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Bifosfonati: alendronato

L’acido alendronico o alendronato è una molecola inclusa all’interno della famiglia dei bifosfonati, farmaci che espletano la propria azione farmacologica interferendo con il ciclo e l’attivazione degli osteoclasti, cellule appartenenti alla linea monocito-macrofagica deputate al riassorbimento della matrice ossea. Queste molecole vengono utilizzate nel trattamento di condizioni che portano a perdita di massa ossea, distinguibili scolasticamente in due gruppi sulla base della severità. Patologie tendenzialmente molto gravi di sostanziale ambito oncologico (mieloma, metastasi ossee) e condizioni a gravità variabile, che comprendono ad esempio la malattia ossea di Paget e la comune osteoporosi, la quale è a sua volta classificabile in forme diverse per causa e anche per severità.

Allo stesso modo, seppur senza che vi sia una corrispondenza perfetta, sono disponibili bifosfonati a somministrazione endovenosa e a somministrazione orale. Non vi è perfetta corrispondenza tra queste due classificazioni pratiche, dato che la scelta della molecola e della relativa formulazione dipendono da numerose variabili oltre alla patologia: ad esempio, le caratteristiche farmacocinetiche della singola molecola e la compliance del paziente.

Alendronato, bifosfonati per via orale: indicazioni

L’alendronato rappresenta un esempio bifosfonato a somministrazione orale. Tra le altre è disponibile sul mercato nella forma di compressa da 70 mg, quella maggiormente diffusa.

L’indicazione clinica principale consiste nel trattamento dell’osteoporosi nella sua forma principale, ovvero quella postmenopausale. La molecola induce una riduzione del, rischio fratturativo a livello di vertebre e anca. In tal caso la posologia raccomandata è quella di una compressa (pari appunto a 70 mg) a cadenza settimanale, da assumere una volta alzatisi e prima di qualsiasi bevanda o alimento. La contemporanea assunzione di cibi e liquidi (forse addirittura la semplice acqua minerale) andrebbe infatti a ridurre l’assorbimento della molecola a livello intestinale.

Una seconda possibile indicazione è rappresentata dalla già citata malattia di Paget, detto anche osteite deformante, seconda più comune malattia metabolica dell’osso, con prevalenza (a differenza dell’osteoporosi) nel sesso maschile. In questo senso è necessario guardare al mondo anglosassone e, in particolare, agli Stati Uniti, dove la terapia della malattia di Paget è principalmente per os e dove, anche per questo, l’alendronato è il bifosfonato in assoluto più utilizzato. In questo caso, lo schema consigliato prevede una somministrazione quotidiana di 40 mg di acido alendronico per 6 mesi mesi. I dati indicano una normalizzazione del metabolismo osseo nel 60-80% dei pazienti, anche se già trattati con altri bifosfonati o resistenti ad essi.

Considerando controindicazioni ed effetti indesiderati, si segnalino rispettivamente le problematiche renali e quelle gastrointestinali.

L’uso del farmaco è scosigliato per mancanza di dati nei pazienti che riportano una marcata compromissione della funzionalità renale (clearence della creatinina inferiore a 35 ml/min).

Tra gli effetti più comuni riportati, si ricordino in modo particolare dolore addominale e, in alcuni casi, forme di interessamento del tratto digerente superiore (disfagie).

Riferimenti bibliografici relativi a Alendronato

https://www.mayoclinic.org/drugs-supplements/alendronate-oral-route/side-effects/drg-20061571

Dolgitser M et al. Bisphosphonate use in the treatment of Paget’s disease of the bone: analysis of claims in a large database. Manag Care Interface 2007; 20:33-40. (tratto da

 

Ecografia calcagno: ruolo diagnostico della quantitative ultrasound

L’osteoporosi è una patologia caratterizzata da un deficit di massa ossea e da un progressivo deperimento microarchitetturale del tessuto osseo. Il quadro rende l’osso più fragile e aumenta, di conseguenza, il rischio fratturativo, il che comporta conseguenze negative in termini di mortalità e morbilità.

Attualmente il gold standard, nonché unico mezzo diagnostico riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è rappresentano dall’assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA): l’osteoporosi viene definita come una densità ossea inferiore oltre le 2.5 deviazioni standard dal valore di riferimento. L’esame permette anche di impostare la terapia ma presenza comunque alcune limitazioni che ne impediscono un utilizzo come strumento di screening di primo livello e/o nel corso di studi epidemiologici.

In questo senso, l’indagine ultrasonografica rappresenta una possibilità concreta.

Ultrasuoni ed ecografia del calcagno

Gli ultrasuoni coprono le frequenze sonore che superano il range dell’udibilità umana, ossia superiori ai 20 kHz. Le onde ultrasonore a uso medicale sono tendenzialmente superiori anche al range udibile per gli animali.

La maggior parte delle discipline mediche assiste oggi a un incremento di interesse per quella che è già la principale applicazione degli ultrasuoni, ovvero l’imaging ecografico.

La metodica in oggetto, detta quantitative ultrasound (QUS) sta ricevendo una maggiore attenzione nel periodo recente.

Le onde utilizzate hanno una frequenza compresa tra i 200 e i 1500 kHz e sono in grado di attraversare l’osso interessato orizzontalmente o longitudinalmente. Diversamente dai macchinari ecografici, i device QUS sono normalmente dotati due sonde, una emettitrice e una ricevente, in mezzo alle quali viene posizionato il segmento osseo interessato. In questo senso possono essere indagate le ossa dell’avambraccio, la tibia e, soprattutto, falangi calcagno. La presente trattazione si concentra su quest’ultima metodica in particolare, l’unica accettata dalla Società Internazionale di Densitometria Clinica (ISCD) in quanto maggiormente documentata. Il calcagno è osso più voluminoso del tarso e la singola struttura sulla quale maggiormente si scarica il peso della stazione eretta. È composto al 95% da osso trabecolare e presenta due superfici laterali che facilitano il passaggio degli ultrasuoni.

La QUS fornisce due parametri, indici indiretti di massa e integrità strutturale ossea: la velocità (speed of sound SOS), rapporto – in m/s – fra tempo di trasmissione del suono e lunghezza del segmento osseo, e l’attenuazione (broadband ultrasound attenuation BUA) del segnale in funzione della frequenza – unità di misura dB/MHz. I sistemi più aggiornati forniscono parametri derivati, come la velocità dipendente dall’ampiezza (AD-SOS), l’indice della stiffness (SI, ossia la rigidità dei tessuti attraversati), l’indice ecografico quantitativo (QUI) e l’anche la stima della densità minerale ossea (eBMD). Studi cross-sezionali e prospettici hanno evidenziato la correlazione significativa tra gli gli indici QUS e la vera BMD, sottolineando la validità soprattutto nella popolazione a rischio osteoporotico. Il lavoro di Varenna, ad esempio, ne ha rilevato l’associazione con una storia di fratture non spinali in un pool di ben 4832 uomini tra i 60 e gli 80 anni.

I sistemi QUS presentano comunque alcuni limiti: il fatto che siano misure indirette della densità ossea ne impedisce l’uso alternativo alla DXA nella diagnosi di osteoporosi. L’eterogeneità dei macchinari, poi, fa sì che i risultati non siano sempre correlabili fra loro, e si prestino invece, come anticipato, agli studi epidemiologici e allo screening, considerando anche che si tratta di esami non radianti e relativamente economici. Generalmente tali apparecchi hanno una precisione minore se confrontati con i sistemi DXA: è per questo che il loro utilizzo non è raccomandato nel follow-up dei pazienti in terapia anti-osteoporosi.

Riferimenti bibliografici

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3837236/

https://www.siommms.it/wp-content/uploads/2015/11/Linee-guida-OP_2015.pdf

Il ruolo dell’osteocalcina come marker

L’osteocalcina è un importante elemento della matrice extracellulare del tessuto osseo: dal punto di vista quantitativo, ne rappresenta addirittura la seconda componente proteica più abbondante, dopo il collagene (10-20% delle proteine non collageniche).
A metà anni ’70 Hauschka e Price isolarono, per la prima volta dall’osso bovino e di pollo, una proteina in grado di legare 5 ioni calcio, riconoscendovi la presenza di 3 domini Gla (γ-carbossiglutammato) che permettono l’interazione con l’idrossiapatite. Questi residui derivano da un fondamentale processo post-traslazionale di carbossilazione dell’acido glutammico (Glu) mediato dall’enzima GGCX, dipendente dalla presenza di vitamina K, cui corrisponde un cambiamento conformazionale che stabilizza la proteina e ne incrementa l’affinità con Ca2+ e idrossiapatite. In virtù di questa caratteristica strutturale, l’osteocalcina viene anche definita proteina Gla dell’osso (BGLAP), così come il gene dai cui è codificata.

L’osteocalcina umana viene sintetizzata in forma di precursore (analogamente ad esempio all’insulina, prodotta come pre-pro-insulina) da 98 amminoacidi. Il peptide pre- fa da molecola segnale e viene clivato dopo la traslocazione al reticolo endoplasmatico, quello pro- contiene un sito di riconoscimento per il già citato enzima GGCX: la proteina matura è formata pertanto da 49 residui. Nella maggior parte dei casi tutti e 3 i residui Glu sono carbossilati; la proteina matura è destinata a essere depositata nella matrice extracellulare ossea o rilasciata in circolo.

Come anticipato, l’osteocalcina matura presenta siti legame per 5 ioni calcio, il che rende la proteina altamente affine per l’idrossiapatite. Essa viene espressa esclusivamente (o quasi) dall’osteoblasto e solo in una fase avanza di maturazione di questa linea cellulare. La sua espressione aumenta fino a 200 volte nel corso di processo di mineralizzazione osteoblastica della matrice extracellulare.

Marker di sintesi ossea: osteocalcina

L’osteocalcina viene pertanto interpretata come un marker di sintesi ossea e può essere, ad esempio, impiegata nella valutazione della risposta alle terapie dell’osteoporosi.

In più, la proteina sarebbe coinvolta nello sviluppo e nel rimodellamento del tessuto osseo: i topi knockout (in cui è stato cioè silenziato il gene BGLAP) non vanno incontro a inibizione della formazione dell’osso bensì a incremento della massa ossea. Somministrando osteocalcina si interferisce con l’attività della fosfatasi alcalina ossea (classico marker di sintesi). Se ne evince una funzione, da parte dell’osteocalcina, di regolatore della sintesi e della crescita dei cristalli di idrossiapatite.

La stessa molecola è in grado di accelerare la fusione di osso neoformato a fibre intrecciate (woven bone) all’interno dell’osso nativo e anche la formazione di osso lamellare attorno a inserti di collagene e idrossiapatite, promuovendo nel complesso la sintesi ossea e le caratteristiche meccaniche dello scheletro.

Nel contesto dei farmaci osteopenizzanti, le principali molecole anticoagulanti – vale a dire eparina e warfarin – inducono una riduzione dei livelli e dell’attività dell’osteocalcina.

Negli ultimi anni sono inoltre emerse alcune possibili funzioni non ossee, in particolare un ruolo nel metabolismo glucidico: l’osteocalcina avrebbe infatti un effetto di tipo ormonale, analogamente a quanto evidenziato per leptina e adiponectina (prodotte dal tessuto adiposo) e la sua produzione sarebbe stimolata dalla stessa insulina. La proteina potrebbe essere pertanto utilizzata anche nello studio del diabete mellito di tipo 2. Oltre a questo, essa avrebbe funzioni di neuropeptide e, in ambito endocrinologico, nel complesso della fertilità.

Riferimenti bibliogafici sul ruolo dell’osteocalcina

https://www.sciencedirect.com/topics/agricultural-and-biological-sciences/osteocalcin

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26747614

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4670816/pdf/nihms697904.pdf

 

Mediatori del differenziamento dell’attività di osteoblasti e osteoclasti

L’omeostasi dello scheletro si caratterizza per il delicato equilibrio fra i processi fisiologici di riassorbimento e neoapposizione di matrice. Tale meccanismo di turnover, sottoposto a diversi controlli (metabolici, biochimici e ormonali) rende, complessivamente, l’osso un tessuto dinamico, in continuo rinnovamento e, pertanto, solido. Diverse patologie conducono a fragilità proprio agendo sui fattori della regolazione.

Le due fasi del turnover osseo sono mediate da due specie cellulari completamente diverse fra loro ma, a loro volta, in grado di interloquire tra loro dal punto di vista regolatorio. Gli osteoblasti sono cellule a origine mesenchimale, responsabili della deposizione della matrice mineralizzata, alla fine della loro azione biosintetica, vanno incontro a quiescenza, rimanendo inclusi nel tessuto (diventandone anche la specie più numerosa) come osteociti. Gli osteoclasti sono invece grosse cellule della linea monocito-macrofagica e hanno la funzione di riassorbire la stessa matrice.

Gli studi sui topi knockout hanno permesso di individuare nel gene RUNX2 (e nel fattore di trascrizione che questo codifica) il trigger fondamentale del differenziamento osteoblastico da parte dei progenitori mesenchimali multipotenti. SP7 e DLX5 sono altri geni (e proteine) driver del differenziamento osteoblastico. A questi si aggiungono numerosi cofattori, quali ad esempio il Mediator complex, in grado di modulare l’output trascrizionale in risposta a stimoli ambientali: di recente, altri studi su topi knockout hanno stabilito il ruolo particolare della subunità MED23 (appartenente allo stesso complesso multiproteico) come regolatore della trascrizione di RUNX2 e, conseguentemente, dell’osteogenesi.

Il processo di differenziamento degli osteoclasti risulta forse ancora più interessante.

Come frequentemente accade nella linea mieloide, cellule ematopoietiche appartenenti a fasi differenziative diverse – cellule staminali emopoietiche CD34+, monociti CD265 (/RANK) + e CD14+ – sono in grado di intraprendere uno stesso percorso differenziativo, in questo caso l’osteoclastogenesi.

Non è peraltro chiaro se i precursori circolanti siano in grado di differenziarsi in osteoclasti o se richiedano un ulteriore passaggio all’interno del midollo osseo emopoietico. È verosimile che le cellule staminali emopoietiche siano generate in prossimità di nicchie perivascolari, per poi migrare sulla superficie ossea, dove la maturazione giunge a compimento. Secondo tale modello, i precursori vengono richiamati a livello osseo da proteine di matrice ossea, prodotti di degradazione, ioni calcio, mediatori lipidici o chemochine quali CXCL12, la quale viene espressa dalla linea osteoblastica.

Sono infatti proprio gli osteoblasti i principali regolatori fisiologici del differenziamento osteoclastico.

Gli stessi osteoblasti esprimono la proteina di membrana RANKL, ligando del recettore monocitario RANK, appartenente alla famiglia della famiglia dei TNF. Tale processo attiva a sua volta una serie di pathway (MAPK, mTor, PI3K, NF-κB, MiTF), i quali essenzialmente contribuiscono all’espressione del fattore di trascrizione osteoclastico fondamentale, NFATc1. La presenza di RANKL è indispensabile al differenziamento in senso osteoclastico, ma anche ai fini della sopravvivenza degli stessi e della promozione della loro attività litica.

In ultima analisi, gli osteoblasti producono anche l’osteoprotegerina (OPG), altro recettore TNF in grado di legare il RANK-ligando, sottraendolo a RANK e, quindi, impedendo l’attivazione degli osteoclasti.

Riferimenti bibliografici a proposito dell’attività di osteoblasti e osteoclasti

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27033977

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27134141

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4920143/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20714810

 

 

 

Vertebroplastica percutanea nelle fratture da osteoporosi

Quelle compressive a carico delle vertebre sono una delle tipologie di fratture più frequenti nel paziente osteoporotico: nei soli Stati Uniti si contano più di 750000 nuovi casi all’anno. I dati, sempre statunitensi, forniti nello studio di Amin del 2014, raccontano di un preoccupante aumento dell’incidenza di tale complicanza. Un’indagine canadese incentrata sullo stesso periodo ventennale (fine anni ’80 – 2010) ha rilevato un generale decremento delle fratture osteoporotiche, eccezion fatta proprio per quelle vertebrali.

Uno studio tedesco del 2013 stima un’incidenza pari a 307 eventi ogni 100000 pazienti l’anno, nel paziente sopra ai 50 anni, soprattutto nel grande anziano: tra le donne, la frequenza tra gli 85 e gli 89 anni risulta 8 volte maggiore rispetto alla fascia 60-64. Lo stesso studio stima in 6490€ il costo medio per il sistema sanitario, derivante da una frattura vertebrale, solo nel primo anno a essa successivo.

Questo tipo di fratture possono essere asintomatiche o indurre manifestazioni dolorifiche sia in maniera acuta che cronica. Possono esitare nell’insorgenza di problematiche connesse con la mortalità e la morbilità dell’osteoporosi: deformità spinali, limitazione funzionale, riduzione della funzione polmonare.

Fratture vertebrali: vertebroplastica percutanea

Il trattamento delle fratture vertebrali è generalmente limitato al controllo del dolore in fase acuta, al riposo e alla fisioterapia e si associa necessariamente alla gestione clinica-preventiva della malattia osteoporotica sottostante. Ciò nella maggior parte dei casi porta la frattura a guarigione nel giro di qualche mese, anche se alcuni pazienti esitano in dolore e disabilità permanenti.

La vertebroplastica percutanea, descritta per la prima volta da Gilbert nel 1987, applicata inizialmente al trattamento dell’angioma vertebrale e, successivamente, a quello di fratture vertebrali sia benigne che maligne. Si tratta di una procedura che può essere condotta in regime di anestesia generale ma anche di sedazione endovenosa, sotto guida fluoroscopica (è una metodica di radiologia interventistica, neurochirurgia o chirurgia ortopedica). Prevede l’inserimento per via transpedicolare (la quale costituisce anche un’opzione nella chirurgia dell’ernia) di una quantità ridotta (pochi millilitri) di cemento osseo biocompatibile, semisolido, a base di polimetilmetacrilato (PMMA). L’accesso percutaneo di Gilbert rappresentò senza dubbio un deciso avanzamento rispetto alla chirurgica open, descritta solo 3 anni prima da Deramond.

Pure in assenza di un corpus di evidenze consistente (in termini di trial clinici randomizzati), le indicazioni sul rapido e notevole decremento del sintomo dolorifico susseguente alla procedura ne hanno favorito l’impiego clinico, che in paesi come gli Stati Uniti è andato via via crescendo.

Il processo che sottende tale efficacia clinica, in effetti, non è ancora stato del tutto compreso. Almeno tre possibili meccanismi sono stati proposti: la stabilizzazione meccanica dell’osso fratturato, la termoablazione delle terminazioni nervose conseguente alla polimerizzazione del cemento, oppure un’effetto analogo ma di tipo chimico.

A fine 2018 Buchbinder e colleghi, hanno sentito l’esigenza di aggiornare una precedente revisione sistematica Cochrane sull’argomento. Il lavoro ha stabilito (ribadito) che, in realtà, alla luce di un’evidenza di grado qualitativamente moderato o elevato, l’impiego nelle fratture osteoporotiche acute o subacute della tecnica della vertebroplastica percutanea, confrontata con un placebo, non induce significativi benefici per quanto riguarda dolore, disabilità o qualità della vita in generale.

Riferimenti bibliografici relativi a vertebroplastica percutanea

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29618171

 

Osteogenesi imperfetta e osteoporosi giovanile: caratteristiche e diagnosi differenziale

Le patologie osteometaboliche si caratterizzano per il forte impatto sulla qualità della vita dei pazienti e per i costi diretti e indiretti per i sistemi sanitari. È normale considerare queste problematiche in riferimento alla popolazione adulta, data la notevole prevalenza, soprattutto pensando all’osteoporosi primitiva nella donna in età postmenopausale, ma anche alle diverse forme secondarie a patologie dell’anziano.

Per quanto non comuni nella fascia pediatrica e adolescenziale, i deficit del metabolismo osseo possono risultare ancor più invalidanti, proprio perché sono in grado di interferire con il processo della crescita.

Osteogenesi imperfetta: caratteristiche perculiari

L’osteogenesi imperfetta (osteogenesis imperfecta) è un raro disordine a base genetica che porta a fragilità ossea. La condiziona interessa tra 1 su 20000 e 1 su 10000 nati vivi.

Sono stati individuati più geni alla base di tale patologia ma nel 95% dei casi la patologia è causata da mutazioni a livello dei geni COL1A1 e COL1A2 (17q21.33 e 7q21.3), codificanti rispettivamente per le due catene α1 e la singola catena α2 del collagene di tipo I. Tali alterazioni hanno trasmissione autosomica recessiva è possono portare a uno qualsiasi dei tipi di patologia, da I a IV. i 4 tipi principali (ve ne sono in realtà degli altri) sono stati stabiliti sulla base della severità clinica con la quale si presentano: da questa consegue anche l’età alla diagnosi. Il tipo I di osteogenesi imperfetta è la forma più lieve, non deformante; i soggetti hanno statura normale o poco ridotta, normale dentinogenesi e sclera blu. È anche la forma più comune.

La forma II è la più letale, mentre la III è la più severa tra i pazienti che sopravvivono al periodo neonatale.

La forma IV è intermedia in termini di deformità e rischio fratturativo.

Il trattamento delle complicanze varia con la severità della manifestazione ed è condizionato dalla precocità del trattamento.

Osteoporosi giovanile: caratteri distintivi

L’osteoporosi non è, come già detto, una patologia comune in età pediatrica. Può trattarsi di un quadro primitivo da alterazioni congenite dello scheletro, a base genetica o ignota: si parlerà in quest’ultimo caso di osteoporosi giovanile idiopatica. Tale patologia si presenta mediamente intorno ai 7 anni (indicativamente anticipa di poco la pubertà) e si accompagna normalmente a dolore lombare o livello di anca, piede e caviglia, ginocchio. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, va incontro a remissione spontanea senza la necessità di trattamenti specifici (al di là del monitoraggio e dalla protezione dal rischio fratturativo), raccomandati solo nelle forme severe.

Più spesso, l’osteoporosi giovanile costituisce una manifestazione secondaria ad altre condizioni, quali ad esempio l’artrite idiopatica giovanile, oltre a diverse patologie endocrinologiche. Altre cause sono deficit nutrizionale (soprattutto intake ridotto di calcio o vitamina D), prolungata immobilizzazione, o trattamenti farmacologici con corticosteroidi, anticonvulsivanti o immunosoppressori.

L’osteogenesi imperfetta, soprattutto nella sua forma mild, e l’osteoporosi giovanile vanno in diagnosi differenziale sulla base del periodo di insorgenza e per il fatto che entrambe portano a rischio fratturativo apparentemente inspiegabile. A distinguere la prima fra le due condizioni sono soprattutto il dato anamnestico della familiarità e quello clinico della sclera blu. I test genetici conducono poi a diagnosi definitiva.

Riferimenti bibliografici a proposito dell’osteogenesi imperfetta

https://www.orpha.net/consor/cgi-bin/OC_Exp.php?Lng=GB&Expert=85193

https://www.bones.nih.gov/health-info/bone/bone-health/juvenile/juvenile-osteoporosis

https://www.bones.nih.gov/health-info/bone/osteogenesis-imperfecta/overview

https://www.orpha.net/consor/cgi-bin/OC_Exp.php?lng=EN&Expert=666

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28965204

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29504223

Osteopenia e osteoporosi: impatto socioeconomico, definizione e T-score

Secondo i dati forniti da Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) e International Osteoporosis Foundation (IOF), l’osteoporosi colpisce 75 milioni di persone tra Stati Uniti, Europa e Giappone, 200 milioni di donne in tutto il mondo ed è responsabile di 89 milioni di fratture ossee all’anno. Una donna su 3 e un uomo su 5 sperimenta va incontro nella vita a una frattura di questo tipo. Il report “Broken bones, broken lives” pubblicato dalla stessa IOF nel 2017 ha fornito una fotografia aggiornata della situazione in 6 paesi europei, Italia compresa. Qui la prevalenza dell’osteoporosi si attesta al 23.1% nelle donne e al 7% negli uomini; nel 2017 sono stati registrati 563000 casi di frattura da fragilità, la cui prevenzione e gestione ha comportato per il sistema sanitario nazionale un onere pari a 9.4 miliardi di euro, superiore a quello richiesto da broncopneumopatia cronica ostruttiva BPCO e ictus ischemico. L’insorgenza di una frattura costituisce un fattore di rischio per ulteriori eventi a breve termine e, in termini assoluti, un fattore peggiorativo del rischio di mortalità e morbilità.

Una definizione concettuale di osteoporosi è quella di malattia caratterizzata da una riduzione della massa ossea (bone quantity) e da un deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo (bone quality), che induce un aumento della fragilità ossea e, di conseguenza, del rischio di frattura.

Organizzazione mondiale della sanità: valori di T-score

Nel 1994, la stessa OMS ha fornito un criterio clinico per la diagnosi, basato sull’applicazione di valori soglia del T-score, validato per la densitometria ossea (bone mineral density BMD) misurata con tecnica DXA (dual X-ray absorptiometry).

Il T-score rappresenta un dato, espresso in termini di deviazioni standard DS, che deriva dal confronto della BMD di un singolo soggetto con il valore medio di una popolazione giovane (30 anni) e sana. In altri termini: quanto il dato del paziente si discosta da un valore normale.

Valori di T-score e loro significato

normalità: densità ossea compresa all’interno di 1 DS dal valore di riferimento (T-score ±1 DS)
osteopenia: densità ossea inferiore di 1 fino a 2.5 DS dal valore di riferimento (T-score da -1 a -2.5 DS)
osteoporosi: densità ossea inferiore oltre le 2.5 DS dal valore di riferimento (T-score < -2.5 DS)
osteoporosi conclamata: T-score < -2.5 DS associato alla presenza di almeno 1 frattura osteoporotica.

Si può dedurre che il termine osteopenia indica una condizione in cui la densità ossea risulta inferiore alla norma.

Va infine precisato che il confronto con i valori di riferimento per l’età adulta non è attuabile con il valore di densità minerale ossea di un soggetto in età pediatrica o adolescenziale. In questo caso, al T-score andrà preferito lo Z-score.

Riferimenti bibliografici a proposito di osteopenia, osteoporosi e t-score

https://www.iofbonehealth.org/facts-statistics#category-13 http://share.iofbonehealth.org/EU-6-Material/Reports/IOF%20Report_ITALY_DIGITAL_IT.pdf

https://www.who.int/chp/topics/Osteoporosis.pdf

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1171_ulterioriallegati_ulterioreallegato_0_alleg.pdf

https://www.bones.nih.gov/health-info/bone/bone-health/bone-mass-measurement-what-numbers-mean#b

https://doi-org.pros.lib.unimi.it:2050/10.1007/s12018-009-9064-4

altro: http://www.indianjrheumatol.com/temp/IndianJRheumatol104216-3466775_093747.pdf

Malattia di Paget e metabolismo osseo

La malattia di Paget o osteite deformante è un disordine cronico non infiammatorio del metabolismo osseo.

I dati epidemiologici la indicavano come la seconda patologia malattia metabolica dell’osso per frequenza, dopo l’osteoporosi, con una prevalenza attestabile al 3.9% nelle donne e al 6.2% negli uomini (con picchi del 5-8%) sopra i 55 anni. Negli ultimi 25 anni si è assistito a un diffuso decremento della prevalenza: il dato precedentemente citato può essere verosimilmente portato più recentemente all’1.6% e al 2.5%, rispettivamente. Questo andamento sarebbe, secondo alcuni autori, generalmente connesso con il miglioramento del compenso nutrizionale, la minore esposizione alle infezioni e anche all’adozione di uno stile di vita più sedentario.

Si tratta, come anticipato, una patologia della vecchiaia, colpisce maggiormente il sesso maschile e interessa maggiormente la popolazione caucasica europea, meno frequentemente quella africana ed è rara in quella asiatica.

Malattia di Paget:cosa la distingue dalle altre patologie

Si parla per la precisione di malattia ossea (Paget disease of bone) per distinzione rispetto a una forma clinica di carcinoma duttale infiltrante della mammella, a manifestazione subdola e rischio sistematicamente elevato, che porta la stessa eponinimia (Paget’s disease of the breast).

Dal punto di vista clinico, la maggior parte dei pazienti sono asintomatici; alcuni manifestano però complicanze quali dolore osseo (o anche formicolio o intorpidimento) soprattutto agli arti, osteoartrite, fratturedeformità ossee, o ancora sindromi compressive nervose e deficit uditivo spesso monolaterale. Il quadro varia a seconda delle zone somatiche interessate: arti, colonna vertebrale, pelvi, cranio.

Gli esami di laboratorio rilevano generalmente elevati livelli di fosfatasi alcalina indicativa dell’elevata attività metabolica

Il segno radiografico tipico della patologia è detto “filo d’erba” o “fiamma di candela”. Alla semplice radiografia possono essere anche visualizzate aree osteolitiche circoscritte nel cranio, aree di osteolisi frammista a osteosclerosi, fratture dei corpi vertebrali.

La scoperta incidentale di anomalie radiografiche e aumentati livelli di fosfatasi alcalina sono anche le motivazioni principali che portano alla diagnosi di malattia nel paziente asintomatico.

La scintigrafia ossea total body rappresenta l’esame maggiormente sensibile per la diagnosi di malattia di Paget. La ripetizione di esami radiografici non è necessaria a meno di progressione dei sintomi o insorgenza di nuovi.

Eziopatogenesi del morbo di Paget

L’eziopatogenesi della patologia è ancora oggi in corso di studio, dopo essere stata del tutto oscura per decenni.

Le prime scoperte di laboratorio – ovvero il reperimento di inclusi virali intranucleari o intracitoplasmatici – hanno fatto pensare all’esito di infezioni virale cronicizzate a livello di osteoblasti e loro precursori, in grado di portare nel giro di anni alla manifestazione clinica. Si ricordi come gli osteoclasti rappresentino una particolarità all’interno del tessuto, in quanto derivano dalla linea mieloide (non da quella mesenchimale): sembra che sia proprio nel corso della maturazione che possano inserirsi delle alterazioni.

Diverse evidenze supportano anche una base di tipo genetico, dato che la patologia comporta una familiarità che raggiunge il 40%, con una trasmissibilità di tipo autosomico dominante. I due più importanti pattern genetici individuati sono quelli della malattia di Paget giovanile e di quella familiare a insorgenza precoce, legate rispettivamente a mutazioni a carico dei geni TNFRSF11B e A, codificanti per l’osteoprotegerina l’uno, per il recettore RANK l’altro.

La teoria attuale prevede pertanto la compenetrazione tra fattori ambientali e genetici, a portare alla maturazione di un vero e proprio clone di osteoclasto pagetico.

In linea di massima, il trattamento viene indicato in presenza di sintomi. Laddove siano i dati laboratoriali e radiografici a indicare una progressione di patologia, può essere indicato instaurare un regime terapeutico a fini preventivi.

La calcitonina rappresenta la prima molecola impiegata nel trattamento della patologia: oggigiorno, il suo utilizzo è limitato ai quei pazienti in cui sia controindicato l’uso dei bifosfonati, i quali costituiscono pertanto i farmaci di scelta attuali.

Riferimenti bibliografici a proposito del morbo di Paget

https://www.mayoclinic.org/diseases-conditions/pagets-disease-of-bone/symptoms-causes/syc-20350811

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5266784/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29752905

https://www-scopus-com.pros.lib.unimi.it:2050/record/display.uri?eid=2-s2.0-85052948869&origin=resultslist&sort=plf-f&src=s&st1=Paget%27s+disease+of+bone%3a+Epidemiology%2c+pathogenesis+and+pharmacotherapy&st2=&sid=818a5a3b3c48ea6f05db6a5705dba25b&sot=b&sdt=b&sl=86&s=TITLE-ABS-KEY%28Paget%27s+disease+of+bone%3a+Epidemiology%2c+pathogenesis+and+pharmacotherapy%29&relpos=0&citeCnt=0&searchTerm=https://www.researchgate.net/publication/262775222_Paget’s_disease_of_bone_Epidemiology_pathogenesis_and_pharmacotherapy

 

 

Clodronato: indicazioni d’uso e nuove prospettive

Campi di utilizzo del clodronato

Il clodronato rappresenta il capostipite della famiglia farmacologica dei bifosfonati, prima molecola di questo tipo ad essere stata sia sintetizzata che impiegata in ambito clinico. In questo senso viene ininterrottamente studiato a partire dalla seconda parte degli anni ’90 nel contesto del trattamento dell’osteoporosi post-menopausale. L’uso di questa molecola si è poi allargato a una varietà di disordini osteometabolici: malattia di Paget, ipercalcemia paraneoplastica, lesioni osteolitiche primitive o metastatiche, mieloma multiplo, iperparatiroidismo primitivo, algodistrofia.

In aggiunta, in letteratura si rilevano indicazioni all’uso del clodronato nella prevenzione della perdita ossea e nella stabilizzazione in caso di sostituzione d’anca, o ancora in presenza di patologie come osteomieliti, bone marrow edema, sindrome dolorosa regionale complessa – in questo senso si sta cercando di comprendere al meglio il potenziale antinfiammatorio di questo farmaco di modo da poterlo maneggiare clinicamente – osteoartrite erosiva, artrite reumatoide, osteogenesi imperfetta.

Come per altri bifosfonati, è indicata oggi un’assunzione per os su base quotidiana, nonostante la carenza di studi ponte dimostranti l’equivalenza della dose rispetto alla somministrazione parenterale (intramuscolare o endovenosa).

Clodronato: revisioni della letteratura

Su Clinical Cases in Mineral and Bone Metabolism, nel 2015, sono state pubblicate da distinti gruppi di lavoro italiani altrettante mini-review facenti il punto sull’attuale impiego clinico della molecola e sulle possibili prospettive future.

Il gruppo di Filipponi ha valutato l’effetto del farmaco, per via endovenosa, a cadenza trisettimanale, alla dose di 200 mg, rilevando un incremento significativo della densità ossea minerale, con un trend positivo stabile. A quel punto, indicazioni similari sono state ricercate con somministrazioni diverse: i migliori risultati sono stati ritrovati con una somministrazione pari a 100 mg intramuscolo ogni 10 giorni e l’assunzione per os quotidiana di 400 mg. Indagini ulteriori, come quella di McCloskey, hanno raddoppiato tale dosaggio a 800 mg. Tale studio dimostra la riduzione a tre anni dell’effetto preventivo delle fratture; ulteriori analisi hanno stabilito l’efficacia in questo senso sia nell’osteoporosi post-menopausale che nelle forme secondarie, indipendentemente dalla presenza o assenza di fratture vertebrali al baseline.

Attualmente, si può indicare il clodronato come la più maneggevole molecola della classe dei bifosfonati, indicando in una somministrazione intramuscolare pari a 200 mg a cadenza bisettimanale (equivalente a 100 mg a settimana) un valido compromesso terapeutico. Gli standard terapeutici attuali al trattamento dell’osteoporosi indicano il rischio fratturativo del 7% calcolato tramite lo strumento FRAX (che combina il BMD con diversi fattori anamnestici) come un cutoff valido nel giustificare l’uso clinico del farmaco.

Letteratura di approfondimento sul Clodronato

https://www-ncbi-nlm-nih-gov.pros.lib.unimi.it:2050/pmc/articles/PMC4625784/

https://www-ncbi-nlm-nih-gov.pros.lib.unimi.it:2050/pmc/articles/PMC4869950/

Paratormone – PTH in osteoporosi e ipoparatiroidismo

Il paratormone (PTH) è l’ormone peptico prodotto dalle ghiandole paratiroidi e rappresenta l’attore fondamentale nella regolazione del metabolismo del calcio all’interno del nostro organismo. La molecola è inizialmente rilasciata in forma di pre-pro-ormone: da questa vengono progressivamente clivati due residui da 25 e 6 amminoacidi, rispettivamente, lasciando infine gli 84 della forma attiva.

Fisiologicamente, la riduzione della calcemia induce la progressiva liberazione dei recettori di membrana a livello delle paratiroidi, il che comporta la rimozione del blocco al rilascio dell’ormone.

Meccanismi di regolazione della calcemia

Il livello ematico del calcio viene rialzato attraverso 3 meccanismi diversi, agenti su altrettanti sistemi:

  • l’induzione del riassorbimento del calcio a livello del tubulo renale
  • la mobilizzazione delle riserve ossee per aumentata attività osteoclastica
  • l’attivazione dell’enzima 1-alfa-idrossilasi, responsabile della conversione del 25-idrossicolecalciferolo a calcitriolo, forma attiva della vitamina D, che a sua volta facilita l’assorbimento intestinale del calcio. Tali processi vengono stimolati dal PTH, direttamente (i primi due) o indirettamente (l’ultimo).

Alterazioni dei valori del paratormone – PTH

Fisiologicamente, il PTH è sottoposto a un ritmo circadiano dominante a cui però si sovrappone anche una pulsatilità (6-7 episodi l’ora) che copre indicativamente un quarto del rilascio totale. L’emivita del frammento C-terminale è superiore a quella del frammento N-terminale. L’ormone circolante viene metabolizzato dalle endopeptidasi epatiche e renali ed escreto con le urine.

Il metabolismo del calcio è strettamente correlato a quello dei fosfati: l’ipocalcemia si accompagna normalmente a iperfosfatemia. Tale condizione patologia induce sintomatologia soprattutto a livello neuromuscolare (dall’irritabilità fino a quadri molto severi), ma anche cardiaco e renale, e può essere correlata all’ipoparatirodismo, ossia la riduzione dei livelli di paratormone. Gli effetti sul comparto scheletrico sono in contrasto con quelli dell’iperparatiroidismo e sono da correlare alla netta riduzione del turnover osseo (formazione ma anche riassorbimento) che segue il mancato approccio al deficit di PTH.

Trattamento dell’ipoparatiroidismo: paratormone – PTH

Il razionale del trattamento dell’ipoparatiroidismo consiste nella somministrazione di molecole analoghe dell’intero ormone (hPTH 1-84) o della porzione N-terminale biologicamente attiva del paratormone (PTH). Questo secondo peptide sintetico, ricombinante, denominato teriparatide, riprende i frammenti aminoacidici 1-34 (hPTH 1-34). Le due molecole, entrambe somministrabili per via sottocutanea, hanno la capacità di prolungare il legame al recettore e presentano emivita superiore. La ricerca attuale si sta concentrando sul perfezionamento del delivery dei farmaci.

La stessa terapia sostitutiva del PTH, che per definizione può essere somministrata in maniera intermittente e non continua (ormone endogeno), ha mostrato un effetto anabolizzante sul tessuto osseo.

Trattamento osteoporosi: il ruolo del PTH

Il teriparatide trova indicazione nel trattamento dell’osteoporosi: somministrato per via sottocutanea nella posologia di 20 μg / die, è in grado di abbassare il rischio fratturativo del 65% a livello vertebrale e del 53% a livello non vertebrale. La dose terapeutica si è dimostrata ugualmente protettiva, in questo senso, rispetto a quella duplice ma, nel contempo, più sicura rispetto al rischio di un’ipercalcemia come reazione avversa. La prospettiva futura è quella di validare una somministrazione a cadenza settimanale: al momento sono arrivate indicazioni incoraggianti dalla sperimentazione dei dosaggi di 30 e 60 μg, dunque equivalenti a minidosaggi quotidiani da 4.3 and 8.6 μg.

Letteratura di approfondimento sul PTH

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29049872