venerdì, Luglio 4, 2025
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Ipertensione e osteoporosi: un legame da monitorare

L’ipertensione e l’osteoporosi sono due delle principali sfide per la salute pubblica a livello globale. Entrambe le condizioni, che incidono significativamente sulla morbilità e mortalità, tendono a manifestarsi con maggiore frequenza in una popolazione che invecchia e adotta stili di vita moderni. Recentemente, una meta-analisi pubblicata sul Journal of Orthopaedics ha esaminato il possibile legame tra ipertensione e bassa densità minerale ossea (BMD), fornendo nuove prospettive su questa associazione complessa e ancora non completamente compresa.

Lo studio

L’analisi ha incluso 13 studi osservazionali provenienti da Europa, Asia, Nord America e Africa, per un totale di 38.671 partecipanti, il 71% dei quali donne. La prevalenza di bassa BMD variava tra il 18% e il 75%, mentre quella di ipertensione oscillava tra il 16% e il 67%. I risultati hanno mostrato che gli individui ipertesi hanno una probabilità significativamente maggiore di presentare una bassa BMD rispetto ai non ipertesi (OR 1,33; IC 95% 1,17-1,53; p < 0,01).

Interessante è il fatto che l’associazione era più marcata nei pazienti con ipertensione non trattata (OR 1,64) rispetto a quelli in terapia antipertensiva (OR 1,32). Questo suggerisce un possibile effetto protettivo dei farmaci antipertensivi sulla salute ossea, sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per confermare questa ipotesi.

Meccanismi biologici

La relazione tra ipertensione e osteoporosi potrebbe essere mediata da diversi meccanismi fisiologici. L’ipertensione è associata a una maggiore escrezione urinaria di calcio e a un aumento dei livelli di ormone paratiroideo (PTH), entrambi fattori che possono accelerare il turnover osseo e ridurre la densità minerale. Inoltre, il sistema renina-angiotensina, iperattivo nei pazienti ipertesi, sembra avere un ruolo diretto nell’alterare il metabolismo osseo, favorendo il riassorbimento rispetto alla formazione.

Tra le donne, la carenza di estrogeni post-menopausa potrebbe ulteriormente amplificare il rischio. Bassi livelli di estrogeni sono associati sia a un aumento della pressione sanguigna che a una riduzione della densità ossea, suggerendo un’interazione complessa tra questi fattori.

Limitazioni dello studio

Nonostante la robustezza metodologica, lo studio presenta alcune limitazioni. La significativa eterogeneità tra gli studi inclusi (I² = 79,9%) rende difficile generalizzare i risultati. Inoltre, l’analisi si basa prevalentemente su studi trasversali, che non consentono di stabilire una relazione causale. È necessario condurre studi di coorte prospettici per chiarire il nesso temporale tra ipertensione e perdita di densità ossea.

Implicazioni cliniche e conclusioni

Questo studio sottolinea l’importanza di un approccio multidisciplinare nella gestione dei pazienti ipertesi, specialmente quelli a rischio di osteoporosi. La valutazione della salute ossea dovrebbe diventare parte integrante del follow-up nei pazienti ipertesi, con interventi mirati che includano la supplementazione di calcio e vitamina D, la promozione dell’attività fisica e, ove necessario, l’utilizzo di farmaci osteoprotettivi.

La relazione tra ipertensione e bassa densità minerale ossea evidenziata da questa meta-analisi rappresenta un passo avanti nella comprensione di due condizioni altamente prevalenti e debilitanti. Sebbene ulteriori studi siano necessari per definire i meccanismi sottostanti e sviluppare strategie di intervento, i risultati attuali rafforzano la necessità di una gestione integrata e preventiva per migliorare gli esiti di salute dei pazienti.

 

Yao Gao, Xiaomei Tian, Guofu Zhang, Jianli Yu, Liwen Zhang, The low bone mass density in adults with hypertension: A meta-analysis, Journal of Orthopaedics, Volume 63, 2025, Pages 70-76, ISSN 0972-978X

Un’innovativa soluzione nutrizionale contro la sarcopenia

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La sarcopenia, definita dalla progressiva perdita di massa muscolare e forza, rappresenta una sfida crescente in una società che vede un invecchiamento demografico sempre più marcato. Questa condizione è strettamente legata a una riduzione della funzionalità fisica, a una maggiore incidenza di cadute e a un peggioramento della qualità di vita. Un recente studio pubblicato su Nutrients propone un approccio nutrizionale innovativo per affrontare la sarcopenia.

Lo studio clinico

Condotto presso l’IRCCS Mondino di Pavia, il trial randomizzato, doppio cieco e controllato con placebo ha coinvolto 60 soggetti anziani con diagnosi di sarcopenia. L’obiettivo principale era valutare l’efficacia di una formula alimentare contenente leucina (2,5 g), omega-3 (500 mg) e Lactobacillus paracasei PS23 sulla massa muscolare appendicolare (ALM). Sono stati anche esaminati parametri secondari quali forza muscolare, stato infiammatorio e profilo aminoacidico.

Metodologia e risultati

I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno ha ricevuto la formula nutrizionale, l’altro un placebo. Entrambi i gruppi hanno seguito un programma dietetico e di attività fisica personalizzato. I parametri sono stati misurati al basale, a 30 e a 60 giorni.

Alla fine del trattamento, i soggetti che avevano ricevuto la formula nutrizionale hanno mostrato un significativo incremento della massa muscolare (+1,6 kg rispetto al gruppo placebo), un miglioramento nella forza di presa manuale (+4,09 kg) e nei test di performance fisica (punteggi Tinetti e SPPB aumentati rispettivamente di +2,39 e +2,22 punti). Inoltre, il gruppo trattato ha evidenziato una riduzione del tessuto adiposo viscerale e una diminuzione dei livelli di proteina C-reattiva (CRP), indicativa di un minore stato infiammatorio.

Meccanismi d’azione

I benefici osservati possono essere attribuiti alla combinazione dei tre componenti principali della formula:

  • Leucina: aminoacido essenziale con proprietà anaboliche, noto per stimolare la sintesi proteica e ridurre la proteolisi muscolare.
  • Omega-3: acidi grassi polinsaturi che migliorano la funzionalità muscolare grazie a effetti antinfiammatori e di attivazione della sintesi proteica.
  • Lactobacillus paracasei PS23: probiotico con azione modulante sul microbiota intestinale, associato a miglioramenti nella capacità di assorbimento di nutrienti e nella riduzione dell’infiammazione sistemica.

Implicazioni cliniche

Lo studio sottolinea l’importanza di un approccio nutrizionale integrato per il trattamento della sarcopenia. La combinazione di leucina, omega-3 e probiotici non solo ha dimostrato di migliorare la massa e la funzione muscolare, ma ha anche evidenziato un impatto positivo sul profilo infiammatorio e sulla qualità di vita dei pazienti.

Conclusioni

La formula alimentare studiata rappresenta una promettente strategia per la gestione della sarcopenia negli anziani. Ulteriori studi sono necessari per ottimizzare il trattamento e valutarne l’efficacia su popolazioni più ampie e diversificate.

 

Rondanelli, M., et al. Effectiveness of a Novel Food Composed of Leucine, Omega-3 Fatty Acids and Probiotic Lactobacillus paracasei PS23 for the Treatment of Sarcopenia in Elderly Subjects: A 2-Month Randomized Double-Blind Placebo-Controlled Trial. Nutrients, 2022.

 

Creatina Monoidrato, speranza o illusione per la salute ossea e muscolare degli anziani?

L’invecchiamento della popolazione mondiale rappresenta una sfida crescente per i sistemi sanitari, con un aumento delle condizioni legate al deterioramento muscolo-scheletrico e cognitivo, come la sarcopenia e l’osteoporosi. In questo contesto, la creatina monoidrato (CrM) è emersa come un potenziale intervento terapeutico.
Ma quanto è concreta questa speranza?

Un recente articolo di revisione pubblicato su Current Osteoporosis Reports analizza il ruolo della CrM nell’invecchiamento, con un focus su muscoli, ossa e cervello. Lo studio evidenzia che la combinazione di CrM e allenamento di resistenza può migliorare la massa muscolare magra, la forza e le capacità funzionali degli anziani. Tuttavia, i benefici sulla salute ossea e cognitiva appaiono meno consolidati.

Creatina e Sarcopenia

La sarcopenia, caratterizzata dalla perdita di massa e forza muscolare, colpisce circa il 10% degli adulti sopra i 60 anni e ha implicazioni significative per la mobilità e l’autonomia. La ricerca mostra che l’integrazione con CrM, unita all’allenamento di resistenza, porta a un incremento della massa magra di circa 1,4 kg e a miglioramenti significativi nella forza muscolare sia degli arti superiori che inferiori.

Questi risultati sono attribuiti alla capacità della creatina di migliorare l’idratazione cellulare, l’attivazione dei fattori di trascrizione miogenici e la sintesi proteica. Tuttavia, differenze di genere sono emerse, con risposte più marcate negli uomini rispetto alle donne, probabilmente a causa di variazioni nei livelli intramuscolari di creatina pre-integrazione e dei cambiamenti ormonali associati alla menopausa.

Creatina e salute ossea

La creatina può influenzare la salute ossea sia direttamente, aumentando l’attività metabolica degli osteoblasti, sia indirettamente, attraverso il miglioramento della massa muscolare. Tuttavia, i risultati degli studi sono contrastanti. Alcuni hanno osservato benefici limitati nella densità minerale ossea e nella resistenza strutturale, mentre la maggior parte non ha rilevato effetti significativi rispetto all’allenamento di resistenza senza creatina.

Ad esempio, uno studio di due anni su donne in post-menopausa ha evidenziato un lieve beneficio nella densità ossea dell’anca e nella resistenza corticale, ma queste osservazioni non sono state confermate da altre ricerche. L’assenza di effetti consistenti sottolinea la necessità di ulteriori studi con tecniche avanzate come la tomografia computerizzata quantitativa ad alta risoluzione (HR-pQCT).

Creatina e funzione cognitiva

La salute del cervello, particolarmente vulnerabile nell’invecchiamento, rappresenta un altro ambito di interesse per la CrM. Studi preliminari suggeriscono che la creatina può migliorare la memoria e alcune funzioni esecutive, grazie al suo ruolo nella sintesi dell’ATP e nella riduzione dello stress ossidativo. Tuttavia, i dati sono ancora limitati e spesso contraddittori, con risultati più promettenti in soggetti con condizioni preesistenti come la fibromialgia o la lieve compromissione cognitiva.

Conclusioni e prospettive future

L’integrazione con creatina monoidrato offre speranza per combattere la sarcopenia, migliorando forza, massa muscolare e funzionalità negli anziani. Tuttavia, l’evidenza a supporto di benefici per la salute ossea e cognitiva rimane insufficiente. La ricerca futura dovrebbe concentrarsi su protocolli di dosaggio ottimizzati, interventi mirati e tecniche diagnostiche avanzate per chiarire il potenziale della creatina in questi ambiti.

Per i professionisti della salute ossea, la CrM rappresenta un’opzione complementare promettente ma non ancora definitiva, che richiede un approccio basato su evidenze consolidate per garantire interventi efficaci e sicuri.

Lo studio

Candow, D.G., Moriarty, T. Effects of Creatine Monohydrate Supplementation on Muscle, Bone and Brain- Hope or Hype for Older Adults?Curr Osteoporos Rep 23, 1 (2025).

Cancro della pelle e salute ossea: il legame tra NMSC, BMD e fratture

Un nuovo studio condotto dal Menzies Institute for Medical Research dell’Università di Tasmania ha approfondito il legame tra cancro della pelle non melanoma (NMSC) e la salute ossea negli anziani. Pubblicato sull’American Journal of Medicine, lo studio propone un’ipotesi interessante: l’esposizione cumulativa al sole, principale fattore di rischio per il NMSC, può contribuire a migliorare la densità minerale ossea (BMD) e ridurre il rischio di fratture osteoporotiche.

I dati dello studio

La ricerca ha coinvolto 1.099 adulti tra i 50 e gli 80 anni, seguiti per un decennio. I partecipanti con una diagnosi precedente di NMSC, confermata istologicamente, hanno mostrato una minore incidenza di deformità vertebrali rispetto a chi non aveva avuto il tumore cutaneo. La BMD totale e i livelli di vitamina D erano significativamente più alti nei soggetti con NMSC, in particolare nella fascia di età più anziana.

Meccanismi e ipotesi

Il NMSC è considerato un indicatore di esposizione cumulativa ai raggi ultravioletti (UV). Secondo i ricercatori, tale esposizione aumenta i livelli di vitamina D, migliorando la densità corticale dell’osso e riducendo la porosità. Questi benefici si traducono in una maggiore resistenza scheletrica.

Inoltre, i soggetti con NMSC tendevano a svolgere lavori all’aperto, fattore che promuove sia l’attività fisica sia l’esposizione alla luce solare. L’ipotesi principale è che uno stile di vita attivo e all’aria aperta agisca come fattore protettivo contro la fragilità ossea.

Risultati chiave

  • Riduzione delle fratture vertebrali: I partecipanti con NMSC avevano un rischio inferiore del 26% di deformità vertebrali incidenti rispetto al gruppo di controllo.
  • Vitamina D sufficiente: Il tasso di sufficienza vitaminica era superiore nei soggetti con NMSC sia al baseline sia a lungo termine.
  • Miglioramento della microarchitettura ossea: Nei partecipanti più anziani con NMSC, si è osservata una densità volumetrica dell’osso corticale maggiore e una ridotta porosità.

Implicazioni cliniche

Questi risultati sottolineano il potenziale ruolo preventivo di una moderata esposizione al sole nella gestione della salute ossea negli anziani. Tuttavia, i ricercatori invitano alla cautela. L’esposizione eccessiva ai raggi UV rimane un rischio per la salute cutanea e può portare a gravi patologie. Pertanto, è essenziale trovare un equilibrio tra i benefici per la salute ossea e i rischi di danni alla pelle.

Prospettive future

Gli autori evidenziano la necessità di ulteriori studi per chiarire il ruolo di altre possibili variabili, come il patrimonio genetico e i marcatori non legati alla vitamina D, nel rapporto tra NMSC e salute scheletrica. Questi dati potrebbero guidare nuove strategie preventive per la fragilità ossea nella popolazione anziana.

Conclusione

Il cancro della pelle non melanoma non è solo un segnale di allarme per la salute cutanea, ma anche un indicatore di fattori protettivi per lo scheletro. Gli specialisti della salute ossea possono trarre spunti da questa scoperta per integrare nuovi approcci nella prevenzione delle fratture osteoporotiche.

Lo studio

Michael Thompson, Graeme Jones, Alison Venn, Saliu Balogun, Flavia Cicuttini, Bruna Ragaini, Dawn Aitken, Prior Nonmelanoma Skin Cancer is Associated with Fewer Fractures, More Vitamin D Sufficiency, Greater Bone Mineral Density, and Improved Bone Microarchitecture in Older Adults, The American Journal of Medicine,
Volume 137, Issue 10, 2024, Pages 974-982.e1, ISSN 0002-9343

Terapia sostitutiva con testosterone e BMD nei sopravvissuti a tumore testicolare

Il tumore testicolare è una neoplasia con alta incidenza nei giovani uomini e un tasso di sopravvivenza superiore al 95% grazie ai progressi terapeutici. Tuttavia, i trattamenti possono causare effetti collaterali tardivi, inclusa una ridotta produzione di testosterone. L’insufficienza lieve delle cellule di Leydig, caratterizzata da livelli elevati di ormone luteinizzante (LH) e testosterone basso, è associata a una densità minerale ossea compromessa e a un metabolismo alterato.

Questo studio randomizzato e controllato ha investigato se 12 mesi di terapia sostitutiva con testosterone (TRT) possano migliorare la BMD e i marcatori di turnover osseo nei sopravvissuti a tumore testicolare.

Metodologia

Lo studio ha incluso 69 pazienti con insufficienza lieve delle cellule di Leydig, randomizzati a ricevere TRT (gel al 2% applicato transdermicamente fino a una dose massima giornaliera di 40 mg) o placebo. La BMD è stata misurata con assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA) al corpo intero, colonna lombare e collo femorale, mentre i marcatori di turnover osseo, P1NP e CTX, sono stati analizzati su campioni di siero.

Le valutazioni sono state effettuate al basale, dopo 6 e 12 mesi di trattamento, e a 3 mesi dalla sua conclusione. Modelli lineari a effetti misti sono stati utilizzati per analizzare i cambiamenti.

Risultati

Dopo 12 mesi di trattamento:

  • Densità Minerale Ossea (BMD): Non sono state osservate differenze significative tra il gruppo TRT e il placebo in nessuna delle sedi misurate. Ad esempio, la variazione della BMD totale era di 0,01 g/cm² (IC 95%: -0,01-0,02).
  • Marcatori di Turnover Osseo: Il P1NP ha mostrato un aumento lieve ma statisticamente significativo nel gruppo TRT (+11,65 µg/L, IC 95%: 3,96-19,35). Non sono state rilevate variazioni nel CTX.
  • Tollerabilità: La TRT è stata ben tollerata, senza eventi avversi gravi correlati al trattamento.

Discussione

I risultati indicano che 12 mesi di TRT non sono sufficienti per indurre cambiamenti significativi nella BMD. Sebbene l’aumento del P1NP suggerisca una possibile attivazione del turnover osseo, il cambiamento non ha rilevanza clinica. Studi precedenti su uomini non oncologici con ipogonadismo hanno evidenziato miglioramenti della BMD solo dopo trattamenti più prolungati.

Un altro limite dello studio è stato il range quasi normale dei livelli basali di testosterone nei partecipanti, che potrebbe aver ridotto il potenziale beneficio della TRT. Inoltre, la BMD di base era generalmente nella norma, limitando la capacità di osservare miglioramenti significativi.

Conclusioni

La terapia sostitutiva con testosterone per 12 mesi non ha migliorato significativamente la densità minerale ossea nei sopravvissuti a tumore testicolare con insufficienza lieve delle cellule di Leydig. Questo trattamento non dovrebbe essere considerato standard per la salute ossea in questi pazienti. Studi futuri dovrebbero indagare trattamenti di durata più lunga e identificare sottogruppi di pazienti a maggior rischio di osteoporosi.

Lo studio

Jørgensen, P. L., Kreiberg, M., Jørgensen, N., Juul, A., Oturai, P. S., Dehlendorff, C., … Bandak, M. (2023). Effect of 12-months testosterone replacement therapy on bone mineral density and markers of bone turnover in testicular cancer survivors – results from a randomized double-blind trialActa Oncologica62(7), 689–695.

Romosozumab, valutazione del rischio cardiovascolare nei pazienti con osteoporosi

Con l’approvazione di Romosozumab per il trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa, emerge la necessità di un’attenta valutazione del rischio cardiovascolare. Sebbene il farmaco abbia dimostrato un’efficacia superiore nella riduzione delle fratture rispetto all’Alendronato, come evidenziato dallo studio ARCH, i dati clinici sollevano preoccupazioni circa il rischio di eventi cardiovascolari gravi.

Romosozumab: tra efficacia e rischio

Romosozumab, un inibitore della sclerostina con un doppio meccanismo anabolico e anti-riassorbitivo, ha mostrato una riduzione del 48% del rischio di fratture vertebrali in un periodo di 24 mesi. Tuttavia, lo stesso studio ha rilevato un aumento significativo di eventi cardiovascolari seri. Sebbene altri studi con placebo non abbiano replicato questi risultati, una meta-analisi ha confermato un rischio maggiore, supportato anche da studi genetici che collegano l’inibizione della sclerostina a un incremento del rischio di infarto miocardico.

Metodi

Gli strumenti di valutazione del rischio cardiovascolare, come il QRISK3 e l’ESC SCORE, sono stati al centro di uno studio real-world condotto nel Sud-Ovest dell’Inghilterra. Questo progetto, durato sei mesi, ha analizzato il rischio cardiovascolare decennale di 41 pazienti candidati a Romosozumab.

Risultati principali:

  • QRISK3: Fornisce un rischio medio del 15,9%, significativamente superiore rispetto all’8,2% dell’ESC SCORE.
  • Differenze di calcolo: QRISK3 sovrastima il rischio nei pazienti più anziani, mentre l’ESC SCORE potrebbe sottovalutarlo, ignorando fattori come il diabete.
  • Decisioni cliniche: Nonostante i rischi cardiovascolari, il 95% dei pazienti è stato trattato con Romosozumab, a causa dell’elevato rischio di fratture.

Conclusioni

Lo studio, pubblicato ad ottobre 2024, evidenzia che i due strumenti di valutazione non sono intercambiabili e sottolinea l’importanza di una stratificazione personalizzata del rischio cardiovascolare. La scelta dell’ESC SCORE da parte del gruppo di ricerca locale riflette la necessità di un approccio pragmatico, ma ulteriori studi sono essenziali per creare linee guida condivise.

Prospettive future

Con la crescente adozione di Romosozumab, è fondamentale integrare la valutazione del rischio cardiovascolare nella pratica clinica per ottimizzare i benefici del trattamento e minimizzare i potenziali rischi.

Lo studio 

F. Macrae, E.M. Clark, K. Walsh, S.-J. Bailey, M. Roy, S. Hardcastle, C. Cockill, J.H. Tobias, B.G. Faber, Cardiovascular risk assessment for osteoporosis patients considering Romosozumab, Bone, Volume 190, 2025, 117305, ISSN 8756-3282.

Antidepressivi e salute ossea: un legame critico tra depressione, farmaci e osteoporosi

L’osteoporosi rappresenta una delle principali sfide di salute pubblica, con un’incidenza significativa nelle donne adulte. La depressione, a sua volta, è una delle condizioni psichiatriche più comuni, trattata frequentemente con antidepressivi.

Un’analisi su oltre vent’anni di dati del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) ha rivelato una correlazione significativa tra l’uso di antidepressivi e il rischio di osteoporosi e fratture. In particolar modo, lo studio, condotto su una vasta popolazione femminile negli Stati Uniti, indaga il possibile legame tra uso di antidepressivi e riduzione della densità minerale ossea (BMD), evidenziando i rischi associati a specifiche classi di farmaci.

Metodologia

L’analisi, basata su dati di dieci coorti NHANES (1999–2020), ha incluso oltre 30.000 donne adulte. Sono state raccolte informazioni dettagliate su utilizzo di antidepressivi, BMD e fratture, controllando variabili come età, attività fisica e comorbidità. Sono stati considerati i principali farmaci antidepressivi: SSRI, SNRI, triciclici, fenilpiperazine e antidepressivi “miscellanei”.

Risultati principali

  1. Aumento del rischio di osteoporosi:
    Le donne che assumevano antidepressivi avevano il 44% di probabilità in più di sviluppare osteoporosi rispetto a chi non li utilizzava. Le fenilpiperazine hanno mostrato l’associazione più forte, seguite dagli antidepressivi miscellanei e triciclici.
  2. Durata e numero di farmaci:
    L’aumento del rischio era proporzionale alla durata e al numero di antidepressivi assunti. Ogni anno di utilizzo incrementava il rischio del 6%.
  3. Fratture:
    Gli utenti di antidepressivi presentavano un rischio di fratture superiore del 62%. Anche in questo caso, fenilpiperazine e antidepressivi miscellanei erano associati al rischio maggiore.

Discussione

I risultati confermano che gli antidepressivi, pur essendo fondamentali nel trattamento della depressione, possono avere un impatto negativo sulla salute ossea. Tra i meccanismi ipotizzati vi sono l’interferenza con i recettori serotoninergici e dopaminergici e l’effetto negativo sulla proliferazione delle cellule ossee. Questo impone una maggiore attenzione clinica, soprattutto per donne in post-menopausa, già vulnerabili a causa della riduzione degli estrogeni.

Conclusioni

Questo studio sottolinea la necessità di bilanciare i benefici degli antidepressivi con i loro potenziali effetti avversi sulla salute ossea. Lo studio, esplorando le implicazioni di diverse classi di antidepressivi sulla salute ossea, sottolinea la necessità di un approccio clinico più attento nella prescrizione di farmaci a pazienti con depressione e rischio di osteoporosi: i medici dovrebbero valutare attentamente il rischio di osteoporosi e fratture nei pazienti depressi, adattando le terapie in base alle specifiche necessità cliniche. È urgente, quindi, includere raccomandazioni sull’uso degli antidepressivi nei protocolli per la gestione dell’osteoporosi.

Lo studio

Humam Emad Rajha, Reem Abdelaal, Khouloud Charfi, Aisha O. Alemadi, Alyaa S. Al-Sheraim, Mubarak A. Al-Maadid, Youssef Louati, Suhail Doi, Salma M. Khaled,
Examining depression, antidepressants use, and class and their potential associations with osteoporosis and fractures in adult women: Results from ten NHANES cohorts,
Journal of Affective Disorders, Volume 369, 2025, Pages 1223-1232, ISSN 0165-0327.

Metformina, quale effetto sulla BMD nelle donne con diabete di tipo 2?

Le donne con diabete di tipo 2 hanno una densità minerale ossea (BMD) più elevata, sperimentano una perdita di BMD più lenta, ma hanno un rischio maggiore di fratture. Questo effetto paradossale potrebbe essere spiegato dagli effetti avversi del T2D sulla qualità ossea e dall’aumento del rischio di cadute.

Precedenti studi, non fanno chiarezza sull’impatto dei farmaci per il T2D, che rimane attualmente controverso: come dimostrato da altri studi, i tiazolidinedioni, difatti, hanno un impatto negativo sulla densità minerale ossea e l’aggiunta di tiazolidinedioni alla metformina è stata associata a un peggioramento della BMD in un’analisi di sottogruppi RCT.

Partendo da queste considerazioni, lo studio ha voluto esaminare i cambiamenti longitudinali nella BMD tra le donne di mezza età che iniziano la metformina.

Metodologia

Sono stati valutati i partecipanti allo Study of Women’s Health Across the Nation (SWAN), una coorte statunitense diversificata basata su comunità, con misurazioni della BMD. La corrispondenza del punteggio di propensione ha aiutato a bilanciare le caratteristiche di base degli iniziatori della metformina rispetto ai non iniziatori. La regressione del modello misto ha testato la variazione della BMD tra i gruppi. I 248 soggetti, equamente divisi tra donne che avevano iniziato la metformina e donne non iniziatrici, avevano in media 57,4 anni. 

Risultati

La BMD al basale era leggermente più alta negli utilizzatori di metformina in tutti i siti anatomici rispetto ai non utilizzatori.
L’uso di farmaci che influiscono positivamente o negativamente sulla densità minerale ossea è risultato simile tra i due gruppi: le donne che avevano iniziato la metformina presentavano dati simili alle non-iniziatrici.
Durante i 3 anni di follow-up, la perdita di BMD in tutte le aree anatomiche era simile tra i gruppi e nei sottogruppi, inclusa la glicemia a digiuno al basale: la perdita di BMD in tutte le aree anatomiche era simile tra gli iniziatori della metformina e i non utilizzatori (tutti p > 0,3).
L’inizio della terapia con metformina (rispetto al non utilizzo) nelle donne in peri-menopausa non è stato associato a cambiamenti della BMD.

Conclusioni

Sebbene sia stato riconosciuto da alcuni studi che molti farmaci utilizzati per il T2D potrebbero avere un impatto sulla densità minerale ossea e sul rischio di frattura, l’effetto della metformina sulla densità minerale ossea è meno chiaro.

Le donne di mezza età che hanno iniziato la metformina hanno avuto cambiamenti longitudinali nella densità minerale ossea molto simili ad altre donne che non hanno iniziato la metformina.

In conclusione, si può affermare che la cura con metformina non è associata a differenze nella perdita di densità minerale ossea tra le donne nel periodo peri-menopausale. Questi risultati suggeriscono, quindi, che quando si prendono decisioni terapeutiche per i pazienti con T2D, la metformina dovrebbe essere considerata sicura per le donne ad alto rischio di osteoporosi.

Lo studio

Solomon, D.H., Ruppert, K., Cauley, J.A. et al. The effect of starting metformin on bone mineral density among women with type 2 diabetes in the Study of Women’s Health Across the Nation (SWAN)Osteoporos Int 35, 189–194 (2024).

Ictus, bassa BMD come fattore predittivo di mortalità e infezioni

La letteratura ha presentato vari studi che mostrano una correlazione tra una bassa densità minerale ossea (BMD) e rischi elevati di mortalità e infezioni nella popolazione generale: partendo da questa correlazione, uno studio taiwanese si propone di indagare l’incidenza di un indice basso di densità minerale ossea su mortalità, infezioni e polmonite tra i pazienti con ictus.

Metodologia

Questo studio di coorte retrospettivo si è basato su dati recuperati da 905 pazienti ambulatoriali e ospedalieri, con ictus ischemico ed emorragico, per il periodo dal 1° gennaio 2000 e il 1° gennaio 2022.
I pazienti sono stati raggruppati in base alle misurazioni della BMD del femore e della colonna vertebrale. L’outcome primario dello studio è il dato sulla mortalità per tutte le cause, mentre gli esiti secondari riguardano l’infezione del tratto urinario (UTI) e la polmonite. I pazienti con una storia di infezioni delle vie urinarie o polmonite prima dell’ictus sono stati esclusi dalle analisi degli esiti secondari per ridurre al minimo i potenziali fattori confondenti correlati alle infezioni delle vie urinarie o alla polmonite.
Tutti i pazienti sono stati divisi in 2 gruppi in base alla sopravvivenza e alla comparsa di complicanze per esplorare il possibile predittore.
Le analisi del modello di regressione temporale del fallimento accelerato hanno valutato l’associazione tra BMD e questi risultati, mentre il metodo Kaplan-Meier e il test dei ranghi logaritmici hanno valutato le differenze di sopravvivenza tra i gruppi.

Risultati

Tra i partecipanti (età media 76,1 anni, 70,5% donne), il 33,82% presentava osteopenia e il 55,25% osteoporosi. I pazienti colpiti da ictus con BMD della colonna vertebrale inferiore e del femore destro avevano tassi di sopravvivenza significativamente ridotti, soprattutto quando il valore della BMD scendeva rispettivamente al di sotto di 0,842 g/cm2 (colonna vertebrale) e 0,624 g/cm2 (femore destro).

Per quanto riguarda gli esiti secondari, analizzando la casistica di 663 pazienti, la BMD della colonna vertebrale inferiore risulta significativamente associata a un aumento del rischio di UTI.

Lo studio ha visto l’inclusione di 664 pazienti con ictus nell’analisi dell’incidenza della polmonite successiva all’ictus. Si sono verificati 139 (20,9%) casi di polmonite post-ictus, equivalenti a circa 584 eventi. È stato osservato che questi pazienti avevano un’età più avanzata, una percentuale più elevata di donne e una maggiore prevalenza di ipertensione, storia di ictus ricorrente, fratture osteoporotiche, ma non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa tra i livelli di BMD e l’insorgenza di polmonite.

Conclusione

Come evidenziato da risultati sopra riportati, una bassa densità minerale ossea, in particolare nel femore e nella colonna vertebrale, è un fattore predittivo significativo di mortalità e infezioni delle vie urinarie nei pazienti con ictus; risulta invece non diretta l’associazione tra bassa BMD e polmonite.
In conclusione, quindi, questo studio ha evidenziato, dato la correlazione tra BMD e infezioni urinarie in caso di ictus, l’importanza di valutare e gestire anche la densità minerale ossea in questi pazienti al fine di migliorare i risultati e ridurre le complicanze.

Lo studio

Yu-Lin Tsai, Ya-Chi Chuang, Yuan-Yang Cheng, Ya-Lian Deng, Shih-Yi Lin, Chun-Sheng Hsu, Low Bone Mineral Density as a Predictor of Mortality and Infections in Stroke Patients: A Hospital-Based StudyThe Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 109, Issue 12, December 2024, Pages 3055–3064.

 

 

Farmaci antilipidici e fragilità ossea: il ruolo degli inibitori di PCSK9 nell’osteoporosi

L’osteoporosi è una patologia progressiva che causa una riduzione della massa ossea e un deterioramento della microstruttura dell’osso, aumentando così la fragilità e il rischio di fratture, particolarmente negli anziani. Recenti ricerche suggeriscono che elevati livelli di colesterolo totale e LDL possono contribuire a questo deterioramento, aumentando i rischi di osteoporosi e fratture. In questo contesto, i farmaci antilipidici, in particolare gli inibitori di PCSK9, mostrano potenziale non solo nel trattamento delle malattie cardiovascolari ma anche nel proteggere la salute delle ossa.

Gli inibitori di PCSK9 riducono il colesterolo LDL e potrebbero indirettamente influenzare positivamente il metabolismo osseo, poiché l’iperlipidemia è collegata alla disfunzione delle cellule ossee. Gli effetti infiammatori di PCSK9 e il ruolo degli agenti antilipidici, come le statine, nel miglioramento della densità minerale ossea (BMD) aprono nuove prospettive terapeutiche. Nonostante il loro buon profilo di sicurezza, ulteriori studi sono necessari per capire appieno l’impatto degli inibitori di PCSK9 sull’osteoporosi, soprattutto per pazienti con comorbilità cardiovascolari e scarsa tolleranza ai trattamenti tradizionali.

Inoltre, le analisi genetiche MR (Mendelian Randomization) stanno emergendo come metodologie promettenti per valutare l’effetto causale di questi farmaci sull’osteoporosi, aprendo la strada alla scoperta di nuovi target terapeutici.

Metodologia

Lo studio ha impiegato un’analisi di randomizzazione mendeliana (MR) per esplorare il legame tra inibitori di PCSK9 e HMGCR e l’osteoporosi, utilizzando la coronaropatia (CHD) come controllo positivo per validare l’affidabilità. I dati di associazione su tutto il genoma (GWAS), che includono i polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) legati ai geni PCSK9 e HMGCR e ai livelli di colesterolo LDL, sono stati raccolti da ampi set di dati di individui europei, garantendo la consistenza e generalizzabilità dei risultati.

Per l’analisi MR, sono stati utilizzati vari metodi statistici, tra cui IVW e MR Egger, per valutare la validità degli strumenti genetici, rilevando eventuale eterogeneità e pleiotropia. Inoltre, il sito PhenoScanner ha aiutato a escludere SNP che potessero confondere i risultati. Per stabilizzare i risultati, è stato applicato un metodo “leave-one-out” che analizza singolarmente l’impatto di ogni SNP.

L’analisi di sensibilità e la meta-analisi finale hanno incluso solo i risultati stabili, e tutte le analisi sono state condotte con il software R, versione 4.3.1.

Discussione

Gli inibitori di PCSK9 (PCSK9i) sono farmaci antilipidici che, oltre a ridurre il colesterolo LDL, possono avere effetti antinfiammatori. Tuttavia, la loro influenza sull’osteoporosi è poco studiata. L’osteoporosi è legata all’infiammazione e al metabolismo dei lipidi; infatti, uno squilibrio lipidico sembra favorire la fragilità ossea. Sorprendentemente, in questo studio, i SNP legati a PCSK9 hanno mostrato un’associazione con un aumento del rischio di osteoporosi, contrariamente alle ipotesi iniziali.

La diminuzione degli estrogeni, particolarmente significativa nelle donne in post-menopausa, è un fattore di rischio per l’osteoporosi; inoltre, i PCSK9i potrebbero influenzare il metabolismo degli estrogeni, impattando negativamente la salute ossea. Al contrario, gli inibitori di HMGCR non hanno mostrato questa associazione con l’osteoporosi e sembrano avere effetti protettivi sulla struttura ossea.

Lo studio ha limitazioni dovute alla dipendenza da analisi basate su database genetici (come l’UKB) che potrebbero non essere generalizzabili a popolazioni non europee. Ulteriori studi clinici e una maggiore diversità dei dati genetici sono necessari per confermare questi risultati e migliorare la comprensione dell’effetto dei PCSK9i sull’osteoporosi.

Conclusione

L’analisi RM suggerisce che la variazione genetica nel gene PCSK9 è associata a un aumento del rischio di osteoporosi, indicando che gli inibitori di PCSK9 potrebbero elevare tale rischio. Al contrario, gli inibitori di HMGCR non mostrano associazioni con l’osteoporosi. Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere i meccanismi alla base di questa relazione.

Lo studio

Chen DQ, Xu WB, Xiao KY, Que ZQ, Feng JY, Sun NK, Cai DX, Rui G. PCSK9 inhibitors and osteoporosis: mendelian randomization and meta-analysis. BMC Musculoskelet Disord. 2024 Jul 16;25(1):548. doi: 10.1186/s12891-024-07674-w. PMID: 39010016; PMCID: PMC11251371.