sabato, Agosto 2, 2025
Home Blog Page 32

Osteoporosi e psoriasi


Matteo Longhi
Matteo Longhi, reumatologo

La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica primariamente della pelle, ma non esclusivamente, in quanto alla patologia cutanea si associano numerose comorbidità, tra cui la artrite psoriasica, in cui l’infiammazione gioca un ruolo patogenetico comune.

Sebbene le correnti linee guida sulla gestione della psoriasi non esprimano una visione omogenea sulla valutazione osteometabolica, numerosi studi hanno documentato un aumentato rischio di osteoporosi nei pazienti psoriasici e in altri lavori è stato evidenziato un aumento del rischio di fratture da fragilità.

Nel recente lavoro di revisione dell’argomento “Osteoporosis and Psoriasis” [1] sono stati rivalutati i rapporti tra psoriasi e osteoporosi e le possibili implicazioni nella gestione.

Matteo Longhi, reumatologo


La psoriasi è una malattia infiammatoria cutanea caratterizzata da placche squamose eritematose croniche e ricorrenti e colpisce dallo 0,1 al 2,9% della popolazione mondiale [2].

Principali comorbidità della psoriasi

La presenza di una malattia articolare infiammatoria caratteristica, definita artrite psoriasica che può presentarsi in diverse varianti cliniche, si manifesta dal 7 al 42% della popolazione psoriasica nelle differenti casistiche, potendosi presentare anche in pazienti in cui la psoriasi non sia evidente ma presente in un parente di primo grado (artrite “sine psoriasi”) [3].

La psoriasi è inoltre gravata dalla frequente associazione con comorbidità quali malattie cardiovascolari, ipertensione arteriosa, obesità, diabete mellito e quindi da un aumento della mortalità [4].

Più recentemente sono  state considerate tra le possibili comorbidità anche l’osteoporosi e le fratture da fragilità [4, 5] che come in altre malattie infiammatorie croniche, possono essere riferite a:

  1. un effetto diretto di alcune citochine proinfiammatorie (quali IL-1, IL- 6, IL-11, IL-15, IL-17, RANKL e TNF-α) nella induzione di un riassorbimento osseo accelerato [6];
  2. un possibile ruolo sul metabolismo osseo di farmaci utilizzati nel trattamento della patologia di base;
  3. la immobilità o la scarsa attività fisica nei pazienti con ridotta funzione dell’apparato muscolo-scheletrico.

Le citochine maggiormente interessate nella psoriasi e bersaglio anche di specifici farmaci biotecnologici sono TNF-α ed IL-17; il trattamento con questi farmaci potrebbe pertanto avere effetti positivi anche sul rimodellamento osseo nei pazienti psoriasici.

Fattori di rischio per fragilità ossea nella psoriasi

Tra i fattori di rischio per fragilità ossea identificati nella psoriasi si sottolinea la correlazione con durata, attività ed estensione della malattia cutanea e inoltre la presenza di artrite psoriasica e/o di spondilite anchilosante, in cui oltre al ruolo succitato delle citochine proinfiammatorie si può associare la ridotta mobilità articolare con conseguente ridotta attività fisica e perdita di contenuto minerale osseo [7, 8].

Psoriasi, BMD e fratture da fragilità

Nella psoriasi entrambi i sessi hanno una più alta prevalenza di osteoporosi e fratture rispetto alla popolazione di riferimento per età e sesso, e in alcuni report in particolare l’osteoporosi è risultata più frequente negli uomini [5, 9].

In uno studio su una popolazione spagnola la densità minerale ossea (Bone Mineral Density – BMD) è risultata significativamente più bassa nei pazienti psoriasici sia a livello vertebrale che a livello femorale [10].

Un altro lavoro ha invece evidenziato un decremento della BMD solo nei pazienti con artrite psoriasica ma non in quelli con sola malattia cutanea nonostante una malattia attiva, valutata mediante PASI (Psoriasis Area Severity Index) [11].

Anche i dati su psoriasi e fratture da fragilità, in generale documentano un aumentato rischio fratturativo, anche se non in modo univoco, ancora nei pazienti con associata artrite psoriasica e con lunga durata di malattia [7, 8, 9].

Farmaci utilizzati per la psoriasi e metabolismo osseo

Il meccanismo di azione di alcuni farmaci utilizzati per la psoriasi può significativamente modificare il metabolismo osseo. Noto è il ruolo dei corticosteroidi che per via sistemica sono sempre meno utilizzati se non in forme particolari di psoriasi. I rapporti tra OP, fratture e prodotti steroidei topici è oggetto tuttora di dibattito e non esiste una posizione conclusiva.

Gli inibitori della calcineurina (ciclosporina, tacrolimus) esplicano una interferenza sul metabolismo osseo come documentato da studi in vitro e sull’animale, aumentando osteoformazione e riassorbimento (ciclosporina) e riassorbimento in particolare (tacrolimus). Esiste un’ampia letteratura sulla osteoporosi e sulle fratture nei pazienti sottoposti a trapianti in trattamento con inibitori della calcineurina, ma ovviamente tali risultati non sono automaticamente trasferibili ai pazienti psoriasici [12].

Con il trattamento della psoriasi con derivati dell’acido fumarico sono stati descritti alcuni casi di osteomalacia con iperfosfaturia dovuta a disfunzione del tubulo prossimale renale (s. di Fanconi), soprattutto in donne lungamente trattate, con OP densitometrica e fratture patologiche per lo più atipiche [13].

L’ipovitaminosi D è un altro fattore di rischio per osteoporosi e nei pazienti psoriasici ed è un dato consolidato, come documentato anche da una recente metanalisi. I livelli di vitamina D correlano inversamente con la gravità della malattia cutanea [14].

La valutazione della massa ossea e il rischio di frattura appaiono più che indicati nei pazienti affetta da psoriasi anche se mancano in tal senso linee guida condivise.

La presenza di artropatia psoriasica, una malattia cutanea severa e di lunga durata, sembra essere  predittore malattia-specifico per un aumentato rischio di osteoporosi.

Anche le comorbidità, così frequenti nella psoriasi, sembrano avere un importante ruolo sulla salute dell’osso, ma mancano studi definitivi in tal senso.

Bibliografia

  1. Muñoz-Torres M, Aguado P, Daudén E, et al. Osteoporosis y psoriasis. Actas    Dermosifiliogr. 2019; 110:642—652. doi: 10.1016/j.ad.2019.02.005. Epub 2019 May 28.
  2. Parisi R, Symmons DP, Griffiths CE, et al. Global epidemiology of psoriasis: A systematic review of incidence and prevalence. J Invest Dermatol. 2013; 133:377-85.
  3. Alamanos Y, Voulgari PV, Drosos A. Incidence and prevalence of psoriatic arthritis: A systematic review. J Rheumatol. 2008; 35:1354-8.
  4. Kimball AB, Gladman D, Gelfand JM, et al. National Psoriasis Foundation clinical consensus on psoriasis co-morbidities and recommendations for screening. J Am Acad Dermatol 58:1031–1042.
  5. Dreiher J, Weitzman D, Cohen A. Psoriasis and osteoporosis: a sex-specific association? J Invest Dermatol. 2009 Jul.129:1643–1649. [PubMed: 19158845].
  6. Mundy GR (2007) Osteoporosis and inflammation. Nutr Rev 65:S147–S151
  7. Ogdie A, Harter L, Shin D et.al. The risk of fracture among patients with psoriatic arthritis and psoriasis: a population-based study. Ann Rheum Dis 2017; 76: 882-5
  8. Kathuria P, Gordon KB, Silverbergh JI. Association opf psoriasis and psoriatic arthritis with osteoporosis and pathological fractures, J Am Acad Dermatol 2017; 76: 1045-53.
  9. Paskins Z, Whittle R, Abdul Sultan A et al. Risk of fragility fracture among patients with late-onset psoriasis: a UK population-based study. Osteoporos Int 2018; 29: 1659-64.
  10. Martinez-Lopez A, Blasco-Morente G, Perez Lopez I et al. Association of moderate to severe psoriasis with osteopenia: A cross sectional study with  control group. J Am Acad dermatol 2017; 76 suppl 1: AB51
  11. Kocijan R, Englbrecht M, Haschka J et al. Quantitative and qualitative changes of bone in psoriasis and psoriatic arthritis patients. J Bone Miner Res 2015; 30: 1775-83.
  12. Early C, Stuckey L, Tischer S. Osteoporosis in the adult solid organ solid transplant population: underlying mechanisms and available treatment options. Osteoporos Int. 2016 Apr;27(4):1425-1440. doi: 10.1007/s00198-015-3367-8. Epub 2015 Oct 16.
  13. Balak DMW, Bavinck JNB, de Vries APJ et al. Drug-induced Fanconi Syndrome associated with fumaric acid esters treatment for psoriasis. A case series. Clinical Kidney J 2016; 9:82-9.
  14. Lee YH, Song GG. Association between circulating 25-Hydroxyvitamin D levels and psoriasis and correlation with disease severity: A meta-analysis. Clin Exp Dermatol 2018; 43: 529-35.

Microbiota intestinale e osteoartrosi, un approccio farmacoeconomico


Carla Lertola
Carla Lertola, dietologo

Molto diffusa tra la popolazione geriatrica è l’osteoartrosi, una patologia che può essere favorita dall’obesità e da uno stato infiammatorio cronico di basso livello. Negli ultimi anni la prevalenza di tale malattia è aumentata in seguito all’allungamento dell’aspettativa di vita, all’inattività fisica conseguente al cambiamento dello stile di vita e alla dieta sempre più povera di fibre ma ricca di zuccheri e grassi. Questi ultimi sono tutti fattori che, assieme alle disbiosi intestinali, possono favorire l’infiammazione e la sindrome metabolica. Per tale motivo l’Esceo (società europea per gli aspetti clinici ed economici dell’osteoporosi, dell’artrosi e delle malattie muscoloscheletriche) ha analizzato, attraverso la revisione di vari studi, la relazione tra microbiota intestinale e osteoartrite (Gut microbiota and osteoarthritis management: An expert consensus of the European society for clinical and economic aspects of osteoporosis, osteoarthritis and musculoskeletal diseases). Sono necessarie ulteriori ricerche, ma gli studi suggeriscono un rapporto di reciproca influenza tra la patologia e il microbiota intestale.

Carla Lertola, dietologa


Negli ultimi anni, la prevalenza dell’osteoartrosi è notevolmente aumentata, non solamente per l’allungarsi dell’aspettativa di vita, ma anche a causa dei mutati stili di vita: inattività fisica e diete povere di fibre e ricche di zuccheri e grassi saturi favoriscono l’obesità e promuovono l’infiammazione cronica. Alterazioni della composizione del microbiota intestinale possono favorire la sindrome metabolica e l’infiammazione, due fattori determinanti per l’insorgenza e l’evoluzione dell’osteoartrosi.

Il costo sociale e umano dell’osteoartrosi e la necessità di definire prevenzione e interventi terapeutici rivolti alle componenti modificabili dell’osteoartrosi hanno indotto un gruppo di lavoro della Società europea per gli aspetti clinici ed economici dell’osteoporosi, dell’artrosi e delle malattie muscoloscheletriche (Esceo), a riesaminare il potenziale contributo del microbiota intestinale all’osteoartrosi.

Tale contributo è supportato da studi di intervento osservazionale o dietetico su modelli animali di osteoartrite e nell’uomo, che confermano come diversi fattori di rischio ben noti dell’osteoartrite interagiscano con il microbiota. Infine, il microbiota è un determinante critico del metabolismo dei farmaci e biodisponibilità e può influenzare la risposta ai farmaci.

In definitiva, sono necessarie ulteriori ricerche, ma gli studi suggeriscono un rapporto di reciproca influenza tra la patologia e il microbiota intestinale.

Invecchiamento e osteoartrosi

La prevalenza di osteoartrosi (OA) aumenta con l’età. Le differenze legate all’età nella composizione del microbiota intestinale (GMB) sono notevoli: in particolare, sono state osservate alterazioni specifiche della composizione del microbiota intestinale nei centenari, più specificamente un aumento dei batteri proinfiammatori opportunistici generalmente presenti nell’ecosistema intestinale adulto e una marcata diminuzione delle specie simbiotiche con proprietà antinfiammatorie documentate (per esempio i cluster clostridiali) (1). Queste modifiche sono state associate all’infiammazione sistemica, poiché esistono forti correlazioni tra i livelli plasmatici di citochine pro-infiammatorie, come IL-6 e IL-8 e l’arricchimento dei batteri appartenenti ai Proteobacteri phylum o la diminuzione della quantità di batteri appartenenti a Firmicutes phylum (batteri produttori di butirrato, in particolare clostridiale cluster).
Questi dati suggeriscono che l’ecosistema intestinale negli anziani contribuisce all’infiammazione (2). In parte di si può presumere che questo fenomeno sia collegato al processo di invecchiamento, indipendentemente dallo stile di vita e dalle abitudini alimentari, poiché modelli simili sono stati osservati in Europa e Cina. Le analisi del profilo funzionale del microbiota hanno confermato che i cambiamenti legati all’età sono associati a una riduzione dei geni coinvolti nei percorsi responsabile della produzione di acidi grassi a catena corta via fermentazione proteolitica, nonché a un aumento dei geni batterici coinvolto nelle vie del metabolismo del triptofano (3).

Alterazioni del microbiota intestinale (GMB) e della sua composizione, che portano alla disbiosi microbica, possono favorire la sindrome metabolica e l’infiammazione, due importanti componenti di insorgenza ed evoluzione dell’OA

Sesso e osteoartrosi

Le donne sono a maggior rischio di osteoartrosi e tendono ad avere OA più grave, in particolare dopo l’età della menopausa. L’aumento dell’incidenza di OA al momento della menopausa ha portato a ipotesi sul ruolo degli estrogeni nell’OA. Privazione di estrogeni può smascherare i sintomi dell’OA migliorando la sensibilità al dolore. L’interazione degli steroidi sessuali con GMB è stata ben studiato nei modelli di perdita ossea nei topi ipogonadici. Queste i modelli hanno mostrato che la carenza di estrogeni induce la perdita della funzione barriera dell’intestino.
La supplementazione di probiotici (Lactobacillus rhamnosus) previene la perdita ossea associata alla carenza di ormoni sessuali. Nel loro insieme, questi dati illustrano la carenza di estrogeni può contribuire all’infiammazione attraverso un percorso dipendente dal microbiota.

Dieta e osteoartrosi

Anche se le associazioni più forti tra obesità e osteoartrosi sono osservate per articolazioni portanti, l’obesità aumenta anche il rischio di OA a regioni non portanti, come le mani. I dati preclinici supportano quel microbico correlato all’obesità la disbiosi guida il processo infiammatorio della patogenesi dell’OA associato all’obesità. In vari modelli animali, la gravità dell’adiposità e l’infiammazione sistemica aumenta il danno cartilagineo indotto dal carico.
La diversità e la funzionalità di GMB sono fortemente modulate dalla dieta dell’ospite. Elevazione postprandiale di LPS nel la circolazione è aumentata dalla disbiosi GMB indotta da una dieta ricca di grassi. In modelli animali, l’obesità indotta dalla dieta provoca un profilo infiammatorio promuovere lo sviluppo di OA metabolico. A questo proposito, un recente studio ha mostrato che a dieta ad alto contenuto di grassi/alto saccarosio (HFS) ha portato allo sviluppo di danni alle articolazioni del ginocchio nei ratti associati a cambiamenti nel profilo metabolico in questi animali, e ciò è stato prevenuto con l’integrazione di fibre prebiotiche e con l’esercizio aerobico.

Alterazioni del microbiota intestinale e della sua composizione, che portano alla disbiosi microbica, possono favorire la sindrome metabolica e l’infiammazione, importanti componenti di insorgenza dell’osteoartrosi

Attività fisica e osteoartrosi

Attività fisica regolare, in particolare esercizi aerobici, sembra avere benefici sia preventivi che terapeutici per gli individui con osteoartrosi. Al contrario, sport ad alto impatto e  sport che includono pesi possono promuovere l’OA. Oltre la meccanica effetti sulla cartilagine e sull’osso subcondrale, il tipo, l’intensità e la frequenza dell’attività fisica possono modulare diverse vie metaboliche interferendo con il GMB.  L’esercizio fisico potrebbe cambiare la composizione del GMB, capacità funzionale e metaboliti, indipendentemente dalla dieta.
Sebbene pochi studi abbiano studiato in modo specifico il contributo di GMB a OA, dati preclinici e studi osservazionali sull’uomo suggeriscono una potenziale forte relazione tra GMB e fattori di rischio, patogenesi e farmaci di OA. Il ruolo dei fattori confondenti deve essere esplorato meglio, in particolare background genetico, sesso, livelli di vitamina D, età e condizioni di vita, compresa l’attività fisica, composizione dietetica e terapie farmacologiche concomitanti. Peraltro, molte questioni senza risposta relative alla potenziale interazione di GMB e OA rimangono a oggi senza risposta.

Interazioni tra farmaci, microbiota e osteoartrosi

È ora stabilito che GMB è un fattore determinante fondamentale per il farmaco metabolismo e biodisponibilità, suggerendo che una composizione GMB specifica può influenzare la risposta ai farmaci OA.

In primo luogo, i farmaci usati per ridurre i sintomi dell’OA influenzano il GMB. In particolare gli oppioidi alterano la composizione del GMB e molti dei significativi le associazioni osservate tra GMB e OA si sovrappongono alle associazioni di oppioidi (4). Inoltre, i pazienti che sono in terapia con FANS assumono spesso inibitori di pompa, che inducono cambiamenti del GMB derivanti dalla rimozione della barriera a basso pH tra il tratto gastrointestinale superiore e inferiore. La variazione del GMB può peraltro influenzare metabolismo ed epatotossicità del paracetamolo.

In secondo luogo, la glucosamina solfato e il condroitinsolfato, due integratori alimentari ampiamente utilizzati nell’OA, hanno un limitato assorbimento intestinale e sono prevalentemente utilizzati da GMB. Potrebbero avere proprietà prebiotiche e quindi esercitano i loro effetti terapeutici attraverso le vie batteriche intestinali. Un recente review sistematica valutando le prove di efficacia della glucosamina solfato e condroitinsolfato sul GMB, ha mostrato che la supplementazione con condroitinsolfato aumenta la flora del genere Bacteroides, che può svolgere un ruolo importante nella regolazione simbiotica a livello della comunità microbica intestinale e della salute dell’ospite (5).

Sono necessarie ulteriori ricerche su GMB o sui suoi metaboliti per spostare il campo dell’osteoartrosi dalla gestione sintomatica agli interventi individualizzati mirati alla sua patogenesi.

Lo studio

Bivera, E, Berenbaumb, AM, Araujo de Carvalhod, et al. Gut microbiota and osteoarthritis management: An expert consensus of the European society for clinical and economic aspects of osteoporosis, osteoarthritis and musculoskeletal diseases (ESCEO) Ageing Research Reviews, Vol 55, November 2019

Bibliografia

  1. Santoro, A, Ostan, R, Candela, M et al. Gut microbiota changes in the extreme decades of human life: a focus on centenarians. Cell. Mol. Life Sci. 75, 129–148 (2018). https://doi.org/10.1007/s00018-017-2674-y
  2. Franceschi, C, Garagnani, P, Parini, P et al. Inflammaging: a new immune–metabolic viewpoint for age-related diseases. Nat Rev Endocrinol 14, 576–590 (2018). https://doi.org/10.1038/s41574-018-0059-4
  3. Franceschi, C, Garagnani, P, Vitale, G et al. Inflammaging and ‘Garb-aging’. Trends in Endocrinology and Metabolism, Vol 28, Issue 3, March 2017, Pages 199-212
  4. Banerjee, S, Sindberg, G, Wang, F et al. Opioid-induced gut microbial disruption and bile dysregulation leads to gut barrier compromise and sustained systemic inflammation. Mucosal Immunol 9, 1418–1428 (2016)
  5. Shmagel, A; Demmer, R; Knights, D; Butler, M; Langsetmo, L; Lane, N.E; Ensrud, K. The Effects of Glucosamine and Chondroitin Sulfate on Gut Microbial Composition: A Systematic Review of Evidence from Animal and Human Studies. Nutrients 2019, 11, 294

Gestione farmacologica dopo frattura atipica di femore

Le fratture di femore si classificano in due grandi gruppi:

  • fratture del terzo superiore del femore: sono le classiche e frequenti fratture da fragilità ossea su base osteoporomalacica e a seconda della sede possono essere di differenti tipi (sottocapitata, transcervicale, basicervicale, intertrocanterica e pertrocanterica);
  • fratture sottotrocanteriche/diafisarie: sono comprese fra la linea passante per il margine inferiore del piccolo trocantere e la linea sovracondiloidea del femore e possono essere tipiche e atipiche (atypical femur fractures AFF), rappresentando queste ultime lo 0,4-0,6% di tutte le fratture di femore.

Nel 2014 la Task Force della American Society of Bone and Mineral Research (1) ha ridefinito i criteri maggiori e minori per la definizione delle AFF (Tabella 1); per la diagnosi sono necessari almeno quattro dei cinque criteri maggiori mentre non è necessario nessun criterio minore; in assenza dei suddetti criteri le fratture sono da definirsi tipiche (ad esempio fratture da trauma di alta energia, fratture periprotesiche, fratture patologiche secondarie a tumori primitivi/secondari dell’osso o a malattie dello scheletro come morbo di Paget e displasia fibrosa).

Tabella 1. Criteri maggiori e minori per la definizione di AFF

Criteri maggiori
  1. La frattura è associata con trauma minimo o assente
  2. La linea di frattura origina dalla corticale laterale ed è sostanzialmente trasversale, sebbene possa diventare obliqua nella sua progressione mediale attraverso il femore
  3. Le fratture complete interessano entrambe le corticali e possono essere associate con uno spike mediale, le fratture incomplete interessano solo la corticale laterale
  4. La frattura non è comminuta o minimamente comminuta
  5. Un ispessimento localizzato (periostale o endostale) della corticale laterale è presente al sito di frattura
Criteri minori
  1. Incremento generalizzato dello spessore corticale della diafisi femorale
  2. Sintomi prodromici uni o bilaterali come fastidio/dolore all’inguine o alla coscia
  3. Frattura completa o incompleta bilaterale
  4. Ritardo di consolidamento

Le AFF rappresentano, insieme all’osteonecrosi mascellare/mandibolare, un possibile effetto collaterale, raro ma temibile, della terapia cronica con amino-bisfosfonati (incidenza stimata delle AFF pari a 1,8/100.000 persone/anno nei pazienti in terapia con bisfosfonato da meno di due anni e pari a 113/100.000 persone/anno nei pazienti in terapia con bisfosfonato da più di otto anni). Si ritiene che nella patogenesi di queste fratture possa essere coinvolto il ridotto turn-over osseo indotto dalla terapia anti-riassorbitiva, tuttavia le AFF sono descritte anche in pazienti naive in relazione alla pregressa esposizione farmacologica.

È di recentissima pubblicazione su JCEM (2) una review sistematica inerente l’effetto di denosumab, raloxifene e teriparatide sia sulla comparsa sia sul bone healing delle AFFs; seguono alcune raccomandazioni cliniche sulla gestione farmacologica dopo frattura atipica di femore, che, in assenza di trial clinici randomizzati controllati (RCT), sono da intendersi come “expert opinion”. L’argomento è di importante rilevanza clinica in quanto, in caso di comparsa di una AFF in corso di terapia anti-riassorbitiva, si pone l’annosa questione se sospendere definitivamente la terapia, allo scopo di favorire il consolidamento della frattura e al tempo stesso ridurre la possibile comparsa di un’ulteriore AFF, oppure proseguire la terapia nei pazienti osteoporotici che permangono ad alto rischio di fratture da fragilità.

Evidenze su denosumab e raloxifene

Il rischio assoluto di frattura atipica del femore in corso di terapia con denosumab o raloxifene è in generale molto basso e interessa soprattutto i pazienti con pregresso trattamento con amino-bisfosfonati e quelli con una pregressa AFF.

Non ci sono dati sufficienti per stabilire un effetto di denosumab e raloxifene sul bone healing.

Evidenze su teriparatide

Durante o dopo terapia con teriparatide, può verificarsi una AFF, sia come prima presentazione sia come seconda frattura al femore controlaterale, ma solo in pazienti con precedente trattamento con amino-bisfosfonati.
Gli studi osservazionali hanno dimostrato che il 90% delle AFF incomplete sottoposte a chirurgia e il 76% delle AFF complete (chirurgiche) vanno incontro a bone healing entro 6 mesi dall’inizio di terapia con teriparatide, a differenza delle AFF incomplete non sottoposte a chirurgia (43%) trattate con teriparatide e delle AFF complete (chirurgiche) non trattate con teriparatide (51%). Non ci sono quindi i presupposti per una raccomandazione “evidence-based” sull’uso di teriparatide per accelerare la guarigione delle AFF, tuttavia i dati suggeriscono un potenziale di teriparatide per il consolidamento delle AFF sottoposte a chirurgia (complete e incomplete), ma non per le AFF incomplete non sottoposte a chirurgia.

Evidenze su abaloparatide e romosozumab

Non ci sono casi documentati di AFF in corso di terapia con abaloparatide (farmaco anabolizzante). Sono descritti 3 casi di AFF da romosozumab (farmaco anabolico ma anche inibente il riassorbimento osseo) in corso dei trial clinici.

Raccomandazioni cliniche (“expert opinion”)

Di fronte alla comparsa di una AFF, gli autori suggeriscono le seguenti tre raccomandazioni:

  • rivalutare il rischio fratturativo del paziente (per fratture osteoporotiche da fragilità);
  • se il paziente è in terapia con un amino-bisfosfonato o denosumab, sospendere la terapia in corso (la prosecuzione della terapia può determinare peggioramento della frattura e/o la comparsa di una frattura controlaterale);
  • nei successivi due anni monitorare con radiogrammi del femore bilaterale il bone healing della frattura e la possibile comparsa di una seconda AFF controlaterale (anche in corso di teriparatide).

A questo punto si procede diversamente a seconda che il paziente presenti un alto o basso rischio fratturativo (per fratture osteoporotiche da fragilità) (Tabella 2).

Tabella 2. Trattamento delle AFF in base al rischio fratturativo

Alto rischio per fratture da fragilità AFF non sottoposta a chirurgia

  • teriparatide per 2 anni (non in terapia sequenziale dopo denosumab)
  • se teriparatide non indicato, valutare: raloxifene, HRT o tibolone

AFF sottoposta a chirurgia

  • teriparatide per 2 anni (non in terapia sequenziale dopo denosumab)
  • se teriparatide non indicato, valutare: ri-start bisfosfonato o denosumab (dopo consolidamento della frattura), raloxifene, HRT o tibolone
Basso rischio per fratture da fraglità AFF non sottoposta a chirurgia

  • non evidenza per uso di teriparatide
  • se denosumab ≥ 2 somministrazioni, proseguire con bisfosfonato o raloxifene short-term (consolidamento farmacologico)

AFF sottoposta a chirurgia

  • evidenza debole per uso di teriparatide (3-6 mesi)
  • se denosumab ≥ 2 somministrazioni, proseguire con bisfosfonato o raloxifene short-term (consolidamento farmacologico)

Dopo i due anni di terapia con teriparatide, valutare le seguenti opzioni terapeutiche:

  • bisfosfonato o denosumab in caso di chiodo intramidollare bilaterale
  • raloxifene
  • HRT o tibolone
  • in caso di basso turn-over, si può considerare di non eseguire la terapia sequenziale, con attento monitoraggio dei BMT e della BMD.

Considerazioni finali

La decisione su come proseguire la terapia anti-osteoporosi in caso di comparsa di AFF è complessa e deve necessariamente tenere conto della rivalutazione del rischio di frattura da fragilità (vertebrale e femorale) del paziente al momento dell’evento fratturativo.
In caso di alto rischio fratturativo, è utile portare avanti un duplice scopo: da un lato accelerare il consolidamento della AFF e dall’altro proseguire la terapia anti-fratturativa:

  • se è in corso una terapia anti-riassorbitiva con un amino-bisfosfonato, gli autori suggeriscono di shiftare a teriparatide per due anni, durante i quali monitorare con radiogrammi del femore bilaterale il bone healing della frattura, e quindi proseguire con una terapia anti-riassorbitiva (bisfosfonato o Dmab in caso di AFF sottoposta a chirurgia oppure SERM o HRT/tibolone);
  • se è in corso una terapia anti-riassorbitiva con un amino-bisfosfonato e vi è una controindicazione a teriparatide, gli autori suggeriscono di shiftare ad una terapia anti-riassorbitiva più blanda (SERM, HRT/tibolone) oppure di proseguire con il bisfosfonato dopo avvenuto consolidamento della frattura;
  • se è in corso una terapia anti-riassorbitiva con denosumab, non potendo eseguire una terapia sequenziale con teriparatide per la nota perdita di massa ossea (3), gli autori suggeriscono di proseguire con una terapia anti-riassorbitiva più blanda (bisfosfonato, SERM, HRT/tibolone).

In caso di basso rischio fratturativo, lo scopo è quello di accelerare il consolidamento della AFF potendo sospendere nel breve termine la terapia anti-osteoporosi:

  • se è in corso una terapia anti-riassorbitiva con un amino-bisfosfonato, gli autori suggeriscono la sospensione della terapia ed eventualmente teriparatide per 3-6 mesi in caso di AFF sottoposta a chirurgia;
  • se è in corso una terapia con Dmab ≥ 2 somministrazioni, gli autori suggeriscono un consolidamento farmacologico short-term con bisfosfonato o SERM.

Bibliografia

  1. Shane E, Burr D, Abrahamsen B, Adler RA et al. Atypical subtrochanteric and diaphyseal femoral fractures: second report ofa task force of the American Society for Bone and Mineral Research. J Bone Miner Res. 2014 Jan;29(1):1-23.
  2. Van de Laarschot DM, McKenna MJ, Abrahamsen B et al. Medical Management of Patients After Atypical Femur Fractures: a Systematic Review and Recommendations From the European Calcified Tissue Society. J Clin Endocrinol Metab. 2020 May 1;105(5).
  3. Leder BZ, Tsai JN, Uihlein AV et al. Denosumab and teriparatide transitions in postmenopausal osteoporosis (the DATA-Switch study): extension of a randomised controlled trial. Lancet. 2015 Sep 19;386(9999):1147-55.

Osteoporosi e chirurgia protesica

0

Quanto è importante una corretta valutazione osteometabolica del paziente candidato a chirurgia protesica?
La parola agli esperti di BoneHealth:

Per approfondire

Ottimizzazione della salute ossea in chirurgia ortopedica

Importanza dell’aderenza alla terapia con denosumab

Mentre esiste un’ampia letteratura che dimostra come l’interruzione dell’assunzione di denosumab senza un’adeguata strategia farmacologica successiva porti a una rapida inversione del suo effetto terapeutico, non ci sono dati su come ritardi involontari o mancate iniezioni di denosumab incidano sulla risposta della densità minerale ossea (BMD). Nello studio “Delayed Denosumab Injections and Bone Mineral Density Response: An Electronic Health Record-based Study“, un gruppo di ricercatori di Boston (Massachussetts) ha quindi esaminato l’effetto della mancata aderenza alla terapia con denosumab sul cambiamento di BMD, dimostrando che

l’allungamento dell’intervallo oltre i sette mesi tra iniezioni successive di denosumab è associato a una risposta non ottimale della BDM.

Sospensione di denosumab e inversione dell’effetto terapeutico

Denosumab è un efficace farmaco inibitore del riassorbimento osseo, comunemente prescritto per il trattamento dell’osteoporosi. È un anticorpo monoclonale completamente umanizzato che si lega all’attivatore del recettore del ligando fattore-κB nucleare con elevata specificità e affinità, compromettendo in tal modo la funzione degli osteoclasti e inibendo il riassorbimento osseo.

Un ampio studio randomizzato di fase 3, controllato con placebo, ha mostrato che denosumab 60 mg ogni 6 mesi ha aumentato significativamente la densità minerale ossea (BMD) per 24 mesi ed è stato associato a ridotte fratture vertebrali, non vertebrali e dell’anca a 36 mesi. Uno studio a lungo termine ha mostrato che le iniezioni di denosumab per un massimo di 10 anni erano associate a bassa incidenza di fratture e aumento prolungato della BMD senza un plateau evidente.

A differenza dei bisfosfonati, l’interruzione di denosumab porta a una rapida inversione del suo effetto terapeutico, senza follow-on del trattamento antiosteoporosi, il turnover osseo si riporta sopra i livelli basali tre mesi dopo l’interruzione e la BMD acquisita nei precedenti due anni viene ridotta ai livelli basali dopo un anno. L’interruzione del denosumab espone inoltre i pazienti a un aumentato rischio di fratture vertebrali multiple, in particolare nei pazienti con precedenti fratture vertebrali. Queste fratture si verificano spesso entro un breve periodo dalla sospensione del trattamento (da due a dieci mesi dopo che l’effetto terapeutico di denosumab è diminuito o da otto a 16 mesi dall’ultima iniezione di denosumab), evidenziando l’importanza di una somministrazione tempestiva.

Sebbene ritardare o omettere le dosi di denosumab sia teoricamente associato a una risposta sfavorevole alla BMD e a un aumentato rischio di frattura da fragilità, mancavano i dati della pratica clinica. Studi precedenti a quello effettuato dai ricercatori di Boston si sono concentrati principalmente sui fattori di rischio e sul tasso di interruzione del denosumab, che era del 49% a 12 mesi e del 64% a 24 mesi. In uno studio europeo, l’adesione (definita come inferiore a sette mesi tra due iniezioni consecutive) è stata dall’83% all’89% a 12 mesi e del 63% al 70% a 24 mesi. Sebbene vi siano ampie prove che l’aderenza al dosaggio semestrale diminuisca, l’impatto di questi ritardi sulla BMD è stato scarsamente analizzato.

Effetti della mancata aderenza alla terapia con denosumab sulla BMD

Per valutare l’efficacia degli interventi, il gold standard è uno studio randomizzato controllato. Tuttavia, ciò non è possibile in caso di ritardo nel dosaggio di denosumab. Un approccio osservazionale, che sfrutta le variazioni dei tempi di somministrazione di denosumab, ha consentito al gruppo di Boston di esaminare il loro impatto sulla risposta alla BMD in contesti clinici di routine.

Per la realizzazione dello studio sono state usate le cartelle cliniche elettroniche conservate in due ospedali universitari dal 2010 al 2017, prendendo in considerazione quelle di pazienti di età superiore ai 45 anni che abbiano utilizzato almeno due dosi da 60 mg di denosumab.

L’aderenza alla terapia con denosumab è stata valutata in base al rapporto di copertura terapeutica (MCR): una buona aderenza corrisponde a un intervallo di dosaggio ≤7 mesi (definito da MCR ≥93%), una moderata aderenza corrisponde a un intervallo da 7 a 10 mesi (MCR 75%–93%) e una scarsa aderenza corrisponde a un intervallo ≥10 mesi (MCR ≤75%).

I risultati sono stati misurati valutando la variazione percentuale annualizzata rispetto al basale di BMD della colonna lombare, dell’anca totale e del collo del femore.

I ricercatori hanno identificato 151 pazienti che hanno ricevuto 938 iniezioni di denosumab. L’età media (DS) dei pazienti era di 69 anni; il 95% era di sesso femminile.

Scelta della coorte

Lo studio ha mostrato che l’aderenza alla terapia con iniezioni di denosumab da tre a cinque anni non era ottimale: quasi la metà della popolazione studiata ha avuto almeno un ritardo di iniezione da oltre quattro mesi a quattro anni.

I pazienti con una buona aderenza hanno mostrato un aumento della BMD annualizzato del 3,9% alla colonna lombare, rispetto ai pazienti con aderenza moderata (3,0%) o scarsa (1,4%, P per tendenza 0,002). I pazienti con una buona aderenza hanno avuto un aumento della BMD annualizzato del 2,1% sull’anca totale, rispetto ai pazienti con aderenza moderata (1,3%) o scarsa (0,6%, P per tendenza 0,002).

Lo studio dimostra che intervalli più lunghi tra le somministrazioni di denosumab sono associati a una risposta BMD non ottimale a livello dell’anca e della colonna lombare totale. Questi risultati evidenziano l’importanza della tempestiva somministrazione di denosumab quando si utilizza questo farmaco per la gestione dell’osteoporosi a lungo termine.

Un’osservazione importante dello studio è che dopo i 24 mesi l’aderenza alla terapia con denosumab è diminuita drasticamente, con percentuali di pazienti aderenti del 28% a 36 mesi, del 13% a 48 mesi e dell’8% a 60 mesi. Scoperta ancor più inquietante è che un’ampia percentuale della popolazione studiata ha avuto almeno un ritardo di oltre quattro mesi: ben il 27% a 36 mesi, il 44% a 48 mesi e il 63% a 60 mesi. Data la differenza osservata nell’aumento della BMD tra i pazienti che hanno ricevuto denosumab nei tempi previsti e quelli con intervallo superiore a sette mesi tra le dosi, è probabile che questi pazienti presentino un rischio più elevato di miglioramenti non ottimali della BMD, o addirittura diminuzioni, durante il periodo di non trattamento.

Per rendere più efficaci gli interventi terapeutici, vanno implementati interventi volti a migliorare l’aderenza a lungo termine a denosumab.

In un’analisi stratificata post hoc, i ricercatori hanno verificato se l’effetto dei ritardi nell’assunzione della terapia era diverso tra i primi anni e i successivi. L’aumento di BMD annualizzato nel gruppo con scarsa aderenza era costantemente inferiore rispetto ai gruppi con aderenza moderata e buona, ma tutti gli aumenti di BMD erano inferiori negli anni successivi. Nel gruppo con scarsa aderenza, durante i primi due anni di trattamento, l’aumento di BMD annualizzato è stato del 2,9% alla colonna lombare e dell’1,0% all’anca totale; oltre i due anni, gli aumenti erano piuttosto modesti, con solo lo 0,1% a livello della colonna lombare e lo 0,1% a livello dell’anca totale.

Secondo i risultati dello studio, il ritardo nell’assunzione di denosumab potrebbe avere un effetto più negativo negli anni successivi ai primi due.

Queste intuizioni andrebbero tuttavia ulteriormente indagate: gli stessi ricercatori dichiarano di non aver potuto disporre di strumenti statistici sufficienti per rilevare in modo conclusivo l’interazione tra ritardo e durata del trattamento. Studi che utilizzano marcatori del turnover osseo o misurazioni istomorfometriche possono fare ulteriore luce su questo fenomeno.

Implicazioni cliniche della mancata aderenza alla terapia

In conclusione, lo studio, la cui originalità sta nella valutazione dell’impatto del ritardo nel dosaggio di denosumab sulla BMD, ha dimostrato che nella popolazione considerata l’aderenza a lungo termine alla terapia non è stata ottimale. Una migliore aderenza è associata a una maggiore risposta annualizzata della BMD sia alla colonna lombare che all’anca totale.

I ricercatori di Boston rilevano che, poiché la somministrazione di denosumab richiede un appuntamento con il sistema sanitario, i ritardi possono essere inevitabili nella pratica clinica di routine.

Attualmente, esistono poche prove relativamente a quanto possa essere allungato l’intervallo tra due somministrazioni successive. I risultati dello studio dimostrano che un ritardo di oltre quattro mesi (cioè un intervallo superiore a dieci mesi tra somministrazioni successive) può essere inaccettabile, ma sono necessari ulteriori studi per determinare la soglia esatta.

Individuare strategie efficaci per migliorare l’aderenza alla terapia con denosumab e implementare tali strategie è cruciale se si vogliono ottimizzare i benefici di questa terapia altamente efficace riducendo al minimo i potenziali effetti avversi.

 

Lo studio

Houchen Lyu, Sizheng S Zhao, Kazuki Yoshida, Sara K Tedeschi, Chang Xu, Sagar U Nigwekar, Benjamin Z Leder, Daniel H Solomon, Delayed Denosumab Injections and Bone Mineral Density Response: An Electronic Health Record-based Study, The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, Volume 105, Issue 5, May 2020, dgz321, https://doi.org/10.1210/clinem/dgz321

Articoli correlati

Denosumab efficacia antifratturativa a lungo termine

Discontinuazione del denosumab e terapia di consolidamento farmacologico

Relazione tra parodontite e controllo glicemico

Sabrina Corbetta

Le patologie del parodonto sono tra le più comuni malattie che affliggono la popolazione. Causano una reazione infiammatoria che coinvolge svariati tessuti che circondano i denti, quali gengiva, legamenti parodontali e osso alveolare e possono estendersi a livello sistemico.

La parodontite insorge a causa dell’accumulo di biofilm di placca a livello dentale, ove la dismicrobiosi provoca una risposta distruttiva infiammatoria locale e quindi la degenerazione dei tessuti. Questa risposta dell’ospite alle variazioni batteriche presenti nel biofilm causa un’infiammazione che si cronicizza nel tempo. Diversi studi hanno dimostrato che lo stato infiammatorio non risulta limitato localmente al parodonto, ma provoca, a causa del rilascio di citochine pro-infiammatorie e mediatori dell’infiammazione, una risposta sistemica. Anche la parodontite, così come altre malattie infiammatorie croniche, svolge un ruolo sistemico e può quindi essere associata allo sviluppo di alcune condizioni, tra cui disordini metabolici e patologie cardiovascolari. Tra queste da considerare con particolare attenzione il diabete mellito di tipo 2.

La reazione infiammatoria cronica causata dalla parodontite risulta un fattore di rischio per lo sviluppo di diabete e delle sue complicanze, poiché aumenta l’insulino-resistenza e la disfunzione endoteliale.

Parodontite e diabete, relazione bidirezionale

È stato suggerito che la parodontite e il diabete sono due patologie strettamente associate tra loro e che hanno una relazione bidirezionale.

Il rischio di parodontite in persone affette da diabete è incrementato di 2-3 volte rispetto agli individui sani e risulta inversamente proporzionale al controllo glicemico. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato che gli individui con uno scarso controllo glicemico (HbA1c >9,0%) sviluppano frequentemente una patologia del parodonto più severa degli individui con normale metabolismo glucidico.

La relazione diabete-parodontite risulta bidirezionale: l’infiammazione cronica e sistemica derivata dalla patologia parodontale o dalla scarsa igiene orale possono avere un ruolo nell’insorgenza del diabete mellito di tipo 2 attraverso diversi meccanismi: il dismicrobismo e la produzione di citochine e mediatori dell’infiammazione (es. TNF-α e CPR). Questi, dopo esser stati prodotti localmente, entrano in circolo contribuendo a creare un quadro di infiammazione sistemica con conseguente insulino-resistenza, incremento della glicemia, dei valori di emoglobina glicata (HbA1c) e incremento del rischio di sviluppare diabete o peggiorare il compenso glicometabolico.

Effetti della parodontite sul controllo glicemico e su rischio di diabete mellito di tipo 2

In individui non affetti da diabete:

– La parodontite si associa a livelli più elevati di emoglobina glicata, alterata glicemia a digiuno e alterata tolleranza al glucosio rispetto a individui che non presentano patologie parodontali

– La presenza di parodontite severa è associata a un rischio statisticamente significativo più elevato di sviluppare il diabete (Hazard Ratio 1.19-1.33, corrispondente a un incremento del rischio del 19-33%) rispetto alla popolazione sana

dati estrapolati da “Graziani et al.; J Clin Paronontal 2018”

Parodontite e rischio di complicanze diabetiche

La parodontite è inoltre associata a un aumentato rischio di complicanze diabetiche.

L’82% dei pazienti diabetici con parodontopatia severa sperimenta un evento cardiovascolare o cerebrovascolare maggiore oppure una vasculopatia periferica, rispetto al 21% dei pazienti diabetici senza patologia infiammatoria parodontale.

Diversi studi hanno valutato l’impatto del trattamento della patologia infiammatoria parodontale. Due revisioni della Cochrane del 2010 e 2015 hanno mostrato riduzione dei livelli di HbA1c già a tre mesi dal trattamento efficace della parodontopatia. Lo stesso dato è stato confermato da una recente metanalisi che ha evidenziato una riduzione significativa, di 3-7 mmol/mol, nei primi tre mesi dopo il trattamento, ulteriormente confermata, seppur in minor misura, a sei mesi dal trattamento. La riduzione dei batteri sottogengivali porta a una riduzione dei batteri circolanti sistemici e dei loro prodotti con conseguente riduzione di citochine pro-infiammatorie e mediatori (Figura 1).

parodontite e diabete
Figura 1. Potenziali meccanismi che associano parodontite e impatto del trattamento
della patologia parodontale sul controllo glicometabolico.

A: Nelle parodontiti non trattate, i batteri, gli antigeni batterici, i mediatori dell’infiammazione e le citochine infiammatorie entrano in circolo e contribuiscono al mantenimento di uno stato infiammatorio sistemico. Questo causa una compromissione dei segnali insulinici che porta a insulino-resistenza, aumento dei livelli di HbA1c e di complicanze del diabete.
B: Dopo trattamento e riduzione dell’infiammazione locale, i livelli di batteri circolanti, antigeni, citochine e mediatori dell’infiammazione si riducono. Di conseguenza lo stato infiammatorio sistemico si riduce e migliorano i parametri glicometabolici di insulino-resistenza e HbA1c, così come si riducono le complicanze associate al diabete. CRP, proteina reattica-C; HbA1c, emoglobina glicata; IL-6, interleuchina-6; TNF-α, fattore di necrosi tumorale-α.
Polak D et al; J Clin Periodontol 2018

Raccomandazioni cliniche

Questi dati permettono di trarre delle raccomandazioni cliniche da inserire nella routine:

  • Gli operatori sanitari medici e gli odontoiatri dovrebbero essere consapevoli della relazione bidirezionale tra parodontite e diabete e dovrebbero comunicare queste informazioni ai pazienti
  • I professionisti medici dovrebbero chiedere ai pazienti diabetici notizie in merito alla loro salute orale e sui sintomi della parodontite, raccomandare una valutazione odontoiatrica e iniziare una collaborazione con i colleghi
  • I professionisti dentali devono eseguire un monitoraggio periodontale periodico nei pazienti con diabete, chiedere informazioni sul controllo glicemico (ad es. livelli di HbA1c) e collaborare con il team medico
  • I professionisti dentali potrebbero prendere in considerazione la valutazione del rischio di diabete quando sospettato e collaborare con il medico in caso di evidenza di aumento del rischio di diabete.

Letture consigliate

  • Kinane DF, Stathopoulou PG, Papapanou PN (2017) Periodontal diseases. Nat Rev Dis Primers 3:17038
  • Yoonkyung Chang, Ji Sung Lee, Ki-Jung Lee, Ho Geol Woo, Tae-Jin Song (2020) Improved oral hygiene is associated with decreased risk of new-onset diabetes: a nationwide population-based cohort study . Diabetologia https://doi.org/10.1007/s00125-020-05112-9
  • Linden GJ et al; Periodontal systemic associations: review of the evidence; Periodontol 2013
  • Mealey BL et al; Diabetes mellitus and periodontal disease; Periodontol 2000- 2007
  • Aguilar-Salinas et al; Recent advances in managing/understanding the metabolic syndrome; F1000 Research 2019
  • Polak D et al; An update on the evidence for pathogenic mechanisms that may link periodontitis and diabetes. J Clin Periodontol 2018
  • Makkar H et al; periodontal, metabolic, and cardiovascular disease: Exploring the role of inflammation and mental health; Pteridines 2018
  • Simpson TC et al; Treatment of periodontal disease for glycaemic control in people with diabetes; Cochrane Database of Systematic Reviews 2010
  • Sinmpson TC et al; Treatment of periodontal disease for glycaemic control in people with diabetes mellitus; Cochrane Database of 2015
  • Madianos et al; An update of the evidence on the potential impact of periodontal therapy on diabetes outcomes; J Clin Periodontol 2018

Rischio di osteonecrosi mascellare/mandibolare nei pazienti in terapia con clodronato

Negli ultimi dieci anni, l’utilizzo del clodronato per il trattamento dell’osteoporosi è sempre più scarso e questo farmaco non è inserito nella Nota Aifa 79 che regola in Italia la dispensazione dei farmaci anti-osteoporosi a carico del SSN. Tuttavia, nella corrente pratica clinica, è possibile trovare pazienti in trattamento da molti anni con clodronato per osteoporosi. Anche se, a causa del suo limitato utilizzo, il possibile ruolo patogenetico di questo alkyl-bisfosfonato nell’osteonecrosi mascellare/mandibolare (ONJ) è incerto, l’odontostomatologo deve trattare il paziente candidato a chirurgia orale con questa anamnesi farmacologica secondo le stesse linee guida relative agli amino-bisfosfonati.

Bisfosfonati

I bisfosfonati sono farmaci anti-riassorbitivi comunemente usati nel trattamento dell’osteoporosi primaria (post-menopausale e senile) e in diverse forme disecondaria (prima fra tutte, l’osteoporosi indotta da glucocorticoidi) [1]. Dal punto di vista farmacodinamico, questi farmaci si legano ai cristalli di idrossiapatite della matrice ossea e si concentrano all’interfaccia osteoclasti-matrice (sede del riassorbimento osseo), dove vengono internalizzati per endocitosi negli osteoclasti, nei quali svolgono un’azione citotossica portando all’apoptosi cellulare.

Amino-bisfosfonati

Quando si parla di bisfosfonati nel trattamento dell’osteoporosi, ci si riferisce in genere agli amino-bisfosfonati (alendronato, risedronato, ibandronato, zoledronato), che inibiscono l’enzima farnesil-pirofosfato sintetasi necessario per la funzione cellulare degli osteoclasti, determinando l’inibizione della prenilazione delle proteine e la mancata formazione dell’orletto a spazzola, presupposti per la morte cellulare.

Clodronato

Il clodronato è invece un alkyl-bisfosfonato che viene incorporato in ATP-analoghi non idrossilabili, che interferiscono con l’attività mitocondriale degli osteoclasti determinandone la lisi cellulare. Questo farmaco ha una bassissima affinità per i cristalli di idrossiapatite della matrice ossea e una bassa potenza antiriassorbitiva per cui, proprio per queste sue sfavorevoli caratteristiche farmacologiche, a differenza degli amino-bisfosfonati, non è stato inserito nella Nota Aifa 79 che regola in Italia la dispensazione dei farmaci anti-osteoporosi a carico del sistema sanitario nazionale.

Le indicazioni in scheda tecnica del clodronato sono rappresentate dal controllo dell’ipercalcemia, sia essa di origine benigna (in corso di iperparatiroidismo primario) sia essa di origine maligna (in corso di osteolisi tumorale e mieloma multiplo) e dalla prevenzione/trattamento dell’osteoporosi post-menopausale.

Nella realtà clinica attuale per quanto riguarda il trattamento dell’ipercalcemia, il clodronato è stato soppiantato dallo zoledronato e dal denosumab, mentre nel campo dell’osteoporosi non ha più praticamente uno spazio terapeutico in virtù dei nuovi potenti farmaci anti-riassorbitivi con solide evidenze in termini di riduzione del rischio fratturativo.

Per la sua azione antinfiammatoria e analgesica, viene invece frequentemente utilizzato dai medici ortopedici “off-label” e per brevi cicli mensili nelle seguenti condizioni cliniche: riduzione del riassorbimento peri-protesico in impianti femorali non cementati nelle fasi precoci, trattamento antalgico delle fratture vertebrali da osteoporosi di recente insorgenza, terapia della peri-artropatia dell’anca dolorosa non responsiva ai comuni anti-dolorifici, trattamento dell’osteo-artrite del ginocchio e trattamento dell’osteo-artrite erosiva delle mani e trattamento dell’algodistrofia. [2-7]

Associazione tra clodronato e ONJ

Mentre è ben nota l’associazione fra amino-bisfosfonati e osteonecrosi mascellare/mandibolare (ONJ) con una prevalenza stimata di 1:10,000 pazienti trattati per osteoporosi [8], il possibile ruolo patogenetico del clodronato in questa patologia rimane ad oggi più incerto e meno definito sul piano epidemiologico.

In considerazione del sempre più scarso utilizzo del farmaco negli ultimi dieci anni, l’ultima revisione della letteratura inerente l’argomento risale al 2010 [9]. Partendo da una ricerca della letteratura estesa a un intervallo temporale compreso fra il 1966 e il 2010, gli autori descrivono un totale di 27 casi di ONJ indotta da clodronato, nella maggior parte dei casi in corso di clodronato somministrato ad alte dosi per via endovenosa per mieloma multiplo o metastasi ossee da neoplasia mammaria; solo in dieci casi il clodronato era utilizzato in monoterapia, in tutti gli altri era associato a terapia con uno o più amino-bisfosfonati (pamidronato, zoledronato, alendronato, risedronato) e spesso erano presenti importanti cofattori di rischio (chemioterapia, radioterapia, terapia steroidea, diabete mellito).

La presentazione clinica della ONJ indotta da clodronato era simile alla forma più frequente correlata agli amino-bisfosfonati, la durata dell’esposizione al farmaco antecedente l’insorgenza dell’osteonecrosi era maggiore per il clodronato rispetto agli amino-bisfosfonati (verosimilmente legata alla bassa affinità della molecola per la matrice ossea) e il fattore scatenante era spesso rappresentato da una procedura di estrazione dentale o chirurgia orale con esposizione dell’osso alveolare.

Nella corrente pratica clinica, a oggi non è infrequente il riscontro di pazienti in trattamento da molti anni con clodronato per osteoporosi da parte dei medici di medicina generale; in questi casi il clodronato viene utilizzato al dosaggio di 100 mg intramuscolo alla settimana o 200 mg intramuscolo ogni 2 settimane (non in nota 79).

L’odontostomatologo può quindi trovarsi di fronte un paziente candidato a chirurgia orale con questa anamnesi farmacologica. A tal riguardo, se dalla suddetta casistica della letteratura 1966-2010 estrapoliamo i soli casi in cui il clodronato è stato utilizzato in monoterapia per osteoporosi o post-chirurgia ortopedica al dosaggio di 100 mg intramuscolo alla settimana [10-11], contiamo solamente un totale di 5 casi con una durata media di pregressa esposizione al farmaco di 17 mesi.

Gli autori concludono che la correlazione fra clodronato e ONJ rimane incerta ma che comunque il dentista deve applicare per il clodronato le stesse linee guida [12] relative agli amino-bisfosfonati.

Nella pratica clinica, in considerazione della bassissima affinità del farmaco per la matrice ossea, il potenziale rischio si annulla dopo poche settimane dalla sospensione della terapia e in ogni caso si raccomanda una rivalutazione del paziente da parte del “bone specialist” proprio per valutare la reale indicazione che come abbiamo detto spesso è incongrua.

Bibliografia

  1. Das S, Crockett JC. Osteoporosis – a current view of pharmacological prevention and treatment. Drug Des Devel Ther. 2013;31(7):435-48.
  2. Trevisan C, Ortolani S, Romano P et al. Decreased periprosthetic bone loss in patients treated with clodronate: a 1-year randomized controlled study. Calcif Tissue Int. 2010 Jun;86(6):436-46.
  3. Rovetta G, Monteforte P, Balestra V. Intravenous clodronate for acute pain induced by osteoporotic vertebral fracture. Drugs Exp Clin Res. 2000;26(1):25-30.
  4. Monteforte P, Molfetta L, Grillo G, Brignone A, Rovetta G. Disodium clodronate in painful nonresponsive periarthropathy of the hip. Int J Tissue React. 2000;22(4):111-5.
  5. Rossini M, Viapiana O, Ramonda R, Bianchi G, Olivieri I, Lapadula G, Adami S. Intraarticular clodronate forthe treatment of knee osteoarthritis: dose ranging studyvs hyaluronic acid. Rheumatology (Oxford). 2009 Jul;48(7):773-8.
  6. Saviola G, Abdi-Ali L, Campostrini L, Sacco S et al. Clodronate and hydroxychloroquine in erosive osteoarthritis: a 24-month open randomized pilot study. Mod Rheumatol. 2012 Apr;22(2):256-63.
  7. Varenna M, Zucchi F, Ghiringhelli D, Binelli L, Bevilacqua M, Bettica P, Sinigaglia L. Intravenous clodronate in the treatment of reflex sympathetic dystrophy syndrome. A randomized, double blind, placebo controlled study. J Rheumatol. 2000 Jun;27(6):1477-83.
  8. Dodson TB. Intravenous bisphosphonate therapy and bisphosphonate-related osteonecrosis of the jaws. J Oral Maxillofac Surg. 2009;67(5 Suppl):44-52.
  9. Crépin S, Laroche ML, Sarry B, Merle L. Osteonecrosis of the jaw induced by clodronate, an alkylbiphosphonate: case report and literature review. Eur J Clin Pharmacol. 2010 Jun;66(6):547-54.
  10. Favia G, Pilolli GP, Maiorano E. Osteonecrosis of the jaw correlated to bisphosphonate therapy in nononcologic patients: clinicopathological features of 24 patients. J Rheumatol. 2009 Dec;36(12):2780-7.
  11. Favia G, Pilolli GP, Maiorano E. Histologic and histomorphometric features of bisphosphonaterelated osteonecrosis of the jaws: an analysis of 31 cases with confocal laser scanning microscopy. Bone. 2009 Sep;45(3):406-13.
  12. Di Fede O, Panzarella V, Mauceri R et al. The Dental Management of Patients at Risk of Medication-Related Osteonecrosis of the Jaw: New Paradigm of Primary Prevention. Biomed Res Int. 2018 Sep 16; 2018:2684924.

Associazione tra assunzione di potassio e prevalenza di osteoporosi in popolazione anziana


Carla Lertola
Carla Lertola, dietologo

L’associazione tra vitamina D, calcio e osteoporosi è oramai nota e confermata da numerosi studi scientifici e metanalisi.
Meno nota e più recente è invece la correlazione tra la salute dell’osso e i livelli di potassio, assunto attraverso gli alimenti e presente in particolar modo nei vegetali e nella frutta. L’alimentazione svolge infatti un ruolo importante nella regolazione dell’equilibrio acido-base.
La western diet (ricca di carne, cereali raffinati, zuccheri e alimenti processati) conduce ad acidosi metabolica. Per ristabilire il corretto equilibrio acido-base l’osso rilascia in continuazione sali alcalini, e ciò potrebbe essere causa di perdita minerale ossea e di conseguente osteoporosi. I sali di potassio sembrerebbero però in grado di tamponare l’acidosi, preservando così la massa ossea.
Lo studio “The Association of Potassium Intake With Bone Mineral Density and the Prevalence of Osteoporosis Among Older Korean Adults” ha confrontato l’assunzione di potassio (stimata attraverso un recall delle 24 ore) con la densità minerale ossea (misurata attraverso la DEXA) e ha evidenziato che nelle donne alte assunzioni di potassio sono correlate a una maggior densità minerale ossea e a minor rischio di sviluppare osteoporosi (anche dopo correzioni delle variabili).
I risultati sono però da confermare con ulteriori studi.

Carla Lertola, dietologa
Chiara Ramponi, dietista


L’osteoporosi è caratterizzata da una bassa densità di massa ossea e da una compromissione della struttura ossea, con conseguente maggior vulnerabilità alle fratture. La malattia è associata all’età e, a causa dell’invecchiamento della popolazione, comporta un pesante onere per la salute pubblica globale. In particolare, in Corea, la prevalenza dell’osteoporosi è stata del 7,3% nei maschi e del 38,0% nelle femmine di età ≥ 50 anni nel 2011 e ha continuato ad aumentare. I ricercatori coreani ritengono che questa tendenza sia il risultato di uno stile di vita dietetico occidentalizzato, cui si aggiungono fattori demografici e sociologici.

La dieta contribuisce all’insorgenza dell’osteoporosi

La dieta è un fattore modificabile cruciale per lo sviluppo dell’osteoporosi e per il rischio di fratture. Anche se la dieta gioca un ruolo importante nella salute delle ossa, la maggior parte degli studi si è concentrata su singoli nutrienti, tra cui calcio e vitamina D o su integratori contenenti questi nutrienti. Recentemente, attraverso studi osservazionali basati sulla popolazione, sono stati identificati gli effetti benefici del potassio contenuto in frutta e verdura sulla salute delle ossa.

Valenza alcalinizzante del potassio

L’ipotesi più accreditata è che il beneficio dell’assunzione di potassio con la dieta sulla salute delle ossa sia dovuto al ruolo che il potassio ha nell’equilibrio acido-base. La dieta occidentale, che comprende carni rosse e cereali, produce un’acidosi metabolica di basso grado. Il rilascio continuo di sali alcalini dall’osso per ripristinare l’equilibrio acido-base potrebbe causare perdita ossea e osteoporosi. L’assunzione di frutta e verdura potrebbe bilanciare questa acidità in eccesso, fornendo sali alcalini di potassio. Pertanto, si pensa che il sale alcalino di potassio prevenga il riassorbimento osseo per l’omeostasi del pH. Inoltre, l’aumento dell’assunzione di potassio incrementa la ritenzione urinaria, riducendo la perdita di calcio e creando così un bilancio del calcio più positivo e inibendo il riassorbimento osseo. Il bicarbonato di potassio, ma non il bicarbonato di sodio, ha ridotto l’escrezione urinaria di calcio negli uomini sani e il citrato di potassio ha ridotto l’escrezione urinaria di calcio negli uomini con nefrolitiasi dell’acido urico. Tutto ciò suggerisce che l’effetto positivo del potassio potrebbe manifestarsi attraverso la soppressione del riassorbimento del calcio o riduzione della dissoluzione del minerale osseo e la conseguente liberazione di carbonato o entrambi.

Lo studio “The Association of Potassium Intake With Bone Mineral Density and the Prevalence of Osteoporosis Among Older Korean Adults” mira a identificare il legame tra potassio nella dieta e la prevalenza dell’osteoporosi e dell’osteopenia nei coreani a rischio, utilizzando i dati delle indagini nazionali. I ricercatori hanno inoltre anche analizzato la correlazione dell’assunzione di potassio con la densità minerale ossea (BMD).

L’assunzione di potassio con la dieta favorisce la salute delle ossa

Lo studio retrospettivo e trasversale ha coinvolto 8.732 uomini e donne in postmenopausa di età superiore ai 50 anni che hanno completato il National Health and Nutrition Survey (KNHANES IV-V) tra il 2008 e il 2011. Il programma KNHANES si compone di indagini trasversali e rappresentative a livello nazionale condotte dalla Divisione di sorveglianza delle malattie croniche e dai Centri coreani per il controllo e la prevenzione delle malattie. Il KNHANES IV-V, condotto su 21.303 partecipanti, ha previsto, tra gli altri, esami sulla densità minerale ossea, interviste sulla salute e sulle abitudini nutrizionali. Per lo studio sono state selezionate donne in postmenopausa e uomini di età pari o superiore a 50 anni.

Come metodo per verificare l’assunzione di potassio è stata utilizzata la dieta di richiamo di 24 ore. La densità minerale ossea (BMD) è stata misurata in tre siti (anca totale, collo del femore e colonna lombare) mediante densitometria DEXA . Per esaminare il legame tra l’assunzione di potassio e la prevalenza di osteoporosi e osteopenia è stata usata la regressione logistica multinomiale, dopo il controllo delle potenziali variabili confondenti.

I risultati dello studio mostrano che, tra gli uomini, la BMD del femore totale e del Triangolo di Ward è significativamente diversa a seconda dell’assunzione di potassio (P=0,031 e P=0,010, rispettivamente). Le donne nel terzile superiore per l’assunzione di potassio hanno mostrato BMD più elevato rispetto a quelle del terzile inferiore in tutti i siti di misurazione (tutte P <0,05). L’assunzione giornaliera di potassio è significativamente correlata a un ridotto rischio di osteoporosi alla colonna lombare nelle donne in postmenopausa (odds ratio: 0,68, intervallo di confidenza al 95%: 0,48-0,96, tendenza P = 0,031). Tuttavia, negli uomini, il livello dietetico di potassio non è correlato al rischio di osteoporosi.

I risultati indicano che livelli dietetici più alti di potassio hanno un effetto favorevole sulla salute delle ossa e prevengono l’osteoporosi nelle donne coreane anziane.

Lo studio dimostra il legame positivo tra assunzione di potassio con la dieta e salute delle ossa tra gli anziani coreani, in particolare nelle donne. Dopo l’aggiustamento per i confondenti, la prevalenza dell’osteoporosi a livello della colonna lombare è inferiore del 32% nelle donne con un consumo di potassio più elevato rispetto a quelle con un consumo inferiore. Tuttavia, questa associazione non era significativa tra gli uomini; questa disparità può essere dovuta al diverso grado di completamento del modello di dieta di richiamo di 24 ore tra uomini e donne; n generale, in Corea le donne preparano i pasti e sono più informate sui contenuti dietetici degli alimenti, il che può portare a una raccolta di dati più affidabile da parte delle donne. Inoltre, è possibile che gli effetti confondenti residui, come il fumo e il bere, abbiano avuto una maggiore influenza sulle associazioni nulle negli uomini rispetto alle donne.

Lo studio presenta alcune limitazioni, legate principalmente alla sua trasversalità e al metodo della dieta di richiamo di 24 ore utilizzato, e gli autori suggeriscono la necessità di effettuare ulteriori studi prospettici con un metodo di valutazione dietetica più preciso per verificare il legame tra il livello di consumo alimentare di potassio e la salute delle ossa.

Risposta a denosumab nell’osteoporosi: effetto del precedente trattamento con bisfosfonati e di insufficienza renale


Gregorio Guabello
Gregorio Guabello, endocrinologo

Il lavoro retrospettivo di real-life clinica “The effect of previous treatment with bisphosphonate and renal impairment on the response to denosumab in osteoporosis” conferma un dato già noto in letteratura e cioè che il passaggio da una terapia anti-riassorbitiva con amino-bisfosfonato a denosumab determina un ulteriore incremento della BMD nei tre siti scheletrici (lombare, collo del femore, femore totale).
Nel passaggio a denosumab gli autori documentano inoltre un minor incremento della BMD femorale nel sottogruppo di pazienti con insufficienza renale cronica stadio IIIb e IV (eGFR < 35 ml/min), dimostrando una correlazione inversa fra la percentuale di variazione densitometrica e i livelli di paratormone.

Gregorio Guabello, endocrinologo


Denosumab è un anticorpo monoclonale che si lega e inibisce RANKL (receptor activator of nuclear factor kappa B), provocando la soppressione del riassorbimento osseo. È un potente agente anti-riassorbimento e viene utilizzato nel trattamento dell’osteoporosi. Lo studio  di fase 3 FREEDOM (valutazione della frattura della frattura di Denosumab nell’osteoporosi ogni 6 mesi) ha mostrato l’efficacia di denosumab nel ridurre il rischio di fratture in tutti i siti scheletrici [1]. Dopo il trattamento di 36 mesi sono stati osservati una riduzione del 68% per le fratture vertebrali (VF), del 20% per le non-VF e del 40% per le fratture dell’anca rispetto al placebo. La densità minerale ossea è aumentata progressivamente, raggiungendo un aumento complessivo rispetto al placebo rispettivamente a 24 e 36 mesi del 6% e del 9,2% a livello di colonna lombare (LS) e del 4% e del 6,0% a livello di anca (TH).

Tuttavia, i pazienti che hanno partecipato allo studio FREEDOM erano naïve al trattamento o avevano interrotto la terapia con bisfosfonati (BP) da almeno 12 mesi. Sono stati condotti alcuni studi clinici randomizzati a breve termine per valutare gli effetti del precedente trattamento con BP, che hanno un tempo di ritenzione scheletrica lungo, sulla risposta a denosumab. Questi studi hanno esaminato e confrontato endpoint surrogati come cambiamenti nella BMD o marker di turnover osseo. Sono stati osservati maggiori aumenti della BMD e riduzione del turnover osseo nei pazienti in transizione verso denosumab rispetto a quelli che hanno continuato ad assumere BP per via orale (alendronato o risedronato), sebbene gli aumenti della BMD siano stati inferiori rispetto a quelli osservati nei pazienti naïve al trattamento [2,3,4,5]. Sono stati condotti pochi studi real-life su pazienti precedentemente trattati con BP e in transizione verso terapia con denosumab.

Nel Regno Unito, il National Institute for Health Care Excellence (NICE) raccomanda denosumab come opzione terapeutica per la prevenzione delle fratture da fragilità osteoporotica nelle donne in postmenopausa ad aumentato rischio di fratture che non sono in grado di rispettare il protocollo di dosaggio specifico per il bisfosfonato orale o sono intolleranti o hanno una controindicazione a tali trattamenti.

I bisfosfonati sono effettivamente controindicati in pazienti con malattia renale cronica (CKD), in particolare quelli con GFR <35 ml/min (nel caso dell’alendronato) o <30 ml/min (nel caso del risedronato).

Denosumab può essere usato in pazienti con osteoporosi e insufficienza renale cronica, sebbene vi sia un aumentato rischio di ipocalcemia in pazienti con grave insufficienza renale o malattia renale allo stadio terminale [5,6,7].

L’analisi post hoc dei dati dello studio FREEDOM ha mostrato che denosumab era ancora efficace in termini di riduzione delle fratture e miglioramento della BMD nei pazienti con CKD in stadio 3 e 4 [8]. Tuttavia, nessuno dei pazienti nello studio presentava iperparatiroidismo secondario. È stato precedentemente dimostrato che l’iperparatiroidismo al basale può compromettere la risposta all’alendronato, un bisfosfonato orale [9]. Tuttavia, non è chiaro se l’iperparatiroidismo avrebbe un impatto sulla risposta a denosumab in real-life.

Efficacia di denosumab in pazienti precedentemente in terapia con bisfosfonati e con insufficienza renale

Vi è quindi una scarsità di informazioni sull’efficacia di denosumab nel contesto della pratica clinica di routine nell’affrontare le questioni di cui sopra, ovvero la precedente esposizione a BP e pazienti con osteoporosi e insufficienza renale.

Lo scopo di questo studio era di studiare i cambiamenti nella BMD in seguito ad assunzione di denosumab in pazienti precedentemente trattati con farmaci per l’osteoporosi (principalmente BP) per determinare se ciò ha un impatto sulla risposta a denosumab e per confrontare i cambiamenti nella BMD nei pazienti in transizione verso denosumab o zoledronato al fine di stabilire se la terapia con denosumab aumenta la densità minerale ossea (BMD) più dello zoledronato. I ricercatori hanno anche esaminato se la risposta a denosumab è influenzata da insufficienza renale (GFR <35 ml/min) in real-life.

È stato quindi intrapreso uno studio retrospettivo su 134 pazienti (11 M, 123 F) di età media di 72 anni con denosumab; 95 pazienti erano stati precedentemente trattati con bisfosfonati per via orale e 28 con bifosfonato EV. Sono state misurate le BMD della colonna lombare (LS), dell’anca totale (TH) e del collo femorale (FN) prima del trattamento e a 2,7 anni. La GFR era <35 ml/min in 24 pazienti (18%). Sono stati studiati anche 94 (18 M, 76 F) pazienti di età media di 71 anni precedentemente trattati con bisfosfonati e in transizione verso terapia con zoledronato e con caratteristiche cliniche assimilabili alla coorte in transizione verso terapia con denosumab.

A tutti i pazienti è stato consigliato di continuare ad assumere vitamina D (800 UI al giorno) e integratori di calcio (se il calcio assunto con la dieta era <700 mg/die). Ai pazienti con 25(OH) vitamina D <35 nmol/L è stato somministrato colecalciferolo aggiuntivo per aumentare le concentrazioni di vitamina D 25(OH) oltre 50 nmol/L prima del trattamento. È stato inoltre consigliato di misurare il livello di calcio entro due settimane dall’iniezione di denosumab.

La BMD è migliorata dopo assunzione di denosumab [media (SEM) variazione% LS: 6,0 (0,62) p<0,001, TH: 2,28 (0,64) p<0,001, FN: 1,9 (0,77) p=0,045].

Le variazioni di densità ossea nell’anca (TH) e nel collo del femore (FN) sono risultate inferiori nei pazienti con GFR <35 ml/min (Gruppo B) rispetto a quelli con GFR >35 ml/min (Gruppo A) [% di variazione TH; Gruppo A: 2,9 (0,72), Gruppo B: -0,84 (1,28), p=0,015, FN; Gruppo A: 2,76 (0,86), Gruppo B: -1,47 (1,53), p=0,025].

È stata registrata un’associazione negativa tra la variazione percentuale di BMD nel collo del femore e l’ormone paratiroideo (r=-0,25, p=0,013).

A 12-18 mesi, le variazioni di BMD erano simili tra i pazienti trattati con denosumab rispetto a quelli trattati con zoledronato [variazione% LS: denosumab: 3,97% (0,85), zoledronato: 2,6% (0,5), p=0,19 TH: denosumab: 0,97% (0,58), zoledronato: 0,92% (0,6), p=0,95].

In conclusione, i dati mostrano che:

1. Il trattamento con denosumab in condizioni di real-life porta a un miglioramento della BMD in pazienti precedentemente trattati con bifosfonati ed è paragonabile ai dati pubblicati in pazienti naïve al trattamento [8].

2. Non ci sono state differenze significative nelle variazioni della BMD a 12 mesi nei pazienti che sono passati a denosumab rispetto a zoledronato.

3- La risposta scheletrica nei pazienti con CKD in stadio 4 è significativamente più bassa nell’anca.

4. È stata osservata un’associazione indipendente negativa tra la risposta a denosumab delle concentrazioni di densità ossea nel collo del femore e livelli di paratormone.

Lo studio

Fraser, T.R., Flogaitis, I., Moore, A.E. et al. The effect of previous treatment with bisphosphonate and renal impairment on the response to denosumab in osteoporosis: a ‘real-life’ studyJ Endocrinol Invest 43, 469–475 (2020). https://doi.org/10.1007/s40618-019-01131-5

Per approfondire

  1. Cummings SR, San Martin J, McClung MR, Siris ES, Eastell R, Reid IR et al (2009) Denosumab for prevention of fractures in postmenopausal women with osteoporosis. N Engl J Med 361(8):756–765 (Epub 2009/08/13)
  2. Kendler DL, Roux C, Benhamou CL, Brown JP, Lillestol M, Siddhanti S et al (2010) Effects of denosumab on bone mineral density and bone turnover in postmenopausal women transitioning from alendronate therapy. J Bone Miner Res 25(1):72–81 (Epub 2009/07/15)
  3. Roux C, Hofbauer LC, Ho PR, Wark JD, Zillikens MC, Fahrleitner-Pammer A et al (2014) Denosumab compared with risedronate in postmenopausal women suboptimally adherent to alendronate therapy: efficacy and safety results from a randomized open-label study. Bone 58:48–54 (Epub 2013/10/22)
  4. Miller PD, Pannacciulli N, Brown JP, Czerwinski E, Nedergaard BS, Bolognese MA et al (2016) Denosumab or zoledronic acid in postmenopausal women with osteoporosis previously treated with oral bisphosphonates. J Clin Endocrinol Metabol 101(8):3163–3170 (Epub 2016/06/09)
  5. Recknor C, Czerwinski E, Bone HG, Bonnick SL, Binkley N, Palacios S et al (2013) Denosumab compared with ibandronate in postmenopausal women previously treated with bisphosphonate therapy: a randomized open-label trial. Obstet Gynecol 121(6):1291–1299 (Epub 2013/07/03)
  6. Anastasilakis AD, Polyzos SA, Makras P (2018) Therapy of endocrine disease: denosumab vs bisphosphonates for the treatment of postmenopausal osteoporosis. Eur J Endocrinol 179(1):R31–R45 (Epub 2018/04/25)
  7. Block GA, Bone HG, Fang L, Lee E, Padhi D (2012) A single-dose study of denosumab in patients with various degrees of renal impairment. J Bone Miner Res 27(7):1471–1479 (Epub 2012/03/31)
  8. Jamal SA, Ljunggren O, Stehman-Breen C, Cummings SR, McClung MR, Goemaere S et al (2011) Effects of denosumab on fracture and bone mineral density by level of kidney function. J Bone Miner Res 26(8):1829–1835 (Epub 2011/04/15)
  9. Barone A, Giusti A, Pioli G, Girasole G, Razzano M, Pizzonia M et al (2007) Secondary hyperparathyroidism due to hypovitaminosis D affects bone mineral density response to alendronate in elderly women with osteoporosis: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 55(5):752–757 (Epub 2007/05/12)

Ottimizzazione della salute ossea in chirurgia ortopedica

Quanto è importante una corretta valutazione osteometabolica del paziente candidato a chirurgia protesica?
La parola agli esperti di BoneHealth:


Maurizio Rondinelli
Federico Valli, ortopedico

L’Osteoporosi è associata a un aumento di eventi avversi dopo interventi chirurgici ortopedici di elezione e non è solo una comorbidità associata alla traumatologia.
L’obiettivo dello studio “Bone Health Optimization in Orthopaedic Surgery” è quello di sensibilizzare la comunità ortopedica all’importanza della gestione della “salute dell’osso”; l’articolo riporta ad esempio uno studio ove viene evidenziato come il 77% dei chirurghi protesici afferma che la qualità ossea influenza la scelta del loro impianto ma solo il 5% analizza la stessa sistematicamente con una densitometria prima dell’intervento.

Federico Valli, chirurgo ortopedico


L’osteoporosi può influenzare negativamente l’esito di un intervento chirurgico ortopedico. L’ottimizzazione della salute ossea è un pratica preoperatoria intesa a ridurre la probabilità di complicanze postoperatorie. Un gruppo di ricercatori dell’University of Wisconsin School of Medicine and Public Health ha testato su una coorte di pazienti che la scarsa qualità ossea è comune per molti candidati a chirurgia ortopedica e che molti di questi pazienti soddisfano le linee guida per il trattamento dell’osteoporosi.

Perché è necessaria una valutazione preoperatoria della salute delle ossa

In America, circa 54 milioni di individui presentano massa ossea ridotta o soffrono di osteoporosi e, a causa dell’invecchiamento della popolazione, questo numero è in aumento, così come quello di esiti chirurgici avversi tra gli adulti più anziani.

Grazie al trattamento dell’osteoporosi in soggetti che hanno subito una frattura, l’American Orthopaedic Association (AOA), attraverso il programma Own the Bone (OTB), persegue l’obiettivo di ridurre l’incidenza di fratture secondarie e di aiutare i chirurghi ortopedici nella gestione della salute delle ossa. In quest’ottica rientrano la valutazione preoperatoria della salute delle ossa e, quando indicato, un trattamento per migliorarla prima della chirurgia ortopedica, allo scopo di ridurre la probabilità di complicanze postoperatorie e la necessità di ulteriori operazioni, portando a un miglioramento dei risultati e una riduzione dei costi. Inoltre, la valutazione preoperatoria dell’osso può influire sul processo decisionale chirurgico.

In un sondaggio condotto tra 465 chirurghi relativamente a interventi di artroplastica, il 77% ha indicato che la qualità dell’osso ha influenzato la scelta dell’impianto, ma solo il 5% ha valutato la densità ossea prima della procedura chirurgica. Un sondaggio analogo ha mostrato che solo il 20% ha valutato la qualità dell’osso prima dell’intervento di revisione, nonostante molti abbiano riferito che l’osteoporosi può influenzare la tecnica chirurgica.

Chiaramente, l’importanza di identificare la cattiva salute delle ossa prima di una procedura chirurgica è ben nota, ma è mal implementata.

L’ottimizzazione preoperatoria della salute delle ossa potrebbe aiutare i chirurghi nella scelta della tecnica chirurgica più efficace e potrebbe potenzialmente ridurre il rischio di fratture periprotesiche e procedure chirurgiche di revisione.

I ricercatori affermano che, sebbene l’ottimizzazione della salute delle ossa sia un approccio logico, vi sono pochi dati a supporto della scelta di quali pazienti valutare, di quale valutazione effettuare e di come intervenire prima dell’intervento e nel postoperatorio.

Nell’ipotesi che la scarsa qualità dell’osso sia comune in pazienti sottoposti a una procedura chirurgica ortopedica e che molti di questi pazienti soddisfino le linee guida per l’assunzione dei farmaci per l’osteoporosi, i ricercatori si sono posti l’obiettivo di caratterizzare una popolazione di pazienti da sottoporre al miglioramento della salute delle ossa prima della chirurgia elettiva della colonna vertebrale o dell’artroplastica.

Come individuare i pazienti da sottoporre a trattamento per il miglioramento della salute delle ossa

Lo studio retrospettivo “Bone Health Optimization in Orthopaedic Surgeryha valutato 124 pazienti di età superiore ai 49 anni candidati per artroplastica o chirurgia toracolombare e sottoposti a trattamento per ottimizzare della salute delle ossa. Sono stati raccolti dati relativi al rischio di frattura (FRAX) e alla valutazione della densità minerale ossea (DXA). Se disponibili, sono stati valutati i risultati delle tomografia computerizzata (TC) e il punteggio osseo trabecolare.

Tutti i pazienti sono stati indirizzati dal loro chirurgo ortopedico; la loro età media era di 69,2 anni, l’83% era di sesso femminile, il 97% era di razza caucasica e il 56% aveva subito una frattura precedente.

La perdita media di altezza storica è stata di 5,3 ± 3,3 cm per le donne e di 6,0 ± 3,6 cm per gli uomini. Il T-score medio più basso dell’anca, della colonna vertebrale o del polso era di 22,43 ± 0,90 punti nelle donne e di 22,04 ± 0,81 punti negli uomini (p <0,08). L’osteoporosi (T-score -2,5 punti) era presente nel 45% delle donne e nel 20% degli uomini; solo il 3% delle donne e il 10% degli uomini presentavano una normale densità minerale ossea.

Le TC hanno indicato che il 60% dei pazienti era affetto da probabile osteoporosi. Il punteggio dell’osso trabecolare ha identificato il 34% dei pazienti con microarchitettura ossea degradata e il 30% dei pazienti con microarchitettura ossea parzialmente degradata. La soglia per il trattamento dell’osteoporosi indicata dalle linee guida della NOF (National Osteoporosis Foundation) è stata raggiunta nel 91% dei pazienti. Il trattamento è stato prescritto nel 75% dei pazienti (terapia anabolica al 45% e terapia antiriassorbitiva al 30%).

Osteoporosi e interventi chirurgici ortopedici
Flowchart che mostra il processo di referral del paziente e la valutazione condotta durante l’ottimizzazione della salute delle ossas. BMD=densità minerale ossea, VFA=valutazione della frattura vertebrale, TBS=punteggio osseo trabecolare, Ca=calcio, Cr=creatinina, PTH=ormone paratiroideo.

Che cosa fare per migliorare la salute delle ossa prima di un intervento chirurgico ortopedico

Oltre il 90% dei paziente ha soddisfatto i criteri NOF per l’assunzione di farmaci per l’osteoporosi e il 75% ha accettato la terapia. FRAX si è rivelato uno strumento utile per individuare il rischio e determinare chi ha bisogno di cure farmaceutiche. Quasi la metà dei pazienti presentava cause secondarie di perdita ossea, molte riconducibili all’assunzione di farmaci.

Nonostante l’osteoporosi sia collegata a esiti chirurgici ortopedici avversi, i chirurghi raramente valutano la qualità ossea. L’elevata prevalenza di compromissione della salute ossea riportata in questo studio evidenzia la necessità per i chirurghi ortopedici di prendere in considerazione la salute delle ossa prima di una procedura chirurgica elettiva.

Un approccio di ottimizzazione della salute delle ossa ha il potenziale per ridurre le complicanze postoperatorie ed è un’aggiunta fattibile a programmi volti a ottimizzare altre condizioni di comorbidità prima di una procedura chirurgica.

La vitamina D è essenziale per la mineralizzazione dell’osso, l’assorbimento del calcio attraverso l’intestino, il cross-linking del collagene e la promozione della differenziazione osteoblastica. Una carenza di vitamina D è comune nella popolazione e perciò, prima della valutazione clinica dei pazienti, è stata loro raccomandata l’assunzione quotidiana da 2.000 a 5.000 UI di vitamina D3. Questo approccio è stato efficace, poiché oltre l’80% dei pazienti aveva livelli di 25 (OH) D normali al momento dell’arruolamento per lo studio.

Nello studio, i ricercatori hanno identificato le caratteristiche dei pazienti che i chirurghi ortopedici possono utilizzare per riconoscere la scarsa qualità ossea e, successivamente, prescrivere una terapia preoperatoria per migliorare i risultati degli interventi.

Per il trattamento, quando indicato, nel 45% dei pazienti è stata raccomandata la terapia anabolica, che i ricercatori hanno ritenuto maggiormente efficace per aumentare più velocemente la densità minerale ossea, migliorare la resistenza meccanica, la coppia di inserzione della vite e l’artrodesi. Questi effetti sono rapidi e possono essere documentati entro due mesi dal trattamento.

La terapia con bifosfonati è stata la seconda scelta quando la terapia anabolica era controindicata.

Indipendentemente dal trattamento prescritto, l’approccio generale è stato quello di identificare i pazienti con fattori di rischio per l’osteoporosi e per un alto rischio di frattura e di sottoporli a terapia per migliorare la salute delle ossa per un minimo di tre mesi.

Nello studio non è stata quantificata l’incidenza del ritardo chirurgico sull’esito dell’intervento, perché molti pazienti sono stati indirizzati prima di programmare una procedura chirurgica. Inoltre non sono stati quantificati i risultati postoperatori. Tuttavia, i ricercatori affermano che, secondo la loro esperienza, i pazienti sono generalmente propensi a sottoporsi a terapia per il miglioramento della salute delle ossa nonostante un ritardo nella procedura chirurgica.

Lo studio presenta diversi limiti – il più importante legato alla preselezione dei pazienti da parte dei loro chirurghi che li avevano già individuati come a rischio di complicanze chirurgiche correlate alla malattia ossea – che lo hanno reso poco generalizzabile ad altre popolazioni. Sono quindi necessari ulteriori studi per definire l’approccio ottimale all’individuazione dei pazienti, nonché per valutare se o in che modo gli interventi preoperatori possano influire sui risultati degli interventi chirurgici.

In conclusione, i ricercatori ritengono che per gli adulti di età pari o superiore ai 50 anni che devono essere sottoposti a chirurgia ortopedica, in fase preoperatoria è raccomandato lo screening della salute ossea, inclusa una valutazione del rischio di fratture (FRAX).

Lo studio

Kadri Aamir; Binkley Neil; Hare Kristyn J.; Anderson, Paul A. Bone Health Optimization in Orthopaedic Surgery The Journal of Bone and Joint Surgery: April 1, 2020 – Volume 102 – Issue 7 – p 574-581, doi: 10.2106/JBJS.19.00999