti maturi, stimolando la produzione di citochine proinfiammatorie come TNF, IL-7 e IL-1. Il TNF, in particolare, gioca un ruolo importante nella perdita ossea nei topi ovariectomizzati attraverso l’attivazione dei recettori di NF-kB (RANK) e l’induzione delle cellule Th17 (vedi paragrafo “Cellule Th17”).
Le ricerche hanno dimostrato anche un ruolo degli androgeni (AR). Gli AR inibiscono il riassorbimento osseo e risultano essenziali per la maturazione dell’osso trabecolare durante la crescita. Assumono inoltre un ruolo significativo nella protezione dello spessore corticale e nella resistenza all’invecchiamento. I meccanismi con cui gli ormoni sessuali influenzano il metabolismo osseo sono molto complessi e saranno necessari ulteriori studi per confermare se i microbioti intestinali possono influenzare direttamente il metabolismo osseo agendo su di essi.

Serotonina (5-idrossitriptamina, 5-HT)

Se prodotta in circolazione, la serotonina inibisce la formazione delle ossa mentre se prodotta come neurotrasmettitore nel cervello ha un effetto positivo sulla massa ossea aumentandone la formazione e inibendone l’assorbimento. Più del 90% delle 5-HT sono sintetizzate nell’intestino umano dove vengono attivati 14 diversi sottotipi di recettori 5-HT localizzati su enterociti, neuroni enterici, e cellule immunitarie. La 5-HT di derivazione intestinale regola diverse funzioni, tra cui il motore enterico, i riflessi secretori, le risposte immunitarie e lo sviluppo osseo. Negli osteoblasti ci sono tre recettori della serotonina, Htr1b, Htr2a e Htr2b. Nei topi femmina, l’inibizione dell’attività di Htr2b può ridurre la formazione ossea e portare a una riduzione della densità ossea. La combinazione di serotonina con Htr1b sulla superficie degli osteoblasti è risultata inibire la produzione di cAMP che tra le altre cose si traduce in una ridotta espressione dei geni della ciclina e in una minor proliferazione degli osteoblasti. Altri studi confermano che gli osteoblasti sono i bersagli diretti della serotonina e suggeriscono che la proliferazione sia regolata dai segnali Htr1b/PKA/CREB/cicline.

Leptina

La leptina è un ormone che regola processi fisiologici come la massa ossea, il dispendio energetico e l’appetito. Alcune evidenze collegano i microbioti a questo ormone. L’impiego di vancomicina nei ratti, ad esempio, può causare una forte diminuzione dei livelli di leptina e l’ormone risulta positivamente correlato alla presenza di un gran numero di specie di batteri (come Lactococcus, Mucispirillum, Lactobacillus e Bifidobacterium) e negativamente correlata ad altri (come Clostridium, Prevotella, Bacteroides e Allobaculum). La leptina può avere un effetto sul metabolismo osseo agendo su recettori (ObRb) situati sul medesimo nucleo del tronco encefalico che secerne serotonina, la quale ha effetto positivo sulla massa ossea). Quando la leptina si lega a ObRb inibisce l’espressione del gene Tph2 e riduce il rilascio di serotonina. L’eliminazione di questi recettori serotoninergici produce fenotipi murini con elevata massa ossea rispetto all’eliminazione dei recettori per la leptina situati sul nucleo arcuato (ARC) o nell’ipotalamo ventrale (VMH). Sul VMH, inoltre, sono presenti recettori della serotonina (Htr2c) la cui eliminazione provoca una grave perdita ossea. Il fenomeno è causato dalla downregulation della formazione ossea e upregulation del riassorbimento osseo legato all’aumento dell’attività del nervo simpatico.

Il microbiota intestinale può regolare il metabolismo osseo

In conclusione, i componenti dei microbioti intestinali possono regolare il metabolismo osseo influenzando il metabolismo dell’ospite, il sistema immunitario e l’ambiente endocrino, il che può suggerire nuove idee e obiettivi per il trattamento clinico dell’osteoporosi.

Tuttavia, la maggior parte dei risultati devono essere ulteriormente convalidati con studi sull’uomo, dato che i risultati finora sono stati ricavati principalmente da studi su animali.

La ricerca

Lishan Li, Shitao Rao, Yanzhen Cheng, Xiaoyun Zhuo, Caihong Deng, Ningning Xu, Hua Zhang, Li Yang Microbial osteoporosis: The interplay between the gut microbiota and bones via host metabolism and immunity Microbiologyopen. 2019 Aug; 8(8): e00810. Published online 2019 Apr 18. doi: 10.1002/mbo3.810

Integrazione di vitamina D, esiti sulla salute delle ossa

Un gruppo di ricercatori della Division of Endocrinology, Diabetes and Hypertension, Department of Medicine, Brigham and Women’s Hospital Boston (Massachusetts) ha condotto uno studio per verificare se la supplementazione di vitamina D possa essere effettivamente utile per migliorare la densità minerale ossea (BMD) e/o la struttura del tessuto osseo. Infatti, sebbene l’integrazione di vitamina D sia utilizzata per promuovere la salute delle ossa nella popolazione generale, i dati ricavati da studi randomizzati controllati non sono stati coerenti.

Lo studio VITAL

Per verificare se l’integrazione giornaliera di vitamina D3 migliora la BMD e/o la struttura ossea, i ricercatori del Massachusetts hanno condotto lo studio clinico VITamin D e OmegA-3 TriaL (VITAL), randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo, di supplementazione di vitamina D3 (2.000 UI/giorno) e/o di acidi grassi omega-3 (1 g/giorno) in 25.871 adulti in tutta la nazione.

Questo studio ausiliario ha incluso un sottogruppo di 771 partecipanti (uomini di età ≥50 anni e donne di età ≥55 che non stavano assumendo farmaci per il trattamento di patologie ossee) valutati al basale e al follow-up di due anni (ritenzione in trattamento pari all’89%).

I livelli totali di 25(OH)D sono stati misurati mediante spettrometria di massa abbinata a cromatografia liquida. I livelli di 25(OH)D libera (FVD) sono stati misurati usando il saggio ELISA.

Gli endpoint primari erano cambiamenti a due anni della densità minerale ossea areale (aBMD) a livello della colonna vertebrale, dell’anca e dell’intero corpo determinati da assorbimetria a raggi X a doppia energia. Gli endpoint secondari erano cambiamenti a due anni della BMD volumetrica (vBMD) e dello spessore corticale di radio e tibia valutati mediante tomografia computerizzata quantitativa periferica.

La supplementazione con vitamina D3 rispetto al placebo non ha avuto alcun effetto sulle variazioni a due anni di aBMD a livello della colonna vertebrale (0,33% vs. 0,17%; p=0,55), collo del femore (-0,27% vs. -0,68%; p=0,16), totale anca (-0,76% vs. -0,95%; p=0,23), o tutto il corpo (-0,22% vs. -0,15%; p=0,60), o su misure della struttura ossea.

Gli effetti non variavano per sesso, etnia, indice di massa corporea o livelli di 25(OH)D.

L’integrazione giornaliera con vitamina D3 effettuata per due anni in adulti sani non selezionati per insufficienza di vitamina D non ha migliorato, rispetto al placebo, la BMD o la struttura del tessuto osseo.

Con supplementazione di vitamina D3, i partecipanti con livelli di FVD al basale al di sotto della mediana (<14,2 pmol/L) hanno mostrato un lieve aumento della aBMD della colonna vertebrale (0,75% vs. 0%; p=0,043) e attenuazione della perdita di aBMD totale dell’anca (-0,42% vs -0,98%; p=0,044). Quindi merita di essere ulteriormente studiato se la valutazione dei livelli di FVD al basale possano aiutare a identificare i soggetti che hanno maggiori probabilità di beneficiare dell’integrazione con vitamina D3.

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Osteoporosi, tolleranza al glucosio e diabete di tipo 2

Il diabete mellito di tipo 2 è una malattia metabolica cronica caratterizzata da un elevato livello di glucosio nel sangue e resistenza all’insulina. Sebbene i pazienti con prediabete e diabete di nuova diagnosi abbiano un rischio di frattura da normale a ridotto, crescenti evidenze dimostrano che i pazienti con diabete di tipo 2 conclamato hanno un rischio di frattura più elevato, nonostante una densità minerale ossea da normale a aumentata (BMD) [1-3]. Poiché la BMD è solo uno dei fattori che contribuiscono alla resistenza ossea, questo aumento del rischio di fratture può essere causato da altri fattori che non vengono rilevati dalle misurazioni della BMD.

Livelli di glucosio e salute delle ossa

Un gruppo di ricercatori cinesi ha quindi condotto lo studio The Prevalence of Osteoporosis Tested by Quantitative Computed Tomography in Patients With Different Glucose Tolerances, pubblicato su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, per confrontare le caratteristiche ossee rilevate utilizzando la tomografia computerizzata quantitativa (QCT) e altri fattori metabolici rilevanti per la salute delle ossa in soggetti cinesi con normale tolleranza al glucosio, ridotta tolleranza al glucosio e diabete e per valutare l’associazione tra i diverso livelli di glucosio rilevati con analisi di laboratorio e le caratteristiche ossee rilevate da QCT.

Popolazione studiata

L’indagine trasversale è stata condotta a Pinggu, in Cina, su 4001 partecipanti, il 47% uomini. È stato effettuato il test di tolleranza al glucosio orale ed è stata utilizzata QCT per misurare la densità minerale ossea volumetrica (vBMD) delle vertebre lombari da 2 a 4.

Tra i 4001 partecipanti ammissibili, l’età media era di 47,41 ± 11,86 anni. La prevalenza dell’osteoporosi valutata dal QCT era del 10,6% nel gruppo (2211 partecipanti) con normale tolleranza al glucosio (NGT), del 14,8% nel gruppo (1161 partecipanti) con ridotta tolleranza al glucosio (IGT) e del 16,9% nel gruppo (629 partecipanti) con diabete di tipo 2. L’analisi di regressione lineare multivariata ha mostrato che l’età era associata negativamente alla vBMD, mentre l’indice di massa corporea e il rapporto vita-fianchi erano positivamente associati alla vBMD in tutti i partecipanti. Tuttavia, i livelli di emoglobina A1c, glicemia a digiuno e glucosio postprandiale non sono stati associati a vBMD dopo aggiustamento per sesso, età, pressione arteriosa sistolica e diastolica, indice di massa corporea, colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo HDL e LDL, FT4, FT3, TSH, rapporto albumina-creatinina nelle urine, creatinina e acido urico.

Conclusioni dello studio

Nonostante le limitazioni dichiarate dai ricercatori, legate principalmente all’assenza di informazioni in merito alla dieta e allo stile di vita dei partecipanti, e alla conseguente cautela necessaria, lo studio dimostra che i livelli di emoglobina glicata HbA1c, glicemia a digiuno (FPG) e glucosio postprandiale (PPG) non sono associati a vBMD, dopo aggiustamento per i fattori metabolici nel campione cinese.

La prevalenza dell’osteoporosi valutata dal QCT è stata del 10,6% nel gruppo NGT, del 14,8% nel gruppo IGT e del 16,9% nel gruppo DM. I livelli di HbA1c, FPG e PPG non sono stati associati a vBMD dopo aggiustamento per i fattori metabolici.

Lo studio

Yufeng Li, Zihou Zhao, Liangying Wang, Zuodi Fu, Linong Ji, Xiaohong Wu, The Prevalence of Osteoporosis Tested by Quantitative Computed Tomography in Patients With Different Glucose Tolerances, The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 105, Issue 1, January 2020

Riferimenti bibliografici

  1. Vestergaard P. Discrepancies in bone mineral density and fracture risk in patients with type 1 and type 2 diabetes–a meta-analysis. Osteoporos Int. 2007;18(4):427–444.
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  3. Moayeri A, Mohamadpour M, Mousavi SF, Shirzadpour E, Mohamadpour S, Amraei M. Fracture risk in patients with type 2 diabetes mellitus and possible risk factors: a systematic review and meta-analysis. Ther Clin Risk Manag. 2017;13:455–468.