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Farmaci per l’osteoporosi, come sarà il mercato nel 2027

Il rapporto di GlobalData “Global Drug Forecast and Market Analysis to 2027” rivela che il mercato globale dei farmaci per contrastare l’osteoporosi dovrebbe crescere con un tasso di annuale (Cagr) del 3,2%, raggiungendo un picco di vendite di $ 10,2 miliardi nel 2027. Vi sono tuttavia ostacoli importanti a un maggior incremento, che vanno dal basso numero di casi diagnosticati agli importanti effetti collaterali dei farmaci e alla scarsa compliance.

Secondo i principali opinion leader intervistati da GlobalData, oltre a questi fattori, a frenare la crescita contribuisce una significativa mancanza di profili di sicurezza relativi alle attuali opzioni terapeutiche, in particolare per il loro utilizzo nel lungo periodo.

Nuove opzioni terapeutiche

Valentina Gburcik, PhD, Senior Director of Cardiovascular and Metabolic Disorders at GlobalData, ha commentato: “Nelle vendite, il mercato dell’osteoporosi è attualmente dominato dal Prolia (denosumab) di Amgen e da Forteo (teriparatide) di Eli Lilly. Queste società hanno prevalso rispetto a leader di mercato storici come Novartis, Merck e Roche, che hanno perso il loro dominio sul mercato alla scadenza del brevetto delle terapie chiave anti-riassorbimento, in particolare i bisfosfonati. Nuove terapie come Tymlos (abaloparatide) di Radius Health e Evenity di Amgen (romosozumab) si sono aggiunte a Forteo nel mercato dell’osteoporosi per formare un assortimento di terapie anaboliche che non solo prevengono il riassorbimento osseo ma stimolano anche la formazione ossea. Tuttavia, i prezzi elevati, nonché i problemi di sicurezza ed efficacia associati a questi farmaci, rappresentano una barriera per il loro uso di prima linea”.

“Forteo – afferma Valentina Gburcik – è stato il primo trattamento anabolico approvato per l’osteoporosi, seguito da Tymlos e Evenity. Evenity è stato approvato quest’anno negli Stati Uniti e in Giappone e ha lo stesso livello di prezzo di Tymlos, ma uno sconto del 50% circa su Forteo, che deve affrontare l’imminente arrivo del generico. Tuttavia, Evenity presenta un beneficio inferiore alla frattura non vertebrale e riporta sul foglietto illustrativo un’avvertenza relativa ai rischi cardiovascolari, che potrebbe influire seriamente sulla diffusione di Evenity, nonostante la somministrazione più conveniente del farmaco rispetto ai suoi concorrenti (somministrazione mensile rispetto a giornaliera). Inoltre, gli studi clinici non hanno dimostrato chiari benefici di efficacia di Tymlos rispetto a Forteo“.

“Offrire sconti per Tymlos e Evenity – conclude l’esperta – è un’ottima tattica per contrastare la concorrenza dei biosimilari di teriparatide e denosumab, che si prevede avranno un forte impatto nei prossimi dieci anni, rubando quote di mercato ai loro omologhi branded. Tuttavia, il prezzo più basso potrebbe non aiutare Evenity a competere efficacemente, poiché i problemi di sicurezza del farmaco potrebbero rallentarne significativamente l’affermazione“.

Vitamina D, nuovi criteri regolatori Aifa per la prescrivibilità a carico del Ssn

L’Agenzia Italiana del Farmaco, con determinazione n. 1533/2019, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Della Repubblica Italiana Serie generale n. 252 del 26 ottobre 2019, rende nota l’istituzione della Nota 96, che regolamenta la prescrizione a carico del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), nella popolazione adulta (età > 18 anni), dei medicinali con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di Vitamina D” (colecalciferolo, colecalciferolo/sali di calcio, calcifediolo).

Limiti di prescrizione di farmaci con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di Vitamina D”

I farmaci con indicazione “prevenzione e trattamento della carenza di vitamina D” inclusi nella Nota 96 sono:

  • colecalciferolo
  • colecalciferolo/Sali di calcio
  • calcifediolo

La loro prescrizione a carico del SSN nell’adulto (>18 anni) viene limitata a particolari condizioni

A. indipendentemente dalla determinazione della 25(OH) D

  • persone istituzionalizzate
  • donne in gravidanza o in allattamento
  • persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate non candidate a terapia remineralizzante (vedi nota 79)

B. previa determinazione della 25(OH) D

  • persone con livelli sierici di 25OHD < 20 ng/mL e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia, mialgie, dolori diffusi o localizzati, frequenti cadute immotivate)
  • persone con diagnosi di iperparatiroidismo secondario a ipovitaminosi D
  • persone affette da osteoporosi di qualsiasi causa o osteopatie accertate candidate a terapia remineralizzante per le quali la
    correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia (le terapie remineralizzanti dovrebbero essere iniziate dopo la correzione della ipovitaminosi D)
  • una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D
  • malattie che possono causare malassorbimento nell’adulto

 

Diagramma di flusso applicabile a persone > 18 anni per la determinazione della 25OH Vit D

 

Aifa fa sapere che l’istituzione della Nota 96 si colloca nell’ambito delle attività di rivalutazione dell’appropriatezza prescrittiva che hanno condotto la Commissione Tecnico-Scientifica dell’AIFA, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, a ritenere opportuno introdurre nuovi criteri regolatori per la prescrivibilità a carico del SSN, nella popolazione adulta, della vitamina D.

L’Agenzia specifica inoltre che, nelle more di un analogo processo di rivalutazione, restano al momento invariate le condizioni di rimborsabilità a carico del SSN di tali farmaci nella popolazione pediatrica.

 

Istituzione della Nota AIFA 96 relativa alla prescrizione, a carico del SSN, dei farmaci indicati per la prevenzione ed il trattamento della carenza di vitamina D nell’adulto (>18 anni). (Determina n. 1533/ 2019)

Allegato 1. Guida alla misurazione della 25OHD e alla successiva prescrizione della Vitamina D

Neridronato per via intramuscolare efficace come terapia dell’algodistrofia

Lo studio policentrico NAIMES/32 coordinato dall’Asst Gaetano Pini-Cto, conclude un percorso decennale di ricerca che ha visto nel 2014 l’indicazione del neridronato, molecola della classe di bisfosfonati, come terapia ufficiale di scelta dell’algodistrofia, e la conferma oggi dell’efficacia della somministrazione intramuscolare, modalità che libera il paziente da faticose presenze in ospedale e permette di gestire la terapia in modo indipendente.

La somministrazione di neridronato per via intramuscolare facilita la compliance alla terapia e il raggiungimento del successo terapeutico

“Lo studio clinico realizzato in doppio cieco contro placebo, in collaborazione con sette centri italiani, ha analizzato 78 pazienti – spiega Massimo Varenna, direttore dell’Unità Operativa Semplice di Osteoporosi e Malattie Metaboliche dell’Asst Gaetano Pini-Cto e membro della Siomms (Società Italiana dell’Osteoporosi e delle Malattie del Metabolismo Minerale e dello Scheletro) – e ha dimostrato che l’algodistrofia può essere efficacemente trattata anche somministrando il neridronato per via intramuscolare (70% di risposta positiva a due settimane dal trattamento). La conferma dell’efficacia della via di somministrazione intramuscolare consentirà ai pazienti di seguire l’unica terapia efficace senza la necessità di fare riferimento a strutture ospedaliere, accorciando quindi l’intervallo di tempo tra esordio di malattia a inizio della cura, variabile cruciale che influenza il raggiungimento del pieno successo terapeutico” [1].

Il percorso per la dimostrazione dell’efficacia del neridronato per via intramuscolare

Lo studio NAIMES/32 conclude un percorso iniziato circa dieci anni fa che ha visto nel 2013 la dimostrazione dell’efficacia del neridronato con la pubblicazione dello studio “Treatment of Complex Regional Pain Syndrome type I with neridronate: a randomized, double-blind, placebo-controlled study” che prevedeva la somministrazione per via endovenosa, in ambiente ospedaliero e nel febbraio 2014 l’ottenimento della specifica indicazione di Aifa quale trattamento di scelta della aindrome algodistrofica. [2]

Che cosa è l’algodistrofia

L’algodistrofia o Complex Regional Pain Syndrome di tipo I (CRPS-I), ha un’incidenza stimata di 26 casi su 100.000 soggetti l’anno, presenta tipiche manifestazioni cliniche costituite da un intenso processo infiammatorio nelle sedi di malattia al quale si accompagna la manifestazione scheletrica che è rappresentata da una severa demineralizzazione dello scheletro della mano e del piede che può giungere a un livello tale da causare fratture.

Nella maggior parte dei casi la malattia si sviluppa in seguito a un trauma, ma il dolore scatenato è in genere sproporzionato rispetto a quello atteso in base al trauma stesso.

Il sintomo dominante è il dolore che assume i caratteri particolari propri dell’iperalgesia (dolore sproporzionato allo stimolo) e dell’allodinia (dolore scatenato anche da stimoli che normalmente non inducono alcuna sintomatologia dolorosa).

Se non trattata precocemente l’algodistrofia può causare invalidità permanente nella funzione della mano e del piede, con tutto quello che questo può comportare per la qualità di vita del paziente.

Che cosa è il nedirdronato

Il neridronato è un aminobisfosfonato con attività anti-riassorbitiva in grado di determinare la riduzione del turnover osseo: questa proprietà è alla base dell’uso della molecola nell’osteogenesi imperfetta e nella malattia ossea di Paget.

Nell’algodistrofia esercita un’azione terapeutica interferendo con le cellule infiammatorie che si accumulano nel sito di malattia.

Il neridronato è l’unico bisfosfonato con indicazione per il trattamento dell’algodistrofia e ha mostrato un profilo di sicurezza elevato sia nella popolazione adulta che in quella infantile.

Per approfondire

  1. Varenna M et al. Predictors of responsiveness to bisphosphonate treatment in patients with Complex Regional Pain Syndrome Type I: A retrospective chart analysis. Pain Med 2017;18:1131-1138.
  2. Gazzetta Ufficiale N° 28 – 4 Febbraio

Discontinuazione del denosumab e terapia di consolidamento farmacologico

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Nell’annosa questione della discontinuazione del denosumab, tutte le raccomandazioni cliniche enfatizzano come sia necessaria una terapia di consolidamento farmacologico con un aminobisfosfonato al fine di contrastare la perdita di massa ossea e le fratture vertebrali da rimbalzo (1); tuttavia ad oggi non è noto quale sia il migliore regime di terapia per quanto riguarda la molecola da utilizzare, il timing di somministrazione e la durata del trattamento.

Gestione terapeutica dei pazienti alla sospensione del denosumab, studi osservazionali

Nel Gennaio del 2019 Lamy O et al pubblicano nella sezione Therapeutics and Medical Management di Current Osteoporosis Reports (2) alcune utili raccomandazioni per la gestione terapeutica dei pazienti alla sospensione del denosumab.

La prima parte dell’articolo è dedicata alle poche evidenze scientifiche presenti in letteratura, in particolare gli autori segnalano i seguenti studi osservazionali:

  • Freemantle N et al (3) descrivono 115 donne con osteoporosi post-menopausale (T-score lombare o femorale compreso fra -2 e -4) trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 1 anno e quindi shiftate ad alendronato 70 mg alla settimana per un altro anno (start della terapia con alendronato: 6 mesi dalla seconda somministrazione di denosumab), dimostrando alla fine dei 12 mesi di terapia con alendronato una sostanziale stabilità del guadagno densitometrico ottenuto nel primo anno di terapia con denosumab (gli autori concludono per un effetto protettivo dell’alendronato);
  • Lehmann T et al (4) descrivono 22 donne con osteoporosi post-menopausale (7 con fratture vertebrali e 7 con fratture non vertebrali) trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 2 anni e mezzo e quindi shiftate ad una singola infusione di zoledronato 5 mg ev (somministrato 6 mesi dall’ultima puntura di denosumab), dimostrando una perdita del guadagno di BMD lombare e femorale rispettivamente del 40% e 45% ma l’assenza di fratture vertebrali da rimbalzo a 5 anni di follow-up dopo la sospensione del denosumab (gli autori concludono per un effetto protettivo dello zoledronato sulle fratture a fronte di una perdita significativa della BMD);
  • Reid IR et al (5) descrivono 6 donne con osteoporosi post-menopausale trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 7 anni (pazienti dello studio Freedom) e quindi shiftate ad una singola infusione di zoledronato 5 mg ev (somministrato 6 mesi dall’ultima puntura di denosumab), dimostrando una perdita del guadagno di BMD lombare e femorale rispettivamente del 50% e 100% ma l’assenza di fratture vertebrali da rimbalzo a 2 anni di follow-up dopo la sospensione del denosumab (gli autori concludono per un effetto di protezione parziale dello zoledronato);
  • Horne AM et al (6) descrivono 11 donne con osteoporosi post-menopausale trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 2 anni (dopo 1 anno di romosozumab -pazienti dello studio FRAME-) e quindi shiftate ad una singola infusione di zoledronato 5 mg ev (somministrato con una latenza temporale dall’ultima puntura di denosumab compresa fra 15 giorni e 5 mesi e mezzo -latenza media di 2 mesi-), dimostrando una perdita del guadagno di BMD lombare e femorale rispettivamente del 27% (ritenzione del guadagno di BMD pari al 73%) e 13% (ritenzione del guadagno di BMD pari all’87%) ad un follow-up inferiore ad 1 anno (ad un follow-up di 2 anni si verifica una minima ulteriore perdita di BMD lombare e femorale); in questo stesso studio osservazionale, 5 donne sono invece shiftate a risedronato 35 mg alla settimana per 1 anno (start della terapia con risedronato: 6 mesi dall’ultima somministrazione di denosumab) con una perdita di BMD lombare e femorale rispettivamente del 59% e 36% ad un follow-up di 1 anno (gli autori concludono per un migliore effetto sul mantenimento della BMD se lo zoledronato viene somministrato a 7-8 mesi dall’ultima puntura di denosumab);
  • Leder BZ et al (7) descrivono 50 donne che hanno completato il DATA study (2 anni di teriparatide o denosumab o entrambi seguiti nei successivi 2 anni dalla terapia alternativa o da denosumab dopo terapia combinata) e che sono valutate a 15 mesi dalla fine dello studio: la BMD è mantenuta solo nelle pazienti che hanno ricevuto una immediata terapia anti-riassorbitiva (denosumab, zoledronato, alendronato o ibandronato orale) e nessuna paziente ha sviluppato fratture vertebrali (gli autori concludono per la necessità di una tempestiva terapia di consolidamento farmacologico alla sospensione del denosumab o del teriparatide);
  • Anastasilakis AD et al (8) descrivono 27 donne con osteoporosi post-menopausale (10 pazienti con fratture vertebrali) trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi (durata media della terapia pari a 2 anni) e quindi shiftate (dopo raggiungimento di T-score osteopenico) ad una singola infusione di zoledronato 5 mg ev (somministrato 6 mesi dall’ultima puntura di denosumab con una finestra temporale di 3 settimane), dimostrando un incremento (anche se non significativo) della BMD lombare e femorale a 12 mesi e un ritorno al valore basale a 24 mesi e la comparsa in una paziente di 2 fratture vertebrali a 12 mesi dopo l’infusione (gli autori concludono per un effetto protettivo dello zoledronato sulla BMD).

Che cosa si può dedurre dagli studi osservazionali

Gli studi suddetti permettono di fare le seguenti considerazioni

  • al fine di contrastare la perdita di BMD alla discontinuazione del denosumab, la scelta deve ricadere necessariamente su un aminobisfosfonato “efficace” con elevata affinità per i cristalli di idrossiapatite e con elevata potenza anti-riassorbitiva (alendronato orale, zoledronato endovena);
  • il timing di somministrazione dell’aminobisfosfonato cambia a seconda che si tratti di una formulazione orale o endovena: è consigliabile iniziare la somministrazione dell’alendronato orale a partire da 5-6 mesi dall’ultima puntura di denosumab in modo che il farmaco inizi il suo progressivo accumulo nella matrice ossea mano a mano che riparte il rimodellamento osseo alla discontinuazione del denosumab, mentre è consigliabile infondere lo zoledronato endovena 7-8 mesi dall’ultima puntura di denosumab (o in base al valore appropriato di CTX sierico) in modo da sfruttare il momento di picco del CTX sierico alla discontinuazione del denosumab e al tempo stesso non aspettare troppo a lungo e rischiare una frattura vertebrale da rimbalzo;
  • è necessario in corso di terapia di consolidamento farmacologico per un follow-up di due anni eseguire un monitoraggio del CTX sierico ogni circa 3 mesi (target del CTX sierico inferiore al limite superiore del range pre-menopausale pari a 0,300 ng/ml) e della DEXA lombare e femorale ogni 12 mesi (variazione della BMD inferiore al LSC -least significant change- pari al 5% per la colonna e al 4% per il collo femorale).

Che cosa è opportuno fare nella discontinuazione del denosumab

Alla luce delle suddette considerazioni, gli autori propongono:

  • per i pazienti per i quali si è scelta come terapia di consolidamento l’alendronato orale 70 mg alla settimana:
    – se il corso di follow-up il valore di CTX sierico è inferiore a 0,300 ng/ml e/o la variazione della BMD è inferiore al LSC, si prosegue con alendronato 70 mg alla settimana;
    – se al contrario il valore di CTX sierico è superiore a 0,300 ng/ml e/o la variazione della BMD è superiore al LSC, si shifta da alendronato 70 mg alla settimana a zoledronato 5 mg endovena;
  • per i pazienti per i quali si è scelta come terapia di consolidamento l’infusione di zoledronato 5 mg endovena:
    – se il corso di follow-up il valore di CTX sierico è inferiore a 0,300 ng/ml e/o la variazione della BMD è inferiore al LSC, si prosegue con il follow-up;
    – se al contrario il valore di CTX sierico è superiore a 0,300 ng/ml e/o la variazione della BMD è superiore al LSC, si somministra una seconda infusione di zoledronato 5 mg endovena.

In caso di fratture vertebrali da rimbalzo in corso di discontinuazione del denosumab, gli autori consigliano quanto segue:

  • la vertebroplastica è controindicata in quanto può favorire ulteriori cedimenti vertebrali
  • è necessario eseguire un pannello biochimico completo del metabolismo fosfo-calcico (incluso il CTX sierico) e una RMN del rachide lombare e dorsale
  • è necessaria la immediata riassunzione della terapia con denosumab
  • in assenza di controindicazioni e dopo avere accertato la soppressione del CTX sierico, è necessario aggiungere al denosumab la terapia anabolizzante con teriparatide
  • alla discontinuazione del teriparatide dopo due anni, è necessario proseguire con il denosumab con una o più somministrazioni (a seconda del target della BMD)
  • dopo la discontinuazione del denosumab, è necessario iniziare un potente aminobisfosfonato.

Applicabilità delle raccomandazioni

Se da un lato le suddette raccomandazioni rappresentano un tentativo di impostare un follow-up attento e approfondito del paziente che discontinua la terapia con denosumab, dall’altro sono poco applicabili alla pratica clinica quotidiana per svariati motivi, non ultimo il fatto che la terapia di consolidamento potrebbe spesso essere off-label (pazienti con densitometria nel range non osteoporotico, infusione di zoledronato con intervallo inferiore a un anno).
Sono necessari studi randomizzati per una corretta validazione delle suddette raccomandazioni. Sono in corso due studi di intervento, randomizzati, open-label, con lo scopo di indagare l’effetto sulla BMD di una singola infusione di zoledronato 5 mg ev (NCT03087851 e NCT02499237).

Bibliografia

  1. Meier C, Uebelhart B, Aubry-Rozier B et al. Osteoporosis drug treatment: duration and management after discontinuation. A position statement from the SVGO/ASCO. Swiss Med Wkly. 2017 Aug 16;147:w14484.
  2. Lamy O, Stoll D, Aubry-Rozier B, Rodriguez EG. Stopping Denosumab. Curr Osteoporos Rep. 2019 Feb;17(1):8-15.
  3. Freemantle N, Satram-Hoang S, Tang ET et al. Final results of the DAPS (Denosumab Adherence Preference Satisfaction) study: a 24-month, randomized, crossover comparison with alendronate in postmenopausal women. Osteoporos Int. 2012 Jan;23(1):317-26.
  4. Lehmann T, Aeberli D. Possible protective effect of switching from denosumab to zoledronic acid on vertebral fractures. Osteoporos Int. 2017 Oct;28(10):3067-3068.
  5. Reid IR, Horne AM, Mihov B, Gamble GD. Bone Loss After Denosumab: Only Partial Protection with Zoledronate. Calcif Tissue Int. 2017 Oct;101(4):371-374.
  6. Horne AM, Mihov B, Reid IR. Bone Loss After Romosozumab/Denosumab: Effects of Bisphosphonates. Calcif Tissue Int. 2018 Jul;103(1):55-61.
  7. Leder BZ, Tsai JN, Jiang LA, Lee H. Importance of prompt antiresorptive therapy in postmenopausal women discontinuing teriparatide or denosumab: The Denosumab and Teriparatide Follow-up study (DATA-Follow-up). Bone. 2017 May;98:54-58.
  8. Anastasilakis AD, Papapoulos SE, Polyzos SA, Appelman-Dijkstra NM, Makras P. Zoledronate for the Prevention of Bone Loss in Women Discontinuing Denosumab Treatment. A Prospective 2-year Clinical Trial. J Bone Miner Res. 2019 Aug 21.

Artrite reumatoide, parere positivo del Chmp per upadacitinib

A fronte dei dati del programma globale di studi clinici di fase III SELECT, il Comitato per i medicinali ad uso umano (Chmp, Committee for Medicinal Products for Human Use) dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA, European Medicines Agency) ha rilasciato il proprio parere positivo per upadacitinib – un inibitore selettivo e reversibile della JAK-1 (Janus kinase) somministrato per via orale una volta al giorno – per il trattamento dell’artrite reumatoide da moderatamente a severamente attiva in pazienti adulti che hanno risposto in modo inadeguato o che sono intolleranti a uno o più farmaci antireumatici modificanti la malattia (DMARD, disease-modifying anti-rheumatic drug).

Supportato dai dati del programma registrativo SELECT di fase III sull’artrite reumatoide, che ha valutato oltre 4.400 pazienti in Italia e altri Paesi, il parere positivo del Chmp dell’EMA verrà ora ratificato dalla Commissione europea per l’approvazione finale

Lo ha annunciato AbbVie, azienda biofarmaceutica globale basata sulla ricerca e impegnata nello sviluppo di terapie innovative per alcune delle malattie più complesse e gravi nel mondo. 

Il parere positivo del Chmp costituisce una raccomandazione scientifica per il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio da parte della Commissione europea che emetterà la sua decisione finale valida in tutti gli Stati membri dell’Unione europea, nonché in Islanda, Liechtenstein e Norvegia. La decisione della Commissione è prevista entro 67 giorni dal rilascio del parere del Chmp (ovvero dal 18 ottobre 2019).

Studi a supporto del parere positivo del Chmp per upadacitinib

Il parere positivo del Chmp è supportato dai dati del programma globale di studi clinici di fase III SELECT sull’artrite reumatoide, che ha valutato oltre 4.400 pazienti, in Italia e altri paesi, con artrite reumatoide da moderatamente a gravemente attiva nel corso di cinque studi registrativi.

In tutti e cinque gli studi – SELECT-NEXT, SELECT-BEYOND, SELECT-MONOTHERAPY, SELECT-COMPARE e SELECT-EARLY – sono stati soddisfatti tutti gli endpoint primari e secondari classificati: con upadacitinib – sia in monoterapia che in associazione con DMARD sintetici convenzionali – è stato osservato un miglioramento della risposta rispetto a placebo, metotrexato o adalimumab (a seconda del disegno dello studio).

I dati del programma SELECT hanno dimostrato un profilo di sicurezza coerente in tutti e cinque gli studi.

Le reazioni avverse riportate con maggiore frequenza sono state le infezioni.

Il programma di studi SELECT

Il robusto programma di studi di fase III sull’artrite reumatoide SELECT, che vede l’Italia tra i paesi coinvolti, ha valutato oltre 4.400 pazienti con artrite reumatoide da moderatamente a gravemente attiva nel corso di cinque studi registrativi. Gli studi hanno incluso valutazioni di efficacia, sicurezza in un ampio spettro di pazienti con artrite reumatoide, compresi quelli naïve al metotressato (MTX) e quelli che avevano avuto una risposta inadeguata o avevano manifestato intolleranza a uno o più DMARD sintetici o biologici convenzionali.

I principali risultati di efficacia valutati hanno incluso la risposta ACR, il punteggio DAS28-CRP e l’inibizione della progressione radiografica.

Per ulteriori approfondimenti: www.clinicaltrials.gov (NCT02706847, NCT03086343, NCT02629159, NCT02706873, NCT02706951).

Upadacitinib

Scoperto e sviluppato da AbbVie, upadacitinib (nome commerciale Rinvog) è un inibitore selettivo e reversibile della JAK-1 attualmente sottoposto a revisione da parte delle autorità sanitarie di tutto il mondo nel trattamento dell’artrite reumatoide da moderatamente a gravemente attiva,

Upadacitinib (nome commerciale Rinvoq) è un JAK inibitore attivo per via orale in mono somministrazione giornaliera sviluppato da AbbVie

Il farmaco è in fase di studio anche in altre malattie infiammatorie immuno-mediate.1-16 Sono in corso studi di fase III con upadacitinib nelle seguenti patologie: artrite psoriasica, Malattia Crohn, dermatite atopica, colite ulcerosa e arterite a cellule giganti; la molecola è attualmente studiata anche nel trattamento della spondilite anchilosante.

I commenti degli stakeholder

L’artrite reumatoide è una malattia cronica debilitante che colpisce circa 23,7 milioni di persone in tutto il mondo”, sottolinea il Prof. Luigi Sinigaglia, Presidente Nazionale della Società Italiana di Reumatologia, “e nonostante negli ultimi 20 anni siano stati compiuti significativi progressi terapeutici, meno del 30% delle persone affette dalla malattia ottiene la remissione. È pertanto evidente la necessità per il clinico di disporre di nuove e innovative opzioni di trattamento”.

“Siamo lieti di comunicare che una fase rilevante del processo produttivo di upadacitinib verrà realizzata in Italia, nel nostro stabilimento di Campoverde”, evidenzia Annalisa Iezzi, Direttore Medico, AbbVie Italia. “L’opinione positiva del CHMP riconosce il potenziale di upadacitinib per i pazienti affetti da artrite reumatoide ed è in linea con il nostro obiettivo, quello di fornire terapie innovative in grado di rispondere ai bisogni insoddisfatti dei pazienti”.

“Da anni siamo impegnati nella difesa dei diritti dei malati reumatici”, afferma Silvia Tonolo, presidente Associazione Nazionale Malati Reumatici, “in particolare, crediamo che l’innovazione in reumatologia abbia cambiato la vita di tanti pazienti. Ci auguriamo pertanto di avere presto a disposizione anche in Italia nuove terapie in grado di migliorare la vita delle persone affette da artrite reumatoide”.

Riferimenti bibliografici

  1. Burmester G.R., et al., Safety and efficacy of upadacitinib in patients with rheumatoid arthritis and inadequate response to conventional synthetic disease-modifying anti-rheumatic drugs (SELECT-NEXT): a randomised, double-blind, placebo-controlled phase 3 trial. Lancet. 2018 Jun 23;391(10139):2503-2512. doi: 10.1016/S0140-6736(18)31115-2. Epub 2018 Jun 18.
  2. Genovese M.C., et al., Safety and efficacy of upadacitinib in patients with active rheumatoid arthritis refractory to biologic disease-modifying anti-rheumatic drugs (SELECT-BEYOND): a double-blind, randomised controlled phase 3. Lancet. 2018 Jun 23;391(10139):2503-2512. doi: 10.1016/S0140-6736(18)31115-2. Epub 2018 Jun 18.
  3. Smolen, J.S., et al. Upadacitinib as monotherapy in patients with active rheumatoid arthritis and inadequate response to methotrexate (SELECT-MONOTHERAPY): a randomised, placebo-controlled, double-blind phase 3 study. Lancet. 2019. May 23. pii: S0140-6736(19)30419-2. doi: 10.1016/S0140-6736(19)30419-2. Epub 2019 May 23.
  4. Fleischmann, R., et al. Upadacitinib versus Placebo or Adalimumab in Rheumatoid Arthritis: Results of a Phase 3, Double-Blind, Randomized Controlled Trial. Arthritis and Rheumatology. 2019. Jul 9. doi: 10.1002/art.41032.
  5. van Vollenhoven, R., et al. A Phase 3, Randomized, Controlled Trial Comparing Upadacitinib Monotherapy to MTX Monotherapy in MTX-Naïve Patients with Active Rheumatoid Arthritis. 2018 ACR/ARHP Annual Meeting; 891.
  6. Bergman M., et al. Upadacitinib Treatment and the Routine Assessment of Patient Index Data 3 (RAPID3) Among Patients with Rheumatoid Arthritis. 2019 ACR/ARHP Annual Meeting; 551.
  7. Cohen S., et al. Safety profile of upadacitinib in Rheumatoid Arthritis: Integrated analysis from the SELECT Phase 3 Clinical Program. EULAR 2019; THU0167.

Osteoporosi severa, parere positivo del Chmp per romosozumab

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UCB e Amgen hanno annunciato che, a seguito della procedura di riesame, il Chmp (Committee for Medicinal Products for Human Use) dell’agenzia europea del farmaco (EMA), ha espresso un parere positivo alla concessione dell’autorizzazione all’immissione in commercio di Evenity® (romosozumab) per il trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura e che con anamnesi negativa per infarto miocardico o stroke.

Romosozumab è un farmaco con un innovativo duplice effetto: aumenta la formazione ossea e, in misura minore, riduce il riassorbimento osseo (o perdita di massa ossea)

Romosozumab è un anticorpo monoclonale che, inibendo l’attività della sclerostina, provoca contemporaneamente un aumento della formazione ossea e, in misura minore, un riassorbimento osseo. Il programma di sviluppo di romosozumab comprende 19 studi clinici che hanno arruolato circa 14.000 pazienti.

Evenity è stato studiato per le sue potenzialità di ridurre il rischio di fratture in un vasto programma globale di Fase 3 che includeva due grandi studi sulle fratture confrontando romosozumab con placebo o comparatore attivo in oltre 11.000 donne in postmenopausa con osteoporosi. Amgen e UCB stanno co-sviluppando romosozumab.

Romosozumab, un passo avanti verso il miglioramento della vita delle pazienti

L’osteoporosi in post-menopausa e le fratture da fragilità rappresentano un’emergenza nella salute delle donne troppo spesso ignorata, nonostante vi siano evidenze in merito al fatto che circa il 77% delle donne di età pari o superiore ai 67 anni rimangono prive di diagnosi e di trattamento a seguito di una frattura. Questo spiega l’importanza dell’ingresso di nuovi farmaci in quest’area”, afferma Pascale Richetta, Head Of Bone and Executive Vice President di UCB. “Crediamo che il parere positivo del Comitato sia un importante passo avanti verso il miglioramento della vita delle donne in post-menopausa affette da osteoporosi severa ad alto rischio di fratture da fragilità”.

Attesa entro fine 2019 l’approvazione EC per romosozumab

La raccomandazione positiva del Chmp sarà ora portata all’attenzione della Commissione Europea (EC), che ha l’autorità per approvare i nuovi farmaci nell’Unione Europea. Una decisione della Commissione è attesa entro la fine del 2019.
“Dopo una frattura, le donne in post-menopausa con osteoporosi hanno una probabilità cinque volte più alta di avere una nuova frattura nell’anno seguente e queste fratture possono stravolgere loro la vita”, afferma David M. Reese, M.D., Executive Vice President Of Research And Development di Amgen. “Siamo lieti della decisione del Comitato, che porta romosozumab più vicino a diventare una nuova opzione terapeutica per pazienti affetti da osteoporosi severa ad alto rischio di frattura in Europa”.

Approvazioni extra UE per romosozumab

Romosozumab è già approvato negli Stati Uniti per il trattamento di osteoporosi in donne in menopausa ad alto rischio di frattura. Romosozumab è anche approvato in Giappone e Corea del Sud per il trattamento di osteoporosi in donne e uomini ad alto rischio di frattura, in Canada per il trattamento di osteoporosi in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura e in Australia per il trattamento di osteoporosi in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura e come trattamento finalizzato all’incremento della massa ossea in uomini affetti da osteoporosi ad alto rischio di frattura.

Per approfondire

  1. Cosman F, de Beur SJ, LeBoff MS, et al. Clinician’s Guide to Prevention and Treatment of Osteoporosis. Osteoporos Int. 2014; 25(10): 2359–2381
  2. Lindsay R, Silverman SL, Cooper C, et al. Risk of new vertebral fracture in the year following fracture. JAMA. 2001;285(3):320-323
  3. EVENITY™ (romosozumab-aqqg) U.S. Prescribing Information
  4. FDA approves new treatment for osteoporosis in postmenopausal women at high risk of fracture
  5. EVENITY™ Product Monograph. Amgen Canada Inc. (June 2019)
  6. Australian Government. Department of Health. Therapeutic Goods Administration Database

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Trial FRAME, ARCH e BRIDGE per Romosozumab

Come nasce l’osso

L’Università di Bologna fa sapere che, utilizzando tecniche innovative ad altissima risoluzione, un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’ateneo emiliano ha mostrato che i primi “granelli” di osso nascono dentro le cellule e già dopo dieci giorni hanno una composizione chimica e strutturale pressoché identica a quella dell’osso pienamente formato.

Sovvertite le ipotesi sulla formazione dell’osso

“Questi risultati sovvertono le ipotesi formulate fino ad oggi secondo cui il processo di formazione dell’osso avverrebbe esternamente alla cellula” – spiega Emil Malucelli, ricercatore dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. – “Siamo infatti riusciti a osservare che i primi nuclei di germinazione hanno origine all’interno di cellule staminali indotte a differenziare, prima ancora che queste si trasformino completamente in osteoblasti, le cellule specializzate nella formazione del tessuto osseo”.

I primi nuclei di germinazione dell’osso originano all’interno della cellula, prima ancora che questa si sia completamente differenziata in osteoblasto

La scoperta di come nasce l’osso – pubblicata sulla rivista ACS Central Science – potrebbe avere ricadute importanti nel campo della bioingegneria medica e della medicina rigenerativa. Questi risultati, inoltre, confermano l’intuizione di Marshall Urist, celebre chirurgo ortopedico statunitense che negli anni ’60 ipotizzò il processo di formazione dell’osso come “uno scenario aristotelico in cui il linguaggio della forma è il linguaggio della geometria e il linguaggio della geometria è il linguaggio di una sequenza di eventi molecolari e cellulari”.

La nascita dell’osso

Il tessuto osseo è in gran parte composto da un minerale a base di calcio chiamato idrossiapatite che si forma durante la biomineralizzazione, il processo che permette ai sistemi viventi di creare strutture di cristalli minerali. Questo processo è costante nel corso di tutta la vita e permette non solo la formazione ma anche la riparazione e la ridefinizione delle ossa.

Fino ad oggi, però, gran parte degli studi dedicati alla biomineralizzazione si era concentrata sulle fasi intermedie e sulle fasi finali della formazione dell’osso, lasciando aperti molti interrogativi su come e soprattutto dove iniziano a nascere i primi “granelli” ossei.

Un’indagine su scala atomica

Per cercare risposte a queste domande, i ricercatori sono partiti dalle cellule staminali mesenchimali: particolari cellule presenti soprattutto nel midollo osseo che sono in grado di generare diverse tipologie specializzate di cellule che compongono il tessuto scheletrico. L’obiettivo degli studiosi era stimolare le cellule staminali in modo da indurre il differenziamento in osteoblasti – cellule specializzate nella formazione del tessuto osseo – e osservare quindi dal principio il processo di biomineralizzazione.

Riuscire però a visualizzare un fenomeno simile con un livello di dettaglio adeguato non è affatto semplice. “Abbiamo utilizzato raggi X generati da luce di sincrotrone, una tecnologia d’avanguardia che permette di realizzare osservazioni ad altissima risoluzione”, dice Emil Malucelli. “Sfruttando questo strumento e integrando i risultati ottenuti con altri approcci analitici, siamo riusciti a realizzare un’indagine su scala atomica del fenomeno, guardando cosa succede sia all’interno di ogni singola cellula sia nell’ambiente extracellulare”.

Un cristallo nella cellula

I ricercatori hanno quindi indotto le cellule staminali a generare osteoblasti osservando da vicinissimo le diverse fasi del processo. Già dopo quattro giorni è arrivata la prima sorpresa: all’interno delle cellule sono stati individuati nuclei minerali. Una scoperta che smentisce l’ipotesi fatta fino ad oggi secondo cui la biomineralizzazione avverrebbe nell’ambiente esterno alle cellule. E che è stata confermata anche da una seconda osservazione fatta dopo dieci giorni: alcuni nuclei minerali si trovavano a questo punto nell’ambiente extracellulare, ma altri restavano ancora all’interno delle cellule.

Mappe di fluorescenza a raggi X bidimensionali (dimensioni dei pixel 70 nm, espresse in massa areale g/cm2) che mostrano l’evoluzione tra il giorno 4 e il giorno 10 della differenziazione osteogena del bMSC. (A, E) Rosso: mappe elementali di Ca. (B, F) Verde: mappe elementali di P. (C, G) Blu: mappe elementali di Zn. (D, H) Distribuzione elementare composita di Ca, P e Zn per comprendere meglio la corrispondenza dell’accumulo di elementi

“Grazie a queste osservazioni abbiamo potuto dimostrare che i primi nuclei di germinazione dell’osso originano all’interno della cellula, prima ancora che questa si sia completamente differenziata in osteoblasto”, conferma Emil Malucelli. “E dopo dieci giorni, la composizione chimica e strutturale di questi primi granelli di osso primigenio è già pressoché identica a quella dell’osso maturo pienamente formato”.

Il ricercatore aggiunge poi un altro dettaglio sorprendente: “All’interno di questi primi nuclei minerali abbiamo individuato calcio, fosforo ma anche zinco: un elemento che fino ad ora non era stato osservato, ma che gioca invece un ruolo molto importante nel processo di cristallizzazione della idrossiapatite”. Tutte queste novità aprono rilevanti nuove prospettive per lo studio dei meccanismi che regolano lo stadio iniziale della formazione dell’osso.

Per approfondire

Lo studio è stato pubblicato su ACS Central Science con il titolo “Chemical Fingerprint of Zn-Hydroxyapatite in the Early Stages of Osteogenic Differentiation”.

La ricerca è stata guidata da un gruppo di ricercatori e docenti del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di Bologna: Alessandra Procopio, Emil Malucelli, Concettina Cappadone, Giovanna Farruggia, Azzurra Sargenti e Stefano Iotti. Hanno partecipato inoltre studiosi dello European Synchrotron Radiation Facility (Francia), dell’Università di Milano, dell’Istituto di Cristallografia del CNR e di ALBA Synchrotron (Spagna).

Metabolismo fosfo-calcico, ormoni e mediatori coinvolti nella regolazione

Gli ormoni fisiologicamente coinvolti nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico sono classicamente tre: PTH (paratormone), CT (calcitonina) e 1,25OHD3 (1,25-di-idrossi-colecalciferolo o calcitriolo). 

Ruolo del paratormone nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico

Il PTH (peptide di 84 AA, con frammento N-terminale 1-34 biologicamente attivo), secreto dalle paratiroidi, agisce a livello osseo sugli osteoblasti stimolando la secrezione di RANKL (Receptor Activator of Nuclear Factor kappa-B Ligand) e inibendo la secrezione di OPG (osteoprotegerina) e quindi attivando il riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti (RANKL interagisce con il recettore RANK presente sulla superficie dei pre-osteoclasti determinandone la maturazione, l’attivazione e la proliferazione in osteoclasti maturi).

A livello osseo, PHT stimola il riassorbimento di calcio e fosforo

Il PTH agisce inoltre a livello renale stimolando il riassorbimento tubulare di calcio e l’enzima 1-alfa-idrossilasi (responsabile dell’ attivazione della vitamina D cioè della trasformazione della 25OHD3 in 1,25OHD3 che rappresenta la forma biologicamente attiva) e inibendo il riassorbimento tubulare di fosfato (blocco del cotrasportatore sodio-fosforo IIa e IIc con conseguente effetto fosfaturico) (1).

A livello renale, PHT stimola il riassorbimento di calcio, attiva 1-alfa-idrossilasi (conversione di 25OHD3 in 1,25 OHD3) e inibisce il riassorbimento di fosfato

Azione della calcitonina nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico

La calcitonina (polipeptide di 32 aminoacidi) ha un ruolo biologico non chiaro e poco influisce sui livelli di calcio. È secreta dalle cellule parafollicolari o cellule C o cellule chiare della tiroide, in base alle variazioni della calcemia sul CASR (Calcium Sensing Receptor). La sua azione ipocalcemizzante, di inibizione dell’attività osteoclastica e di antagonista del PTH, è importante in alcune specie animali (pesci e rettili), ma non nell’uomo in cuila scarsa attività biologica dell’ormone è testimoniata dal fatto che la tiroidectomia totale e il carcinoma midollare della tiroide non influenzano in modo significativo i livelli di calcemia (1).

La calcitonina ha un’azione poco rilevante sia a livello osseo sia a livello renale

Coinvolgimento del calcitriolo nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico

La 1,25OHD3 (calcitriolo, forma biologicamente attiva della vitamina D con propri recettori nucleari) agisce principalmente a livello intestinale dove stimola l’assorbimento di calcio attraverso la sintesi di calbindina (una proteina intestinale con quattro siti di legame per il calcio), e di fosfato attraverso il cotrasportatore sodio-fosforo IIb.

L’azione più importante del calcitriolo è a livello intestinale, dove stimola l’assorbimento di calcio e fosforo

Sebbene siano stati dimostrati recettori per la vitamina D sugli osteoblasti, non è ancora del tutto definita un’azione diretta a livello scheletrico del calcitriolo: si è ipotizzata una regolazione positiva sull’osteoclastogenesi attraverso la stimolazione di RANK-L e l’inibizione della sintesi di osteoprotegerina, ma anche una azione sull’attività osteoblastica.

A livello scheletrico non è ancora definita un’azione diretta del calcitriolo

A livello renale stimola il riassorbimento tubulare di calcio e fosfato. Le azioni non classiche (extra-scheletriche) della vitamina D (attivazione della 1alfaidrossilasi PTH-indipendente) avvengono a livello: muscolare (promuovendo l’incremento del diametro e del numero delle fibre muscolari di tipo II), pancreatico (potenziando la secrezione insulinica e migliorando l’insulino-sensibilità) e delle cellule immuno-competenti -macrofagi e linfociti- (modulando la risposta immune a patogeni e a insulti ripetuti) (2,3).

Il calcitriolo stimola il riassorbimento di calcio e fosforo a livello renale

La Tabella 1 riassume le principali azioni degli ormoni PHT, calcitonina e calcitriolo

Tabella 1. Ormoni fisiologicamente coinvolti nella regolazione del metabolismo fosfo-calcico

OSSO RENE INTESTINO
PTH
  • stimola il riassorbimento di calcio e fosforo
  • stimola il riassorbimento di calcio
  • attiva 1-alfa-idrossilasi (conversione di 25OHD3 in 1,25 OHD3)
  • inibisce il riassorbimento di fosfato
CT
  • azione poco rilevante
  • azione poco rilevante
calcitriolo
  • modulazione non definita
  • stimola il riassorbimento di calcio e fosforo
  • stimola l’assorbimento di calcio e fosforo

Ruolo di CASR nella regolazione della omeostasi calcica

Un ruolo centrale nella regolazione della omeostasi calcica ha il calcium sensing receptor (CASR), presente sulla membrana plasmatica di molte cellule dell’organismo, ove funge da “sensore” dei livelli plasmatici di calcio; in particolare il calcio presente nel sangue attraverso il CASR entra nella cellula paratiroidea esercitando un feed-back negativo sulla secrezione di PTH, nella cellula del tubulo renale (tratto ascendente dell’ansa di Henle) inibendo il riassorbimento tubulare del calcio e negli osteoclasti inibendone la differenziazione e l’attivazione. I polimorfismi del gene CaSR rendono ragione, in parte, della variabilità individuale nelle concentrazioni sieriche di calcio (1).

Asse FGF23-Klotho nella regolazione della omeostasi della fosforemia

Nella regolazione della omeostasi della fosforemia, negli ultimi anni sono state indagate nuove e complesse interazioni fra cellule dell’osso e mediatori del metabolismo fosfo-calcico, in particolare riveste sempre maggiore rilevanza clinica e scientifica l’asse FGF23-Klotho.

L’FGF23 (fibroblast growth factor 3) è una glicoproteina, appartenente alla classe delle fosfatonine, prodotta in sede intraossea dagli osteociti e dagli osteoblasti, la cui secrezione è stimolata da numerosi fattori esogeni ed endogeni: PTH, carico di fosforo alimentare, vitamina D attiva, deficit di Klotho, sistema renina-angiotensina-aldosterone, sideropenia, infiammazione e ipossia (4).

Azioni fisiologiche di FGF23 a livello renale

Le azioni renali di FGF23 (Klotho-dipendenti) sono ormai note e ben definite, in particolare a livello renale FGF23 ha la stessa azione del PTH sul riassorbimento tubulare (blocco del cotrasportatore sodio-fosforo IIa e IIc con conseguente effetto fosfaturico) e azione opposta al PTH sull’attivazione della vitamina D (inibizione dell’attività della 1-alfa-idrossilasi renale e up-regolazione dell’attività della 24-idrossilasi con ridotta sintesi della 1,25OHD3 e conseguente riduzione dell’assorbimento intestinale di fosforo attraverso il cotrasportatore sodio-fosforo IIb). FGF23 stimola inoltre il riassorbimento di calcio e sodio nel tubulo contorto distale attraverso la up-regulation rispettivamente del canale del calcio (TRPV5) e del co-trasportatore sodio/cloro (NCC) e inibisce la secrezione di eritropoietina (4).

AlfaKlotho è considerato un gene anti-invecchiamento (induce resistenza allo stress ossidativo nelle cellule vascolari endoteliali, nelle FMN della parete vasale e nelle cellule di polmone, fegato e cervello) e anti-cancro (inibisce il signaling di insulina/IGF-I e di Wnt-betacatenina), è espresso a livello di diverse cellule dell’organismo (cellule del tubulo renale, cellule paratiroidee, cellule del plesso coroideo) ed è un promotore/corecettore di membrana per l’interazione fra FGF23 e il suo recettore (4).

La Tabella 2 riporta i fattori che influenzano il riassorbimento di fosforo a livello del tubulo contorto prossimale. La Figura 1 descrive le azioni fisiologiche di FGF23 a livello renale.

Tabella 2. Fattori che influenzano il riassorbimento di fosforo a livello del tubulo contorto prossimale

Fattori che riducono il riassorbimento
  • PTH
  • FGF23
  • Acidosi
  • Elevato intake di fosforo con la dieta
  • Peptide natriuretico atriale
  • Cortisolo
  • Dopamina
Fattori che aumentano il riassorbimento
  • Alcalosi
  • Basso intake di fosforo con la dieta
  • Ipoparatiroidismo
  • Ormone tiroideo
  • 1,25OHD3
  • GH-IGF-I

 

 Azioni fisiologiche di FGF23 a livello renale
Figura 1. Azioni fisiologiche di FGF23 a livello renale

 

Implicazioni fisiopatologiche di FGF23 nella malattia renale cronica

Meno note sono le implicazioni fisiopatologiche di FGF23 nella malattia renale cronica: con il progressivo deterioramento della funzione glomerulare, alla ritenzione di fosforo corrisponde un aumento consensuale di FGF23 da parte dell’osso; già per valori di eGFR compresi tra 60 e 90 ml/min iniziano ad aumentare i livelli plasmatici di FGF23 (rialzo molto precoce con valori fino a 1000 volte nella malattia renale cronica avanzata) mentre la fosforemia, che rimane entro il range di normalità negli stadi iniziali della insufficienza renale, inizia ad aumentare in modo significativo solo per valori di eGFR <30 ml/min. Nella insufficienza renale cronica si rendono evidenti le azioni extra-renali di FGF23, che possono essere Klotho-dipendenti e/o Klotho indipendenti (azione recettoriale di FGF23 che non richiede la presenza del co-recettore di membrana) (5).

Gli effetti Klotho-indipendenti di FGF23 nella malattia renale cronica si esplicano a livello dei seguenti organi:

  • cuore, con ipertrofia dei miociti del ventricolo sinistro, in particolare FGF23 e angiotensina II stimolano un cross-talk pro-ipertrofico e pro-fibrotico tra miociti e fibroblasti del tessuto muscolare cardiaco;
  • fegato, con aumento della sintesi di citochine pro-infiammatorie (5).

Gli effetti Klotho-dipendenti e indipendenti di FGF23 nella malattia renale cronica si esplicano invece a livello dei seguenti organi:

  • sistema nervoso centrale, con deterioramento cognitivo, in particolare FGF23 determina un’alterazione della morfologia neuronale e della densità sinaptica a livello cerebrale; 
  • sistema immunitario, con deterioramento delle difese, in particolare FGF23 determina un’inibizione della 1-alfa-idrossilasi nei monociti/macrofagi e un’inibizione del reclutamento/chemiotassi dei granulociti neutrofili;
  • sistema vascolare, con disfunzione endoteliale, aterosclerosi e calcificazioni vascolari, in particolare FGF23 è in grado di modulare in senso negativo il bilancio fra ossido nitrico e radicali liberi dell’ossigeno (5).

Le suddette azioni extra-renali di FGF23, insieme all’iperfosforemia, rendono ragione dell’aumentata mortalità del paziente affetto da malattia renale avanzata, legata all’aumentata incidenza di complicanze metaboliche e cardio-vascolari (5).

L’ormone alfa-Klotho

Da ultimo, è noto che da alfa-klotho di membrana, per clivaggio endoproteolitico del dominio extra-cellulare, si forma alfa-Klotho solubile circolante, che può essere a sua volta considerato un vero e proprio ormone con azione beta-glicosidasica, il cui recettore è rappresentato verosimilmente da monosialogangliosidi di membrana e il cui effetto biologico è rappresentato da una complessa e fine regolazione di canali/trasportatori ionici di membrana.

In relazione alla omeostasi del fosforo, alfa-Klotho solubile circolante determina, al pari di FGF23, un’inibizione del co-trasportatore sodio-fosforo IIa quindi ha un effetto fosfaturico che è FGF23 e PTH-indipendente. Alfa-Klotho solubile circolante esplica inoltre un effetto di cardio-protezione, mediato dalla down-regulation del canale cardiaco del calcio (TRPC6) che a sua volta media la genesi dell’ipertrofia cardiaca. Nella malattia renale cronica, già per valori di eGFR inferiori a 90 ml/min, si assiste a un progressivo decremento di alfa-Klotho circolante e il deficit di alfa-Klotho rappresenta in questo setting di pazienti un fattore di rischio per mortalità cardio-vascolare, indipendente dalla iperfosforemia e dagli elevati valori di FGF23 (6).

Bibliografia

  1. Burton DR. Hormonal regulation of calcium and phosphate balance. In “Uptodate.com” 2018.
  2. Lieben L, Carmeliet G, Masuyama R. Calcemic actions of vitamin D: effects on the intestine, kidney and bone. Best Pract Res Clin Endocrinol Metab. 2011;25(4):561-72. 
  3. Holick MF. Vitamin D deficiency. N Engl J Med. 2007 Jul 19;357(3):266-81.
  4. Erben RG, Andrukhova O. FGF23-Klotho signaling axis in the kidney. Bone. 2017 Jul;100:62-68.
  5. Takashi Y, Fukumoto S. FGF23 beyond Phosphotropic Hormone. Trends Endocrinol Metab. 2018 Nov;29(11):755-767.
  6. Dalton GD, Xie J, An SW, Huang CL. New Insights into the Mechanism of Action of Soluble Klotho. Front Endocrinol (Lausanne). 2017 Nov 17;8:323. 

PUBBLICATO CON IL PERMESSO DI AME

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Nuove acquisizioni dell’asse FGF23-Klotho

Insufficienza renale cronica e patologie del cavo orale

L’insufficienza renale cronica (CKD Chronic Kidney Disease) è una perdita progressiva della funzione renale che si struttura nell’arco di mesi o anni. Si tratta di una patologia rilevante sul piano epidemiologico: si stima che il 13% dei soggetti adulti di età uguale o superiore a 20 anni negli Stati Uniti e l’8,5% della popolazione nel Regno Unito sia affetto da insufficienza renale cronica sintomatica.

Le principali cause di danno renale organico sono rappresentate dal diabete mellito, dall’ipertensione arteriosa e dalle glomerulonefriti acute e croniche.

L’insufficienza renale cronica è caratterizzata da un rialzo del valore sierico di creatinina che riflette la ridotta capacità del rene di espletare la sua fisiologica funzione di emuntorio.

La stadiazione della CKD prevede il calcolo tramite algoritmo (1) della velocità di filtrazione glomerulare (eGFR estimated glomerular filtration rate, unità di misura ml/min) attraverso l’inserimento di quattro parametri rappresentati da:

  • età del paziente,
  • sesso (maschio/femmina),
  • razza (nera/altro) e
  • valore di creatinina plasmatica.

Tutti i soggetti con un eGFR <60 ml/min per almeno 3 mesi consecutivi sono considerati affetti da malattia renale cronica, indipendentemente dalla presenza o assenza di danno renale. Si identificano pertanto i seguenti stadi (G Grade) di CKD:

  • G3a se eGFR è compreso fra 45 e 59 ml/min,
  • G3b se eGFR è compreso fra 30 e 44 ml/min,
  • G4 se eGFR è compreso fra 15 e 29 ml/min,
  • G5 se eGFR è inferiore a 15 ml/min,
  • G5D se il paziente è in dialisi.

Manifestazioni cliniche di insufficienza renale cronica

La qualità di vita dei pazienti affetti da CKD è severamente compromessa e le principali cause di morte sono rappresentate da complicanze cardio-vascolari (infarto del miocardio e ictus cerebri).

La CKD nelle fasi molto iniziali è asintomatica ma con il passare degli anni, al declinare della funzione renale, compaiono varie manifestazioni cliniche (Tabella 1).

Tabella 1. Manifestazioni cliniche sistemiche della CKD e corrispettivo fisiopatologico

Meccanismo fisiopatologico

Manifestazioni cliniche

Espansione del volume extracellulare

Ipertensione arteriosa

(nefro-parenchimale)

Scompenso cardiaco

Edema polmonare

Uremia

Letargia

Pericardite

Disfunzione sessuale

Iperkaliemia

Acidosi metabolica

Astenia

Aritmie cardiache

Ridotta sintesi di eritropoietina

Sideropenia

Anemia

Iperfosforemia

Ipocalcemia

Ridotta sintesi di 1,25OHD3 (calcitriolo)

Aumento di FGF23 (fibroblast growth factor 23)

Aterosclerosi

Malattia cardio-vascolare

Iperparatiroidismo secondario

CKD-MBD (Chronic Kidney Disease-Mineral and Bone Disorder)

 

Insufficienza renale cronica e salute del cavo orale

La salute del cavo orale dei pazienti con CKD è significativamente compromessa e si stima che quasi il 90% dei pazienti con insufficienza renale cronica manifestano malattia del periodonto, iperplasia gengivale, alterazioni della secrezione e della composizione della saliva e stomatite uremica (2).

I pazienti con malattia renale cronica richiedono una particolare attenzione da parte del dentista non solo per la patologia in sé ma anche per le manifestazioni del cavo orale che possono rappresentare un effetto collaterale del trattamento farmacologico

Ne è un esempio l’iperplasia gengivale in corso di trattamento con ciclosporina (nei pazienti trapiantati di rene) o con calcio-antagonisti (3).

Nei pazienti con CKD vi è un’elevata incidenza di fattori predisponenti la patologia del periodonto come una scarsa igiene del cavo orale, un alto livello di placca dentale e tartaro, la gengivite e l’immunodeficienza secondaria all’uremia (4-6).

Di frequente riscontro nei pazienti con insufficienza renale cronica sono le lesioni lichenoidi secondarie all’immunosoppressione farmacologica (3).

La stomatite uremica e la xerostomia sono molto frequenti nei pazienti in dialisi (3).

Le infezioni, soprattutto la candidiasi, sono di comune riscontro nei pazienti in dialisi e nei pazienti trapiantati di rene (3).

Nei pazienti con insufficienza renale cronica vi sono profonde alterazioni del metabolismo osseo inerenti l’omeostasi del calcio, del fosforo, della vitamina D, del paratormone e dell’FGF23 (fibroblast growth factor 23): ne conseguono varie alterazioni ossee che comprendono demineralizzazione delle ossa mascellari, riduzione delle trabecole ossee, ridotto spessore dell’osso corticale, calcificazioni metastatiche dei tessuti molli, lesioni ossee fibrocistiche, fratture ossee e ritardo di guarigione delle ferite dopo estrazione dentale (7,8).

I cambiamenti nei tessuti dentali comprendono la ritardata eruzione dentale, l’ipoplasia dello smalto, la perdita della lamina dura, le lesioni infiammatorie estese al legamento periodontale, la mobilità dei denti, la calcificazione della polpa dentale e il restringimento della camera pulpare (3).

La Tabella 2 elenca le principali manifestazioni a livello del cavo orale nella CKD.

Tabella 2. Manifestazioni cliniche a livello del cavo orale nella CKD

Manifestazioni muco-cutanee

Stomatite uremica

Ulcerazioni aftose

Glossite e cheilite

Reazione lichenoide

Sindrome della bocca urente

Petecchie ed ecchimosi

Carie

Aumento della placca dentale

Scarsa igiene orale

Malattia del periodonto

Batteri aggressivi parodontogenici nelle tasche gengivali

Iperplasia gengivale e gengivite

Salivazione

Xerostomia

Scialoadeniti croniche

Aumento dei batteri nella saliva

Ridotta capacità di tampone della saliva

Anomalie dentali

Ritardata eruzione dentale

Ipoplasia dello smalto

Perdita della lamina dura

Estensione di lesioni nel legamento periodontale

Distruzione del periodonto

Mobilità dentale

Calcificazione della polpa dentale e restringimento della camera pulpare

Anomalie ossee mascellari e mandibolari

Ridotta trabecolatura ossea e ridotto spessore dell’osso corticale

Calcificazioni metastatiche dei tessuti molli

Lesioni ossee fibrocistiche

Fratture ossee

Alterazione della guarigione delle ferite dopo estrazione dentale

Calcificazione della articolazione temporo-mandibolare

Sd dolorose

Odinofagia

Disfagia

Infezioni orali

Candidiasi

Infezioni virali in pazienti in terapia immunosoppressiva: CMV, HSV, EBV

Neoplasie

Carcinoma orale squamoso

Bibliografia

  1. https://www.kidney.org/professionals/kdoqi/gfr_calculator.
  2. Kanjevac T, Bijelic B, Brajkovic D, Vasovic M, Stolic R. Impact of Chronic Kidney Disease Mineral and Bone Disorder on Jaw and Alveolar Bone Metabolism: A Narrative Review. Oral Health Prev Dent. 2018;16(1):79-85.
  3. Proctor R, Kumar N, Stein A et al. Oral and dental aspects of chronic renal failure. J Dent Res 2005;84:199-208.
  4. Brito F, Almeida S, Figueredo CMS et al. Extent and severity of chronic periodontitis in chronic kidney disease patients. J Periodont Res 2012;47:426-430.
  5. Castillo A, Mesa F, Liebana J et al. Periodontal and oral microbiological status of an adult population undergoing haemodialysis: a cross-sectional study. Oral Dis 2007;13:198-205.
  6. Chambrone L, Foz AM, Guglielmetti MR et al. Periodontitis and chronic kidney disease: a systematic review of the association of diseases and the effect of periodontal treatment on estimated glomerular filtration rate. J Clin Periodontol 2013;40:443-456.
  7. Lopes MDL, Albuquerque AFM, Germano AR et al. Severe maxillofacial renal osteodystrophy in two patients with chronic Kidney disease. Oral Maxillofac Surg 2015; 19:321-327.
  8. Raubenheimer EJ, Noffke CE, Mohamed A. Expansive jaw lesions in chronic kidney disease: review of the literature and a report of two cases. Oral Surg Oral Med Oral Pathol Oral Radiol 2015;119:340-345.

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Pericoli della sospensione di terapie anti-riassorbitive

La terapia con aminobisfosfonati indicata per le metastasi ossee, con dosi molto superiori a quelle utilizzate per la terapia dell’osteoporosi, si può associare a un aumento del rischio (sino al 10%) di sviluppare osteonecrosi delle ossa del cavo orale (osteonecrosis of the jaw, ONJ), una forma di osteomielite cronica sostenuta da batteri della flora microbica orale (actinomiceti ma anche stafilococchi, streptococchi e candida). Questa patologia è stata osservata con estrema rarità (0,01-0,04%) anche in pazienti in trattamento con amino-bisfosfonati per l’osteoporosi che si sottopongano a interventi sul cavo orale con esposizione del tessuto osseo (estrazioni dentarie, interventi parodontali invasivi, implantologia) [1,2].

Nuovi farmaci attualmente utilizzati nella pratica clinica per il trattamento della osteoporosi (denosumab) e per il trattamento di seconda linea di numerose neoplasie (anti-angiogenetici: sunitinib, sorafenib, bevacizumab, talidomide) sono stati occasionalmente associati a casi di ONJ [3,4].

Esistono in letteratura documenti di consenso [5-7] che forniscono utili raccomandazioni all’odontoiatra nei due setting di pazient:

  • oncologici con metastasi ossee candidati a terapia anti-riassorbitiva ad alto dosaggio (zoledronato 4 mg ev ogni 28 giorni oppure denosumab 120 mg sc ogni 28 giorni);
  • osteoporotici in terapia anti-riassorbitiva a basso dosaggio (aminobisfosfonati orali: alendronato 70 mg alla settimana, risedronato 35 mg alla settimana, ibandronato 150 mg al mese; zoledronato 5 mg ev all’anno; denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi).

Escludendo i pazienti oncologici con metastasi ossee, non è infrequente nella pratica clinica, nel corso del follow-up di pazienti osteoporotici in terapia cronica con farmaci anti-riassorbitivi, la sospensione della terapia su consiglio dell’odontoiatra in previsione di una estrazione dentale e di una chirurgia implantare.

Aminobisfosfonati vs denosumab, farmacocinetica e farmacodinamica

Per una migliore comprensione delle possibili nefaste conseguenze di questa sospensione, è utile ricordare la differenza sostanziale in termini di farmacocinetica e farmacodinamica fra aminobisfosfonati e denosumab:

  • gli aminobisfosfonati sono farmaci con un’elevata affinità per i cristalli di idrossi-apatite della matrice ossea che per endocitosi vengono internalizzati all’interno degli osteoclasti ove svolgono la loro funzione citotossica;
  • il denosumab al contrario è un anticorpo monoclonale che inibisce il RANKL (receptor activator of nuclear factor kappa-Β ligand) che è il principale mediatore dell’osteoclastogenesi.

Ne consegue che mentre gli aminobisfosfonati determinano l’apoptosi degli osteoclasti maturi ma rimangono intrappolati nella matrice ossea per molti anni, anche dopo la sospensione della terapia, il denosumab inibisce la trasformazione dei pre-osteoclasti in osteoclasti maturi, ma avendo il farmaco un’emivita di 6 mesi, la sospensione della terapia a base di denosumab determina un rimbalzo del turn-over osseo con riattivazione acuta del rimodellamento osseo.

Opportunità di sospensione di terapia con amino-bisfosfonato

  • Se la durata della terapia con un aminobisfosfonato orale è inferiore a 3 anni, non è utile in questo caso la sospensione del bisfosfonato in previsione della chirurgia orale (il rischio di ONJ è assolutamente trascurabile in questo caso a fronte della riduzione del rischio fratturativo in corso di terapia anti-riassorbitiva);
  • Se la durata della terapia con un aminobisfosfonato orale è superiore a 3 anni, è anche possibile valutare la sospensione del bisfosfonato in previsione della chirurgia orale 2-3 mesi prima con riassunzione del farmaco dopo completa guarigione ossea, tuttavia è fondamentale ricordare che per gli aminobisfosfonati in generale e in particolare per quelli con elevata affinità per la matrice ossea (alendronato), la sospensione della terapia, se da un lato non produce effetti negativi importanti sulla massa ossea e/o sul rischio fratturativo, dall’altro risulta praticamente inutile per ridurre il rischio di ONJ proprio per la permanenza a lungo termine della molecola all’interno della matrice ossea.

Per i pazienti in terapia con zoledronato al dosaggio per osteoporosi (5 mg ev/anno), in considerazione dell’effetto coda e della persistenza del farmaco nell’osso, è richiesta una maggiore cautela e la chirurgia orale può essere programmata nel mese antecedente la successiva infusione endovenosa.

Opportunità di sospensione di terapia con denosumab

Per quanto concerne il denosumab, è opportuno ricordare che i livelli plasmatici del farmaco calano velocemente alla sospensione del trattamento e ciò determina un brusco e cospicuo rimbalzo del marker di riassorbimento osseo (CTX sierico) che raggiunge nei 6 mesi successivi un valore di oltre il doppio rispetto al valore basale pre-trattamento (8,9).

Alla sospensione del denosumab, i pazienti che hanno eseguito un pregresso trattamento con aminobisfosfonati presentano un rimbalzo del CTX sierico di molto inferiore, in relazione alla soppressione del turn-over osseo indotta dalla prolungata permanenza del bisfosfonato nella matrice ossea (10).

Nei 12 mesi successivi alla sospensione della terapia, viene persa l’intera massa ossea acquisita in corso di trattamento (8) e dopo un anno dalla sospensione i valori di BMD sono significativamente inferiori rispetto a quelli basali pre-trattamento (11).

Recenti case series hanno dimostrato che in alcune pazienti questa rapida perdita di massa ossea è associata alla comparsa di multiple fratture vertebrali (12). Recente la pubblicazione una analisi post hoc dello studio Freedom e della sua estensione a 10 anni (studi registrativi per denosumab) che ha confermato l’aumentato rischio fratturativo nell’off-treatment, in particolare ha dimostrato che fra le pazienti che sono incorse in una frattura vertebrale dopo la sospensione del denosumab, il 61% ha avuto multiple fratture vertebrali e il 23% un numero di fratture vertebrali uguale o superiore a 4, contro il 39% e il 6% rispettivamente nelle pazienti che hanno sospeso il placebo; la stessa analisi ha inoltre stabilito come fattori predittivi di frattura la presenza di una precedente frattura vertebrale, la durata in anni della sospensione della terapia e la perdita percentuale annua di massa ossea a livello femorale in corso di off-treatment (13). Per contrastare questa rapida perdita dell’efficacia anti-fratturativa, è stato suggerito, in caso di sospensione di terapia con denosumab, di proseguire da subito con un amino-bisfosfonato (consolidazione farmacologica) allo scopo di creare una soppressione duratura del turn-over osseo con effetto coda a lungo termine (14).

Per i pazienti in terapia con denosumab candidati alla chirurgia orale, è consigliabile eseguire la procedura odontoiatrica nella settimana antecedente la scadenza della puntura, che non deve essere procrastinata oltre una settimana rispetto alla data di scadenza dei 6 mesi

Scopo sarebbe quello di eseguire la procedura all’interno di una breve finestra temporale di ripresa del rimodellamento osseo, non esponendo tuttavia il paziente al rischio di fratture da rimbalzo descritte nella fase di off-treatment; la sospensione del denosumab deve essere assolutamente evitata per il suddetto rischio concreto di un notevole incremento di fratture vertebrali in questi pazienti (13); in questi casi il rifiuto dell’odontoiatra di eseguire procedure chirurgiche nel cavo orale espone il paziente a un incremento del rischio di ONJ; si consiglia pertanto di fare richiesta all’odontoiatra di una dichiarazione scritta di rifiuto delle prestazioni, da allegare alla cartella del paziente.

Necessità di una decisione condivisa tra odontoiatra e specialista del metabolismo osseo

In corso di terapia con bisfosfonato o denosumab per una patologia osteo-metabolica benigna è necessario mantenere un’accurata igiene orale e un periodico controllo odontoiatrico, come nella popolazione generale, inoltre non è necessario che i pazienti candidati alla terapia siano sottoposti a visita odontoiatrica preventiva. In caso di estrazione dentale è raccomandata, soprattutto nei pazienti in terapia da più di 3 anni, un’adeguata profilassi antibiotica (amoxicillina/acido clavulanico eventualmente combinata a metronidazolo) per almeno 3 giorni prima e 7/10 giorni dopo l’intervento.
Il messaggio conclusivo è che la decisione dell’odontoiatra di sospendere una terapia anti-riassorbitiva va sempre condivisa con lo specialista del metabolismo osseo e che se la sospensione di un amino-bisfosfonato risulta praticamente inutile per ridurre il rischio di ONJ ma non arreca danno al paziente, quella del denosumab può arrecare al paziente un danno vero e proprio in termini di rimbalzo fratturativo con evidenti ripercussioni sul piano medico-legale.

Raccomandazioni utili nella pratica clinica

In un paziente in terapia con amino-bisfosfonati candidato a chirurgia orale, è lecito da parte dell’odontoiatra la sospensione della terapia per la paura di incorrere in un caso di ONJ?

Assolutamente NO!!
La decisione dell’odontoiatra di sospendere una terapia anti-riassorbitiva va sempre condivisa con lo specialista del metabolismo osseo. La sospensione di un aminobisfosfonato risulta praticamente inutile per ridurre il rischio di ONJ ma non arreca danno al paziente (effetto coda).

In un paziente in terapia con denosumab candidato a chirurgia orale, è lecito da parte dell’odontoiatra la sospensione della terapia per la paura di incorrere in un caso di ONJ?

Assolutamente NO!!
La decisione dell’odontoiatra di sospendere una terapia anti-riassorbitiva va sempre condivisa con lo specialista del metabolismo osseo. La sospensione del denosumab può arrecare al paziente un danno vero e proprio in termini di rimbalzo fratturativo (farmaco on-off) con evidenti ripercussioni sul piano medico-legale.

 

Bibliografia

  1. Dodson TB. Intravenous bisphosphonate therapy and bisphosphonate-related osteonecrosis of the jaws. J Oral Maxillofac Surg. 2009;67(5 Suppl):44-52.
  2. Borromeo GL, Tsao CE, Darby IB, Ebeling PR. A review of the clinical implications of bisphosphonates in dentistry. Aust Dent J. 2011;56(1):2-9.
  3. Van den Wyngaert T, Wouters K, Huizing MT, Vermorken JB. RANK ligand inhibition in bone metastatic cancer and risk of osteonecrosis of the jaw (ONJ): non bis in idem?. Support Care Cancer. 2011;19(12):2035-40.
  4. Guarneri V, Miles D, Robert N, Diéras V, Glaspy J, Smith I, Thomssen C, Biganzoli L, Taran T, Conte P. Bevacizumab and osteonecrosis of the jaw: incidence and association with bisphosphonate therapy in three large prospective trials in advanced breast cancer. Breast Cancer Res Treat. 2010;122(1):181-8.
  5. Position Paper, American Association of Oral and MaxillofacialSurgeons, Medication-Related Osteonecrosis of the Jaw—2014 Update.
  6. Khan AA, Morrison A, Kendler DL et al. Case-Based Review of Osteonecrosis of the Jaw (ONJ) and Application of the  International Recommendations  for  Management From the International Task Force on ONJ. J Clin Densitom. 2017 Jan – Mar;20(1):8-24.
  7. Bertoldo F. Si fa chiarezza sull’osteonecrosi del mascellare. Focus Farmacovigilanza 2014, 85: 3.
  8. Bone HG, Bolognese MA, Yuen CK et al (2011). Effects of denosumab treatment and discontinuation on bone mineral density and bone turnover markers in postmenopausal women with low bone mass. J Clin Endocrinol Metab 96:972–980.
  9. Miller PD, Bolognese MA, Lewiecki EM et al (2008). Effect of denosumab on bone density and turnover in postmenopausal women with low bone mass after long-term continued, discontinued, and restarting of therapy: a randomized blinded phase 2 clinical trial. Bone 43:222–229.
  10. Uebelhart B, Rizzoli R, Ferrari SL. Retrospective evaluation of serum CTX levels after denosumab discontinuation in patients with or without prior exposure to bisphosphonates. Osteoporos Int 2017;28:2701–5.
  11. Popp AW, Buffat H, Senn C et al (2016). Rebound-associated bone loss after non-renewal of long-term denosumab treatment offsets 10-year gains at the total hip within 12 months. J Bone Miner Res 31(suppl):S408.
  12. Anastasilakis AD, Polyzos SA, Makras P et al (2017). Clinical features of 24 patients with rebound-associated vertebral fractures following denosumab discontinuation: systematic review and additional cases. J Bone Miner Res. 2017 Jun;32(6):1291-1296.
  13. Cummings SR, Ferrari S, Eastell R et al. Vertebral Fractures After Discontinuation of Denosumab: A Post Hoc Analysis of the Randomized Placebo-Controlled FREEDOM Trial and Its Extension. J Bone Miner Res. 2017 Nov;20(20):1-9.
  14. Meier C, Uebelhart B, Aubry-Rozier B et al. Osteoporosis drug treatment: duration and management after discontinuation. A position statement from the SVGO/ASCO. Swiss Med Wkly. 2017 Sep 5;147:w14484.

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