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Quale terapia dopo sospensione di denosumab?

Il denosumab è un anticorpo monoclonale diretto contro RANKL, il principale mediatore della osteoclastogenesi; agisce come un potente inibitore del riassorbimento osseo ed è utilizzato nel trattamento dell’osteoporosi post-menopausale e maschile ad aumentato rischio di frattura. I livelli plasmatici di denosumab calano velocemente alla sospensione del trattamento, determinando un brusco e cospicuo rimbalzo del CTX sierico, marker di riassorbimento osseo, che raggiunge nei 6 mesi successivi un valore di oltre il doppio rispetto al valore basale pre-trattamento (1). Tale rimbalzo del CTX sierico risulta di molto inferiore nei pazienti con pregresso trattamento con amino-bisfosfonati, in relazione alla soppressione del turn-over osseo indotta dalla prolungata permanenza del bisfosfonato nella matrice ossea (2). Nei 12 mesi successivi alla sospensione della terapia, viene persa l’intera massa ossea acquisita in corso di trattamento (1) e i valori di BMD (bone mineral density) risultano significativamente inferiori rispetto a quelli basali pre-trattamento (3), con aumentata comparsa di multiple fratture vertebrali.

Una recente analisi post-hoc dello studio Freedom e della sua estensione a 10 anni (studi registrativi per denosumab) ha confermato l’aumentato rischio fratturativo nell’off-treatment, riportando fra le pazienti incorse in una frattura vertebrale dopo la sospensione del denosumab, multiple fratture vertebrali nel 61% dei casi e un numero di fratture vertebrali uguale o superiore a 4 nel 23% dei casi, contro il 39% e il 6% rispettivamente nelle pazienti che hanno sospeso il placebo. La stessa analisi ha inoltre stabilito come fattori predittivi di frattura:

  1. la presenza di una precedente frattura vertebrale,
  2. la durata in anni della sospensione della terapia e
  3. la perdita percentuale annua di massa ossea a livello femorale in corso di off-treatment (4).

Per contrastare questa rapida perdita dell’efficacia anti-fratturativa dopo sospensione del denosumab, è stato suggerito di proseguire da subito con un amino-bisfosfonato (consolidazione farmacologica) allo scopo di creare una soppressione duratura del turn-over osseo con effetto coda a lungo termine (5).

Freemantle et al. descrivono 115 pazienti con osteoporosi post-menopausale trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 1 anno e quindi passate dopo 6 mesi dalla seconda somministrazione di denosumab ad alendronato 70 mg alla settimana per un altro anno, dimostrando alla fine dei 12 mesi di terapia con alendronato una sostanziale stabilità del guadagno densitometrico ottenuto nel primo anno di terapia con denosumab (6).

Reid et al. descrivono 6 pazienti con osteoporosi post-menopausale trattate con denosumab 60 mg sc ogni 6 mesi per 7 anni e quindi passate ad una singola infusione di acido zoledronico 5 mg ev, iniziato sempre 6 mesi dopo l’ultima somministrazione di denosumab, dimostrando a 18-23 mesi dalla infusione di zoledronato un calo sia della BMD lombare (tuttavia superiore al valore basale pre-trattamento con denosumab) sia della BMD femorale (che scende al di sotto del valore basale pre-trattamento con denosumab) (7).

Il Data Follow-up Study ha dimostrato che il guadagno di BMD ottenuto dopo 4 anni di terapia sequenziale (2 anni di denosumab seguiti da 2 anni di teriparatide, 2 anni di teriparatide seguiti da 2 anni di denosumab, 2 anni di terapia combinata denosumab + teriparatide seguiti da 2 anni di denosumab) è mantenuto nei pazienti che hanno proseguito con una terapia anti-riassorbitiva (latenza di inizio della terapia dalla fine dei 4 anni dello studio pari a 3,8 +/- 3,1 mesi) mentre è perso in quelli che hanno sospeso la terapia senza una fase successiva di consolidamento farmacologico (8).

Sono in corso protocolli di studio atti a valutare l’impatto su BMD e rischio di frattura di una singola infusione di acido zoledronico, eseguita a differenti timing dall’ultima somministrazione di denosumab.

In un recente editoriale Roland Chapurlat (9), sulla scorta dei pochi dati a disposizione e in attesa dei dati di futura pubblicazione, pur in assenza di una reale evidence-based medicine, fornisce alcune importanti raccomandazioni per la pratica clinica:

la terapia con denosumab non dovrebbe essere sospesa senza una consolidazione farmacologica con amino-bisfosfonati, se sono state somministrate almeno 2 dosi del farmaco;

se il paziente ha assunto prima dell’inizio del denosumab almeno 1-2 anni di un amino-bisfosfonato con elevata affinità per la matrice ossea inorganica (alendronato, zoledronato), il rimbalzo del turn-over osseo alla sospensione del denosumab potrebbe essere mitigato, per cui si consiglia il monitoraggio del CTX sierico, che se rimane entro il range della pre-menopausa (0,100-0,300 ng/ml), potrebbe rendere NON necessaria la consolidazione farmacologica;

il timing di inizio della consolidazione farmacologica potrebbe essere a 6 mesi dall’ultima somministrazione di denosumab in caso di alendronato orale e a 9 mesi in caso di zoledronato ev (lo scopo è quello di ottenere un’impregnazione della matrice ossea da parte del bisfosfonato sfruttando una finestra temporale di riattivazione del rimodellamento osseo e della maturazione degli osteoclasti);

la durata della consolidazione può essere valutata caso per caso in base al monitoraggio del CTX sierico.

Non si fa cenno nell’editoriale alle donne in post-menopausa con carcinoma mammario in blocco ormonale adiuvante con inibitore dell’aromatasi (IA) in terapia con denosumab in prevenzione primaria. Alla sospensione dell’IA dopo 5-10 anni di terapia, le pazienti escono di fatto dalla rimborsabilità della nota 79 e per il medico si pone la delicata questione se impostare o meno una consolidazione farmacologica con amino-bisfosfonato; la decisione di non prescrivere in questo caso specifico una successiva terapia anti-riassorbitiva potrebbe trarre forza dal fatto che si tratta di pazienti diventate nell’off-treatment a basso rischio fratturativo, venendo meno l’effetto negativo dell’IA sulla BMD; tuttavia, non esistono ad oggi evidenze che dimostrino in questa specifica categoria di pazienti l’assenza di fratture da rimbalzo alla sospensione di denosumab senza successiva consolidazione farmacologica.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. Bone HG, Bolognese MA, Yuen CK et al (2011). Effects of denosumab treatment and discontinuation on bone mineral density and bone turnover markers in postmenopausal women with low bone mass. J Clin Endocrinol Metab 96:972–980.
  2. Uebelhart B, Rizzoli R, Ferrari SL. Retrospective evaluation of serum CTX levels after denosumab discontinuation in patients with or without prior exposure to bisphosphonates. Osteoporos Int 2017;28:2701–5.
  3. Popp AW, Buffat H, Senn C et al (2016). Rebound-associated bone loss after non-renewal of long-term denosumab treatment offsets 10-year gains at the total hip within 12 months. J Bone Miner Res 31(suppl):S408.
  4. 4. Cummings SR, Ferrari S, Eastell R et al. Vertebral Fractures After Discontinuation of Denosumab: A Post Hoc Analysis of the Randomized Placebo-Controlled FREEDOM Trial and Its Extension. J Bone Miner Res. 2017 Nov;20(20):1-9.
  5. Meier C, Uebelhart B, Aubry-Rozier B et al. Osteoporosis drug treatment: duration and management after discontinuation. A position statement from the SVGO/ASCO. Swiss Med Wkly. 2017 Sep 5;147:w14484.
  6. Freemantle N, Satram-Hoang S, Tang ET, Kaur P, Macarios D, Siddhanti S, Borenstein J, Kendler DL; DAPS Investigators. Final results of the DAPS (Denosumab Adherence Preference Satisfaction) study: a 24-month, randomized, crossover comparison with alendronate in postmenopausal women. Osteoporos Int. 2012 Jan;23(1):317-26.
  7. Reid IR, Horne AM, Mihov B, Gamble GD. Bone Loss After Denosumab: Only Partial Protection with Zoledronate. Calcif Tissue Int. 2017;101:371–4.
  8. Leder BZ, Tsai JN, Jiang LA, et al. Importance of prompt antiresorptive ther-apy in postmenopausal women discontinuing teriparatide or denosumab: the denosumab and teriparatide follow-up study (DATA-follow-up). Bone 2017;98:54–8.
  9. Chapurlat R. Effects and management of denosumab discontinuation. Joint Bone Spine. 2018 Jan 6. pii: S1297-319X(18)30001-0.

Articolo pubblicato con il permesso AME

Ipofosfatasia: approccio multidisciplinare medico e odontoiatrico

L’ipofosfatasia (1) è un difetto di mineralizzazione delle ossa e/o dei denti per un errore congenito del metabolismo in particolare un deficit della fosfatasi alcalina (ALP) non tessuto-specifica sierica e ossea; ne conseguono un possibile aumento dei livelli di calcio e fosfato nel sangue (per mobilizzazione del calcio e fosfato non più utilizzati per la mineralizzazione della matrice ossea e quindi non più stoccati nell’osso), difetti scheletrici da lievi fino a severi e difetti della dentizione. La malattia colpisce maschi e femmine in qualunque età della vita, è presente in tutto il mondo (con una maggiore prevalenza in alcune zone del Canada) ma una reale stima di prevalenza e incidenza non è nota. La trasmissione genetica può essere autosomica recessiva o dominante (sono note al momento 280 mutazioni). La riduzione della attività enzimatica ALP non tessuto-specifica comporta l’accumulo endogeno dei 3 composti del fosfato, substrati della ALP, che sono la fosfoetanolamina (PEA), il pirofosfato inorganico (PPI) e il piridossal-5’-fosfato (PLP o vitamina B6).

Lo spettro clinico della malattia è altamente variabile, dalla morte in utero a meri problemi di dentizione nell’età adulta; sono riconosciute 4 forme in base alla età del paziente al momento della diagnosi e alla severità del quadro clinico: perinatale, infantile, dell’adolescenza, dell’adulto.

L’ipofosfatasia colpisce prevalentemente 2 distretti: lo scheletro (rachitismo/osteomalacia nel bambino, osteopenia/osteoporosi nell’adulto, ritardo di consolidamento delle fratture) e i denti (perdita prematura della dentizione decidua, estrazione prematura della dentizione adulta, malattia del periodonto). Altre possibili e non infrequenti manifestazioni cliniche possono riguardare i seguenti organi e apparati: l’apparato muscolare (astenia, miopatia, dolore cronico), i reni (nefrocalcinosi, ipercalciuria), l’apparato respiratorio (insufficienza respiratoria), le articolazioni (pseudo-gotta, periartrite calcifica/ossificazione dei  legamenti, condrocalcinosi), il sistema nervoso centrale (epilessia infantile per ridotta trasformazione del PLP in piridossale che è la forma di vitamina B6 capace di attraversare la barriera emato-encefalica e raggiungere il sistema nervoso centrale ove rappresenta un co-fattore enzimatico per la sintesi del GABA).

Il sospetto diagnostico deriva dalla rilevazione di bassi livelli di ALP non tessuto-specifica aggiustata per età (in genere si considerano bassi livelli nell’adulto < 40 U/L o comunque livelli inferiori al range di riferimento del laboratorio, mentre nel bambino e nell’adolescente in fase attiva di crescita sono fisiologici valori elevati di ALP); la conferma diagnostica deriva dalla determinazione della PEA urinaria (elevata) e del PLP sierico (elevato); la diagnosi certa è quella su base genetica presso laboratori specializzati.

L’ipofosfatasia è una malattia incurabile. Terapie di supporto sono rappresentate da: “dental care” routinario, somministrazione di vitamina B6 (piridossina) per la prevenzione delle crisi epilettiche e di FANS per il trattamento sintomatico delll’osteoartrite e del dolore osseo, osteosintesi in caso di pseudofratture e fratture da stress. E’ consigliata nei casi severi della malattia una restrizione dietetica di calcio, fosforo e vitamina D per prevenire una possibile ipercalcemia. Sono controindicate le terapie anti-riassorbitive (bisfosfonati) trattandosi di una condizione di difetto di mineralizzazione della matrice osteoide non reversibile e quindi a basso turn-over osseo. E’ stata tentata in passato l’infusione di plasma ricco di ALP di pazienti pagetici ma con scarso effetto in termini di mineralizzazione della matrice osteoide per impossibilità della ALP a raggiugere e penetrare il tessuto osseo. Risultati promettenti in ambito pediatrico sembrano invece derivare dalla somministrazione di ENB-0040 (ALP-IgG1Fc-D10) (2), una proteina ricombinante costituita dalla fusione di tre componenti: il dominio esterno della ALP, il frammento Fc di una immunoglobulina IgG1 e un frammento terminale di 10 residui di aspartato, quest’ultimo in grado di conferire alla molecola la capacità di entrare nel tessuto osseo e qui svolgere una vera e propria attività enzimatica sostitutiva; gli studi clinici hanno dimostrato una riduzione dei livelli di PPI e PLP e un miglioramento della mineralizzazione ossea con conseguente recupero funzionale.

 

Bibliografia

1.Rockman-Greenberg C. Hypophosphatasia. Pediatr Endocrinol Rev. 2013 Jun;10 Suppl 2:380-8.

2.Whyte MP, Greenberg CR, Salman NJ et al. Enzyme-replacement therapy in life-threatening hypophosphatasia. N Engl J Med. 2012 Mar 8;366(10):904-13.

Diabete mellito: controindicazione a chirurgia implantare?

Il diabete mellito è una malattia cronica caratterizzata dall’aumento della concentrazione di glucosio nel sangue.

Responsabile di questa condizione è un difetto nella produzione o nella funzionalità dell’insulina, un ormone secreto a livello del pancreas e indispensabile per il metabolismo degli zuccheri. Tutti gli zuccheri semplici e complessi (amidi), che vengono assunti con l’alimentazione, sono trasformati nel corso della digestione in glucosio, il quale rappresenta la principale fonte di energia per i muscoli e gli organi. Affinché il glucosio possa fare il suo ingresso nelle cellule ed essere utilizzato come “carburante”, è necessaria la presenza dell’insulina, prodotta da particolari cellule del pancreas (cellule beta) riunite in gruppi chiamati “isole di Langherans”. Quando l’insulina è prodotta in quantità non sufficiente dal pancreas oppure le cellule dell’organismo non rispondono alla sua presenza, i livelli di glucosio nel sangue tendono ad innalzarsi favorendo la comparsa del diabete.

Esistono principalmente 3 tipi di diabete mellito: tipo 1, tipo 2, secondario.

Il diabete di tipo 1 riguarda il 10% dei casi di diabete e si sviluppa prevalentemente a partire dall’infanzia e dall’adolescenza. Nel diabete di tipo 1, la produzione di insulina da parte del pancreas viene soppressa o fortemente ridotta a causa della distruzione delle cellule beta da parte del sistema immunitario. Le cause di questa malattia sono ancora sconosciute ma, attualmente, il diabete di tipo 1 è classificato come una “malattia autoimmune”, cioè legata a una reazione del sistema immunitario contro l’organismo stesso, scatenata da una concomitanza di fattori genetici e ambientali.

Il diabete di tipo 2 rappresenta la forma di diabete più comune e interessa il 90% dei casi. Prevalentemente, si sviluppa a partire dai 40 anni di età e colpisce principalmente i soggetti obesi o sovrappeso. Nel diabete di tipo 2, il pancreas è in grado di produrre insulina (seppur in maniera ridotta) ma le cellule dell’organismo non riescono a utilizzarla in modo efficiente: ciò comporta un aumento dei livelli di glucosio nel sangue. In genere, la presenza di diabete di tipo 2 può non essere rilevata per molti anni, in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e non comporta sintomi particolarmente evidenti come quelli presenti nel diabete di tipo 1 (poliuria, polidipsia, calo ponderale, acidosi metabolica fino al coma).

Il diabete secondario è la conseguenza di patologie del pancreas (pancreatite cronica, neoplasie) o di chirurgia pancreatica (pancreatectomia totale/subtotale), condizioni che riducono la quota di beta cellule e quindi la capacità di secernere insulina.

La diagnosi del diabete è definita dalla presenza di uno dei seguenti valori nel sangue confermati in due diverse misurazioni:

-glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl (almeno 8 ore di digiuno);

-valore di emoglobina glicata ≥ 6,5%;

-valore di glicemia casuale, cioè indipendentemente dal momento della giornata, ≥ 200 mg/dl;

-glicemia ≥ 200 mg/dl durante una curva da carico (OGTT) con la somministrazione di 75 g di glucosio (1).

Sul fronte osteo-metabolico, una condizione di iperglicemia cronica può avere ripercussioni in termini di depauperamento osseo con meccanismi fisiopatologici complessi. L’accumulo degli AGEs (advanced glycation end products, derivanti dalla glicazione non enzimatica delle proteine) nello scheletro altera la qualità dell’osso e ne riduce la forza meccanica attraverso una alterazione della funzione del collagene, l’inibizione dell’attività osteoblastica e l’attivazione di quella osteoclastica; il glucosio esercita un effetto tossico diretto sugli osteoblasti con conseguente ridotta sintesi di osteocalcina, ormone con azione extra-ossea di tipo  ipoglicemizzante; l’iperglicemia determina glicosuria e questa favorisce ipercalciuria con conseguente ridotta mineralizzazione ossea; la nefropatia diabetica e la conseguente riduzione della funzione renale hanno note ripercussioni negative a livello osseo; la micro e macro-angiopatia diabetica determina ipossia a livello del tessuto osseo; infine il paziente diabetico ha un aumentato rischio di caduta per la concomitante retinopatia (ipovisus) e neuropatia (ipotonia muscolare) e le possibili ipoglicemie in corso di terapia insulinica (2).

Per quanto concerne le possibili ripercussioni negative del diabete mellito nell’ambito della chirurgia orale e implantare, i principali fattori di rischio in questo setting di pazienti sono rappresentati dalla condizione di immunodepressione con conseguente aumentato rischio infettivo, dalla micro-angiopatia diabetica, dal ritardo di guarigione delle ferite e infine dalla osteoporosi secondaria legata alle suddette ripercussioni in ambito osseo (3).

Numerosi studi hanno indagato l’impatto del diabete mellito e del controllo glicemico sulla osteo-integrazione implantare: una sistematica revisione della letteratura ha dimostrato che uno scarso controllo glico-metabolico della malattia può avere negative ripercussioni sulla osteointegrazione mentre in pazienti con ottimale controllo glicemico la osteointegrazione si realizza con successo al pari della popolazione non diabetica, e questo indipendentemente dall’età del paziente e dalla durata della malattia diabetica. Il diabete mellito non può quindi essere considerato una controindicazione assoluta alla chirurgia implantare, tuttavia il paziente deve essere attentamente valutato in termini di compenso glicemico al fine di eseguire la procedura odontoiatrica in presenza di valori di emoglobina glicata < 7% (utile in tal senso la collaborazione fra l’odontoiatra e il medico diabetologo di riferimento del paziente). Nella chirurgia orale del paziente diabetico è sempre indicato l’uso di antisettici del cavo orale (clorexidina) e una adeguata profilassi antibiotica (4).

Bibliografia

1.Malattie del Sistema Endocrino e del Metabolismo, Disordini del ricambio glicidico, Giovanni Faglia, terza edizione 2002, McGraw-Hill

2.Hofbauer LC, Brueck CC, Singh SK, Dobnig H. Osteoporosis in patients with diabetes mellitus. J Bone Miner Res. 2007 Sep;22(9):1317-28.

3.Diz P, Scully C, Sanz M. Dental implants in the medically compromised patient. J Dent. 2013 Mar;41(3):195-206.

4.Javed F, Romanos GE. Impact of diabetes mellitus and glycemic control on the osseointegration of dental implants: a systematic literature review. J Periodontol. 2009 Nov;80(11):1719-30.

Patologia psichiatrica e chirurgia implantare

Il paziente candidato ad interventi di chirurgia implantare  deve essere sottoposto ad un’accurata valutazione clinica, che ha lo scopo di indagare lo stato generale di salute del paziente. Con il crescente invecchiamento della popolazione, l’odontoiatra intercetta sempre più spesso pazienti in età medio-avanzata o senile, con un’alta prevalenza di patologie croniche fra cui occupano un posto rilevante anche i disturbi della sfera neuro-psichiatrica.

Le patologie neurologiche e i disturbi psichiatrici possono rappresentare una possibile controindicazione alla chirurgia implantare in quanto possono essere correlati a molteplici fattori di rischio quali una scarsa igiene del cavo orale, la presenza di parafunzioni dell’apparato masticatorio come il bruxismo, la xerostomia iatrogena (da psico-farmaci), il fenomeno della ripetuta introduzione del “dito in bocca” e infine disturbi comportamentali di vario genere e tipo, tutte condizioni che possono condurre a complicanze dopo la chirurgia orale (1). Per quanto riguarda nello specifico la demenza pre-senile e senile, esistono dati che il decadimento cognitivo possa essere associato a maggior rischio di edentulismo (correlazione fra demenza e scarsa igiene orale) e al contrario che un basso numero di denti possa essere predittivo di demenza in tarda età (correlazione significativa negli anziani tra masticazione e funzioni cerebrali superiori) (2).

I dati della letteratura inerenti il successo o meno della chirurgia implantare in questo setting di pazienti sono pochi e contraddittori. Sono noti solo case reports e piccole casistiche che hanno dimostrato in generale un successo della chirurgia implantare in pazienti con disabilità sia intellettiva sia fisica, inclusi casi di paralisi cerebrale, sindrome di Down, disordini psichiatrici, demenza, bulimia, morbo di Parkinson ed epilessia severa.

Rogers riporta il caso di un paziente affetto da paralisi cerebrale sottoposto con successo a completa riabilitazione implantare dell’arcata dentale inferiore (3). Ambard et al descrivono la riuscita riabilitazione dentale attraverso il posizionamento di impianti endostali in una giovane donna di 31 anni con una lunga storia di bulimia nervosa (4). Lopez-Jimenez et al descrivono il posizionamento di 67 impianti in un totale di 18 pazienti affetti da disfunzione mentale o fisica di vario genere riportando un tasso di fallimento implantare del 5,6%, pari a quello osservato negli individui sani (5). Kubo K et al descrivono la riuscita riabilitazione implantare in un paziente di 72 anni affetto da morbo di Parkinson, in corso di anestesia loco-regionale associata a infusione endovenosa di midazolam (6). Ekfeldt descrive il posizionamento di 35 impianti in una casistica di 14 pazienti affetti da disabilità neurologica di vario tipo condizionante disfunzione oro-facciale, con comparsa di complicanze maggiori solo in due pazienti (7). Oczakir et al riportano un alto tasso di successo implantare in una casistica di 25 pazienti affetti da varie e gravi disfunzioni oro-facciali (labbro leporino, sindrome di Down, sindrome di Sjogren, displasia ectodermica, ritardo di sviluppo, leucemia cronica, lichen planus, paralisi cerebrale, sordo-mutismo, sclerosi laterale amiotrofica) sottolineando l’importanza della sinergia fra il rigido protocollo di cura odontoiatrica e la compliance dei pazienti (8). Addy et al descrivono 3 casi di pazienti affetti da disturbi psichiatrici sottoposti con successo al posizionamento di impianti, sottolineando come i disturbi mentali non devono rappresentare necessariamente una controindicazione alla chirurgia implantare e che la riabilitazione funzionale ed estetica può altresì rappresentare un valido supporto sul piano psicologico in questi pazienti (9). Cune MS et al riportano un tasso di successo implantare del 97,6% in una casistica di 61 pazienti affetti da epilessia severa nonostante una non ottimale igiene orale nel 72% dei casi trattati (10). Infine Feijoo et al descrivono il successo implantare in una casistica di 8 pazienti con disabilità intellettuale di tipo non sindromico, sottolineando come l’edentulia sia un problema di grande impatto cosmetico e come la sua risoluzione possa restituire a questi pazienti sicurezza in termini di accettazione sociale (11).

Le patologie neuro-psichiatriche non devono quindi essere necessariamente considerate  una controindicazione assoluta alla chirurgia implantare; va tuttavia suggerita cautela in alcuni sottogruppi di pazienti, in particolare in quelli affetti da disturbi di tipo psicotico (schizofrenia), disturbi della personalità (pazienti “borderline”), dismorfofobia, lesioni cerebrali con correlato neuro-psichiatrico, demenza pre-senile o senile sia essa su base multinfartuale sia su base degenerativa. Nel sospetto che un disturbo di tipo psichiatrico possa influire negativamente sulla prognosi della chirurgia implantare, una consulenza preliminare di un medico psichiatra è utile e necessaria per una valutazione globale del paziente nella pianificazione della procedura odontoiatrica e in caso di posta indicazione alla chirurgia implantare, è necessario valutare la programmazione di una anestesia generale. Il successo finale della riabilitazione orale dipende pertanto da una attenta selezione dei pazienti e da un approccio medico globale (1).

La Tabella 1 riassume le raccomandazioni relative alla chirurgia orale e implantare nei pazienti neuro-psichiatrici.

 

Tabella 1. Raccomandazioni relative alla chirurgia orale e implantare nei pazienti neuro-psichiatrici.

Esiste una controindicazione alla chirurgia implantare nei pazienti neuro-psichiatrici? Esiste una controindicazione relativa ma non assoluta
Esiste una cautela in alcuni sottogruppi di pazienti? E’ necessario essere molto cauti nei pazienti affetti da

-disturbi di tipo psicotico (schizofrenia)

-disturbi della personalità (pazienti “borderline”)

-dismorfofobia

-lesioni cerebrali con correlato neuro-psichiatrico

-demenza pre-senile o senile

E’  necessaria una consulenza del medico psichiatra? E’ necessaria nel sospetto che il disturbo di tipo psichiatrico possa influire negativamente sulla prognosi della chirurgia implantare
E’ necessaria l’anestesia generale? E’ utile in casi selezionati

 

Bibliografia

1.Diz P, Scully C, Sanz M.Dental implants in the medically compromised patient. Dental implants in the medically compromised patient.J Dent. 2013 Mar;41(3):195-206.

  1. Maria Cristina Rossi, Daniele Venturoli, Alessandro Micarelli et al. Edentulismo e Demenza: esiste una correlazione scientificamente provata?. Quintessenza Internazionale e JOMI. Anno 31. Numero 1. 2015.

3.Rogers JO. Implant-stabilized complete mandibular denture for a patient with cerebral palsy. Dental Update 1995;22:23–6.

4.Ambard A, Mueninghoff L. Rehabilitation of a bulimic patient using endosteal implants. Journal of Prosthodontics 2002;11:176–80.

5.Lopez-Jimenez J, Romero-Domınguez A, Gimenez-Prats MJ. Implants in handicapped patients. Medicina Oral 2003;8:288–93.

6.Kubo K, Kimura K. Implant surgery for a patient with Parkinson’s disease controlled by intravenous midazolam: a case report. International Journal of Oral and Maxillofacial Implants 2004;19:288–90.

7.Ekfeldt A. Early experience of implant-supported prostheses in patients with neurologic disabilities. International Journal of Prosthodontics 2005;18: 132–8.

8.Oczakir C, Balmer S, Mericske-Stern R. Implant-prosthodontic treatment for special care patients: a case series study. International Journal of Prosthodontics 2005;18:383–9.

9.Addy L, Korszun A, Jagger RG. Dental implant treatment for patients with psychiatric disorders. European Journal of Prosthodontics and Restorative Dentistry 2006;14: 90–2.

10.Cune MS, Strooker H, Van der Reijden WA, de Putter C, Laine ML, Verhoeven JW. Dental implants in persons with severe epilepsy and multiple disabilities: a long-term retrospective study. International Journal of Oral and Maxillofacial Implants 2009;24:534–40.

11.Feijoo JF, Limeres J, Diniz M, Del Llano A, Seoane J, Diz P. Osseointegrated dental implants in patients with intellectual disability: a pilot study. Disability and Rehabilitation 2012;34:2025–30.

Implant osteo-metabolic screening (IOMS) e osteo-metabolic assessment (OMA)

Il paziente candidato ad interventi di chirurgia implantare  deve essere sottoposto ad un’accurata valutazione clinica, che ha lo scopo di indagare lo stato generale di salute del paziente [1]. Con il crescente invecchiamento della popolazione, l’odontoiatra intercetta sempre più spesso pazienti in età medio-avanzata o senile, con un’alta prevalenza di patologie croniche fra cui, in ambito osteo-metabolico, più frequentemente osteoporosi e osteoartrosi, più raramente neoplasie ossee primitive e secondarie.

E’ da anni oggetto di dibattito l’ipotesi che l’osteoporosi in qualità di malattia sistemica interessi non solo lo scheletro assiale e appendicolare (rachide lombare, femore, radio) ma anche le ossa mascellari e la mandibola, il cui osso alveolare presenta caratteristiche peculiari di elevato turn-over osseo legato allo stress meccanico al quale questi segmenti ossei sono sottoposti durante la masticazione. Tuttavia mentre alcuni studi hanno dimostrato una correlazione fra le modificazioni della massa ossea a livello lombare e/o femorale e quelle dell’osso mascellare e della mandibola [2-7], altri studi hanno negato tale correlazione [8-11]; inoltre gli studi hanno coinvolto pazienti affetti da patologia osteo-metabolica molto eterogenea senza distinzione fra osteomalacia e osteoporosi e senza il riconoscimento di comorbilità come possibile causa di osteoporosi secondaria. E’ verosimile che le modificazioni della massa ossea legate all’età e alle modificazioni ormonali riguardino maggiormente l’osso mascellare (osso spugnoso) e in minor misura la mandibola (osso spugnoso e compatto) a causa dello stress funzionale cronico causato dall’attività muscolare del massetere durante la masticazione [12].

La riduzione della densità minerale ossea a livello sistemico (rachide lombare, femore) è stata associata ad atrofia ed elevato riassorbimento osseo in mascelle/mandibola di pazienti edentuli ma non è stata trovata nessuna relazione con una maggiore percentuale di fallimento implantare [13-15]; per questo motivo attualmente l’osteoporosi viene considerata al massimo una controindicazione relativa alla chirurgia implantare e alla osteointegrazione degli impianti [16].

Trattazione separata merita invece la categoria di pazienti osteoporotici in trattamento con farmaci anti-riassorbitivi (bisfosfonati, denosumab) per i quali esistono evidenze della letteratura circa una possibile associazione causale fra terapia farmacologica e insorgenza di osteonecrosi (ONJ, osteonecrosis of the jaw), soprattutto dopo esposizione di osso del cavo orale (chirurgia exodontica, chirurgia implantare, chirurgia orale con esposizione del tessuto osseo).

Le acquisizioni nell’ambito della fisiopatologia del rimodellamento osseo hanno chiarito che l’osteoporosi può essere primitiva (post-menopausale, senile, idiopatica giovanile, gravidica) oppure secondaria ad una patologia sistemica, di cui il coinvolgimento osseo è uno dei numerosi tasselli del complesso quadro clinico del paziente [17].

Molti pazienti affetti da osteoporosi assumono farmaci osteotrofici, che classicamente si suddividono in due grandi categorie: farmaci anti-riassorbitivi (bisfosfonati, denosumab, modulatori selettivi dei recettori estrogenici), che sopprimono il turn-over osseo attraverso un’azione citotossica/inibente selettiva sugli osteoclasti e farmaci anabolizzanti (teriparatide), che stimolano l’apposizione di nuovo osso [18].

E’ noto che la terapia con bisfosfonati indicata per le metastasi scheletriche da tumori solidi, con dosi decine di volte superiori a quelle utilizzate per la terapia dell’osteoporosi (acido zoledronico 4 mg ev ogni 3-4 settimane), si può associare a un aumento del rischio di sviluppare una sindrome definita osteonecrosi delle ossa mascellari e/o della mandibola (osteonecrosis of the jaw-ONJ), una forma di osteomielite quasi sempre legata a una infezione da Actinomiceti. Questa patologia è stata osservata con estrema rarità anche in pazienti in trattamento con bisfosfonati orali/ev per l’osteoporosi che si sottopongono a interventi sul cavo orale con esposizione del tessuto osseo alveolare [19,20]. Una casistica Australiana riporta un rischio di ONJ in pazienti oncologici in trattamento con bisfosfonati ev dello 0,88-1,15%, che diventa del 6,7-9,1% dopo una estrazione dentale; la stessa casistica riporta una percentuale nettamente inferiore nei pazienti in trattamento con bisfosfonati per os/ev per osteoporosi (0,01-0,04%, che diventa 0,09-0,34% dopo estrazione dentale) [21]. Non ci sono tuttavia evidenze definitive circa una associazione fra bisfosfonati e ONJ nella terapia delle malattie osteo-metaboliche benigne (osteoporosi, osteodistrofia renale, algodistrofia, morbo di Paget osseo, osteogenesi imperfetta), inoltre nuovi farmaci attualmente utilizzati nella pratica clinica per il trattamento della osteoporosi (denosumab) e per il trattamento di seconda linea di numerose neoplasie (anti-angiogenici: sunitinib, sorafenib, bevacizumab, tacrolimus, talidomide) sono stati occasionalmente associati a casi di ONJ [22,23]. Alla luce di questo nuovo scenario farmacologico, sempre più variegato e complesso e in continua evoluzione, la Società Americana dei Chirurghi Orali e Maxillo-facciali nel Position Paper del 2014 inerente le linee guida per la prevenzione e il trattamento della ONJ (www.aaoms.org) [24], ha sostituito il vecchio acronimo BR-ONJ (bisphosphonate-related osteonecrosis of the jaw) con quello di MR-ONJ (medication-related osteonecrosis of the jaw) allo scopo di sensibilizzare la classe odondoiatrica alle nuove evidenze scientifiche che correlano la ONJ non solo ai bisfosfonati (peraltro meno utilizzati nella pratica clinica rispetto al passato) ma anche ai nuovi numerosi farmaci attualmente usati nel campo della patologia osteo-metabolica sia essa benigna o maligna.

L’eziologia della ONJ non è nota, tuttavia per spiegarne la fisiopatologia sono state proposte diverse ipotesi patogenetiche: l’inibizione del riassorbimento osteoclastico e del remodeling (l’elevato turn-over osseo a livello della mascella/mandibola potrebbe spiegare la elettiva localizzazione della ONJ rispetto allo scheletro assiale e distale), l’infezione/infiammazione (in genere da germi appartenenti alla famiglia degli Actinomiceti), l’inibizione della angiogenesi (indotta dai bisfosfonati ma non dal denosumab), la tossicità esplicata nei tessuti molli (indotta dai bisfosfonati ma non dal denosumab) e infine la disfunzione dell’immunità innata e acquisita (immunodepressione in corso ad esempio di chemioterapia o trattamento steroideo cronico). E’ nota una correlazione diretta fra incidenza di ONJ e durata della terapia con bisfosfonati con un incremento esponenziale per durata di terapie superiori a 4 anni.

Esistono poi possibili cofattori che identificano pazienti a più alto rischio di sviluppo di ONJ, in particolare:  diabete mellito non controllato, terapia steroidea cronica, abuso cronico di alcol/fumo, malattie ematologiche, trattamento immunosoppressivo/AIDS, chemioterapia, iperparatiroidismo secondario (soprattutto nel paziente oncologico in terapia con bisfosfonati ev, non adeguatamente supplementato con dosi appropiate di calcio e vitamina D), diatesi trombofilica, iperlipemia. Fattori di rischio locali implicati nella genesi della ONJ sono rappresentati dal trauma chirurgico dento-alveolare (estrazione dentale, posizionamento di impianto, chirurgia parodontale o endodontica) e dal traumatismo da protesi rimovibili incongrue in pazienti con biotipo parodontale sottile [25,26].

La valutazione clinica del paziente candidato alla chirurgia implantare/orale passa attraverso 3 momenti fondamentali: valutazione clinica generale, screening implantare osteo-metabolico (implant osteo-metabolic screening IOMS), valutazione osteo-metabolica (osteo-metabolic assessment OMA).

Scopo del presente lavoro scientifico è quello di fornire all’odontoiatra uno strumento rapido ed efficace (IOMS) che permetta di identificare fra i pazienti candidati ad un intervento di chirurgia implantare/orale quelli che necessitano di una preliminare valutazione/consulenza specialistica osteo-metabolica.

VALUTAZIONE CLINICA GENERALE

La valutazione clinica generale, ad opera dell’odontoiatra, passa attraverso i classici momenti della semeiotica medica (anamnesi, esame obiettivo, esami ematici e strumentali).

La tabella 1 fornisce uno schema degli esami da richiedere nel caso del paziente implantare (il dosaggio del 25-idrossi-colecalciferolo può rappresentare un valore aggiunto per correggere da subito una condizione di ipovitaminosi D, causa di una possibile sottostante osteomalacia).

Tabella 1. Valutazione clinica generale

Anamnesi ed esame obiettivo
Routine ematochimica completa

(emocromo, EF proteica, creatinina, azotemia, GOT, GPT, gammaGT, glicemia, VES, colesterolo totale, HDL trigliceridi, PT, PTT, CPK, screening epatite B e C, sodio, potassio, esame urine)

con valutazione biochimica dello stato vitaminico D (25OHD3)

Visita anestesiologica (SOLO per pazienti candidati a sedazione cosciente)

 

IMPLANT OSTEO-METABOLIC SCREENING (IOMS)

Lo screening osteo-metabolico implantare, eseguito dall’odontoiatra, consiste nella valutazione dei fattori clinici di rischio per fragilità ossea (i cosiddetti fattori di rischio fratturativo) allo scopo di selezionare i pazienti con rischio più alto, da inviare allo specialista del metabolismo minerale ed osseo.

I principali fattori di rischio fratturativo, oltre all’età e alla densità minerale ossea (bone mineral density: BMD) valutata con  la densitometria ossea o mineralometria ossea computerizzata (MOC) si possono così elencare:

– ridotto apporto di calcio nella dieta
– ipovitaminosi D
– ridotta esposizione alla luce solare (pazienti anziani presso strutture protette)
– ridotta attività fisica
– menopausa anticipata (< 45 anni)
– ipogonadismo maschile
– indice di massa corporea (body mass index: BMI pari a peso in Kg / altezza in metri al quadrato) < 19
– pregressa frattura da fragilità o trauma non efficiente dopo i 50 anni (si definisce “trauma non efficiente” il trauma di entità uguale o inferiore a quello di una caduta a terra da stazione eretta in ambiente piano)
– familiarità per frattura di femore
– etilismo e tabagismo
– farmaci osteopenizzanti (in particolare steroidi e immunosoppressori)
– cause secondarie (in particolare le connettiviti sistemiche e le condizioni di malassorbimento intestinale) [27].

La tabella 2 fornisce i criteri che permettono all’odontoiatra di eseguire lo IOMS e selezionare i pazienti da inviare allo specialista del metabolismo minerale ed osseo. La tabella 3 riassume in modo schematico i farmaci attualmente in uso per il trattamento dell’osteoporosi, indicando nello specifico quelli che hanno un possibile ruolo patogenetico nello sviluppo della ONJ.

 

Tabella 2. IOMS: criteri forniti dallo specialista del metabolismo osseo che servono all’odontoiatra per eseguire lo screening osteo-metabolico implantare

Assenza di fattori di rischio fratturativo*

Assenza di patologie osteoporosi-correlate**

Adeguato stato vitaminico D***

NON necessaria la valutazione osteo-metabolica (abbattimento di possibili fattori di rischio es. tabagismo e alcolismo)
Presenza di fattori di rischio fratturativo*

e/o

Presenza di patologie osteoporosi-correlate**

e/o

Non adeguato stato vitaminico D***

e/o

Pazienti candidati a terapia osteotrofica o già in terapia con farmaci osteotrofici o sottoposti a pregressa terapia con farmaci osteotrofici

Considerare la valutazione osteo-metabolica in base alla severità clinica

 

Legenda esplicativa

*Fattori di rischio fratturativo:

-BMI < 19
-menopausa anticipata < 45 anni
-pregressa frattura da fragilità dopo i 50 anni
-farmaci osteopenizzanti in particolare steroidi e immunosoppressori

**Patologie osteoporosi-correlate:

-diabete mellito scompensato
-ipogonadismo maschile (ananmesi positiva per patologia ipofisaria o testicolare)
-ipercortisolismo (sindrome di Cushing)
-connettiviti sistemiche (in particolare artrite reumatoide, lupus eritematosus sistemico, sclerodermia, sindrome di Sjogren)
-malassorbimento (in particolare celiachia, sindrome dello intestino corto)
-insufficienza renale cronica
-epatopatie (epatite B e C, cirrosi epatica)
-malattie ematologiche (leucemie, linfomi, mieloma multiplo)
-neoplasie solide (carcinomi, sarcomi)
-malattie osteo-metaboliche rare (morbo di Paget osseo, ipofosfatasia, osteogenesi imperfetta, osteopetrosi, displasia fibrosa dell’osso)

***Valore normale di 25OHD3: > o uguale a 20 ng/ml pari a 50 nmol/L

 

Tabella 3. Farmaci anti-osteoporosi (osteotrofici)

Bisfosfonati

(anti-riassorbitivi)

Non-amino-bisfosfonati

Clodronato

Dose paz. osteoporotico: 100 mg IM ogni 7-14 gg

Amino-bisfosfonati*

Alendronato

Dose paz. osteoporotico: 70 mg per os alla settimana

Risedronato

Dose paz. osteoporotico: 35 mg per os alla settimana oppure 75 mg per 2 gg consecutivi al mese

Ibandronato

Dose paz. osteoporotico: 150 mg per os al mese

Zoledronato

Dose paz. osteoporotico: 5 mg ev/anno (Aclasta)

Dose paz. oncologico: 4 mg ev/3-4 settimane (Zometa)

Denosumab*

(anti-riassorbitivo)

Dose paz. osteoporotico: 60 mg sc/6 mesi (Prolia)

Dose paz. oncologico: 120 mg sc/mese (X-Geva)

Anabolizzanti Teriparatide (Forsteo)

Dose paz. osteoporotico: 20 gamma sc/die per 24 mesi

*Farmaci con possibile ruolo nella ONJ

 OSTEO-METABOLIC ASSESSMENT (OMA)

La valutazione specialistica osteo-metabolica permette un corretto inquadramento diagnostico della patologia osteoporotica, e una precisa definizione delle terapie osteotrofiche attuali o pregresse, ad opera di uno specialista del metabolismo minerale ed osseo (reumatologo, endocrinologo, internista, ortopedico, geriatra) [28,29]. Per i pazienti già in terapia con farmaci osteotrofici o candidati a terapia osteotrofica, in merito alla decisione di una possibile sospensione della terapia osteotrofica in previsione della chirurgia implantare, un approccio pratico viene dalle linee guida del 2014 della Società Americana dei Chirurghi Orali e Maxillo-facciali (AAOMS) (www.aaoms.org) [24], che forniscono utili raccomandazioni nelle seguenti categorie di pazienti:

Nel paziente oncologico candidato a terapia con bisfosfonato ev o a terapia anti-angiogenica o a RT testa-collo, si raccomanda una cura preventiva delle patologie dentarie e uno stretto follow-up odontoiatrico in corso di terapia.

Nel paziente oncologico già in terapia con bisfosfonato ev o con farmaci anti-angiogenici, si pone una generale controindicazione alla chirurgia del cavo orale con esposizione di tessuto osseo alveolare (implantologia) e si consiglia di prediligere soluzioni conservative. In casi selezionati e con appropiata prevenzione si può prendere in considerazione la terapia implantare [30].

Per quanto riguarda il paziente osteoporotico in terapia con bisfosfonato per os (il più frequente nella pratica clinica), si pone attenzione alla durata della terapia anti-riassorbitiva e alla eventuale presenza di fattori di rischio: se la durata della terapia con bisfosfonato è < 4 anni e in assenza di fattori di rischio (steroide cronico/farmaci anti-angiogenici), non è ritenuta utile in questo caso la sospensione del bisfosfonato in previsione della chirurgia orale; se invece la durata della terapia con bisfosfonato è < 4 anni ed è presente un fattore di rischio (steroide cronico/ farmaci anti-angiogenici) oppure la durata della terapia con bisfosfonato è > 4 anni in presenza o assenza di un fattore di rischio, è ritenuta utile la sospensione del bisfosfonato in previsione della chirurgia orale almeno 2 mesi prima con riassunzione del farmaco dopo completa guarigione ossea (in genere 3 mesi). In corso di terapia con bisfosfonato orale per patologia osteo-metabolica benigna gli autori sottolineano l’importanza di mantenere un’accurata igiene orale e un periodico controllo odontoiatrico.

Nel paziente con diagnosi di ONJ, in relazione alla decisione di sospendere o meno il bisfosfonato, si distinguono 2 categorie di pazienti: nel paziente oncologico in terapia con bisfosfonato ev è ritenuto utile valutare con l’oncologo la sospensione del bisfosfonato in base al rapporto rischio/beneficio, nel caso invece di paziente osteoporotico in terapia con bisfosfonato per os è ritenuta d’obbligo la sospensione del bisfosfonato valutando l’eventuale passaggio ad altro tipo di terapia osteotrofica.

Nel paziente osteoporotico in terapia con un non amino-bisfosfonato (clodronato) oppure con un farmaco anabolizzante (teriparatide) oppure con farmaco dual-acting (ranelato di stronzio) non c’è indicazione alla sospensione della terapia, in quanto non esiste associazione fra questi farmaci e l’ONJ.

Nel Position Paper non si fa riferimento ai pazienti in terapia con denosumab al dosaggio per osteoporosi (60 mg sc/6 mesi) oppure con zoledronato al dosaggio per osteoporosi (5 mg ev/anno), per questi pazienti non esistono linee guida ufficiali in relazione alla pratica clinica da seguire in caso di programmata chirurgia orale; negli studi relativi a denosumab e zoledronato al dosaggio per osteoporosi sono stati documentati solo rari sporadici casi di ONJ; in considerazione della farmacocinetica delle 2 molecole, il razionale potrebbe essere quello di sfruttare una finestra temporale fra le 2 somministrazioni del farmaco (ricordando comunque la sostanziale differenza fra lo zoledronato che in qualità di bisfosfonato ha un “effetto coda” e il denosumab che in qualità di farmaco “on-off” determina alla sua sospensione una rapida ripresa del rimodellamento osseo) ma mancano al momento evidenze scientifiche a supporto di questa strategia operativa.

Potenzialmente utile nei pazienti in terapia con farmaci anti-riassorbitivi (amino-bisfosfonati, denosumab) è il dosaggio sierico del telo-peptide C-terminale del collagene di tipo 1, prodotto di degradazione della porzione carbossi-terminale (CTX) delle regioni non-elica del collagene di tipo I, per azione della catepsina K osteoclastica. Il CTX sierico rappresenta un marker di riassorbimento osseo, potrebbe quindi essere utile per valutare il grado di soppressione del turn-over in corso di terapia osteotrofica, tuttavia il turn-over dell’osso alveolare non correla necessariamente con il grado di quello del restante scheletro e quindi al momento l’utilizzo del CTX sierico non è validato nella pratica clinica [31-34].

La Tabella 4 schematizza il razionale delle linee guida AAOMS.

Tabella 4. Gestione dei pazienti in terapia con farmaci osteotrofici in previsione di chirurgia implantare

Tipologia di paziente Procedura
Paziente oncologico candidato a terapia con bisfosfonato ev o a terapia anti-angiogenica o a RT testa-collo Utile la cura preventiva delle patologie dentarie
Paziente oncologico già in terapia con bisfosfonato ev o con farmaci anti-angiogenici La chirurgia del cavo orale con esposizione di tessuto osseo alveolare è controindicata
Paziente osteoporotico in terapia on con bisfosfonato per os I caso: se la durata della terapia con bisfosfonato è < 4 anni e in assenza di fattori di rischio*, non è ritenuta utile la sospensione del bisfosfonato in previsione della chirurgia orale

II caso: se la durata della terapia con bisfosfonato è < 4 anni ed è presente un fattore di rischio*  oppure la durata della terapia con bisfosfonato è > 4 anni in presenza o assenza di un fattore di rischio*, è ritenuta utile la sospensione del bisfosfonato in previsione della chirurgia orale almeno 2 mesi prima con riassunzione del farmaco dopo completa guarigione ossea (in genere 3 mesi)

Paziente con ONJ I caso: nel paziente oncologico in terapia con bisfosfonato ev è ritenuto utile valutare con l’oncologo la sospensione del bisfosfonato in base al rapporto rischio/beneficio

II caso: nel paziente osteoporotico in terapia con bisfosfonato per os è ritenuta d’obbligo la sospensione del bisfosfonato valutando il passaggio ad altro tipo di terapia osteotrofica

Paziente in terapia con clodronato o teriparatide o stronzio ranelato Non necessaria sospensione della terapia

*Fattori di rischio: diabete mellito non controllato, terapia cronica con steroidi (prednisone >o= a 5 mg/die o equivalente per almeno 3 mesi), farmaci antiangiogenici, abuso cronico di alcol/fumo, malattie ematologiche, trattamento immunosoppressivo, AIDS.

CONCLUSIONI

Lo IOMS rappresenta un nuovo strumento nella pratica clinica quotidiana dell’odontoiatra, che permette di ottenere i seguenti obiettivi:

-selezionare i pazienti candidati alla chirurgia implantare/orale per una possibile valutazione specialistica osteo-metabolica (OMA)

-portare il paziente alla chirurgia implantare/orale nelle migliori condizioni clinico-farmacologiche

-diminuire la percentuale di fallimento implantare

-acquisire una maggiore tutela in ambito medico-legale.

La tabella 5 riassume i tre momenti della valutazione diagnostica globale (albero decisionale), la tabella 6 fornisce una scheda di possibile utilizzo nella pratica clinica per eseguire lo screening osteo-metabolico ad opera dell’odontoiatra.

Tabella 5. Albero decisionale


Tabella 6. Scheda clinica

Pazienti candidati a chirurgia implantare valutati per fattori di rischio di fragilità ossea

Paziente noto per osteoporosi post-M o senile SI NO
BMI < 19                                                                                         

(BMI = peso in Kg diviso altezza in metri al quadrato)

SI NO
Menopausa prima dei 45 anni di età                                               SI NO
Pregressa frattura da fragilità dopo i 50 anni                                 

(frattura da fragilità = da trauma di entità uguale

o inferiore a quello di una caduta a terra da

stazione eretta in ambiente piano)

SI NO
Paziente in terapia attuale o pregressa con

farmaci osteopenizzanti in particolare steroidi

e immunosoppressori

SI NO
Anamnesi positiva per diabete mellito

(soprattutto se in fase di scompenso)

SI NO
Anamnesi positiva per ipogonadismo maschile

(paziente con patologia ipofisaria o testicolare)

SI NO
Anamnesi positiva per ipercortisolismo

(sindrome di Cushing)

SI NO
Anamnesi positiva per connettiviti sistemiche

(artrite reumatoide, lupus eritematosus sistemico,

sclerodermia, sindrome di Sjogren)

SI NO
Anamnesi positiva per sd da malassorbimento

(celiachia, sindrome dello intestino corto)

SI NO
Anamnesi positiva per insufficienza renale cronica SI NO
Anamnesi positiva per epatopatie   

(epatite B e C, cirrosi epatica)

SI NO
Anamnesi positiva per malattie ematologiche

(leucemie, linfomi, mieloma multiplo)

SI NO
Anamnesi positiva per neoplasie solide

(carcinomi, sarcomi)

SI NO
Valore di 25OHD3 < a 20 ng/ml (pari a 50 nmol/L) SI NO

UNA CONDIZIONE DI OSTEOPOROSI NON RAPPRESENTA DI PER SE’ UNA CONTROINDICAZIONE ALLA CHIRURGIA IMPLANTARE PER CUI CONSIDERARE LA VALUTAZIONE OSTEO-METABOLICA IN BASE ALLA SEVERITA’ DEL QUADRO CLINICO

 

 

Pazienti in terapia con farmaci anti-riassorbitivi, a rischio di ONJ dopo esposizione di osso del cavo orale (chirurgia exodontica, chirurgia implantare, chirurgia orale con esposizione del tessuto osseo).

Pazienti candidati a terapia con bisfosfonati o

altri farmaci per osteoporosi

SI NO
Pazienti già in terapia con bisfosfonati o altri                                

farmaci per osteoporosi

SI NO
Pazienti sottoposti a pregressa terapia con                                      

bisfosfonati o altri farmaci per osteoporosi

SI NO

IN PRESENZA DI ALMENO UNA RISPOSTA POSITIVA: INVIARE SEMPRE IL PAZIENTE ALLA VALUTAZIONE OSTEO-METABOLICA

Pazienti candidati a chirurgia implantare/orale affetti da malattie osteo-metaboliche rare (morbo di Paget osseo, ipofosfatasia, osteogenesi imperfetta, osteopetrosi, displasia fibrosa dell’osso)

INVIARE SEMPRE IL PAZIENTE ALLA VALUTAZIONE OSTEO-METABOLICA

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Chemioterapia e radioterapia in chirurgia implantare

I programmi di prevenzione e i progressi della chirurgia e della terapia medica in oncologia pongono anche l’odontoiatra nella condizione di intercettare sempre più spesso nella pratica clinica pazienti neoplastici in remissione di malattia o comunque lungo sopravviventi, dopo la chirurgia e la radioterapia e/o chemioterapia in setting adiuvante.

I pazienti sottoposti a radioterapia e/o chemioterapia possono essere “fragili” da un punto di vista osteo-metabolico e quando candidati a chirurgia implantare vanno gestiti con particolare cautela.

I pazienti sottoposti a radioterapia per una neoplasia della regione testa-collo possono presentare ai fini della osteo-integrazione implantare alcuni fattori di rischio come una riduzione della secrezione salivare (xerostomia), un’aumentata colonizzazione batterica favorente la comparsa di carie radio-indotta e infine un’aumentata incidenza di radio-necrosi mandibolare (la radioterapia influisce sul metabolismo osseo riducendo il numero di osteoblasti attivi, le cellule che depongono nuova matrice ossea, e alterando la vascolarizzazione dell’osso e del periostio attraverso l’induzione di una endoarterite obliterante) (1).

Le evidenze della letteratura inerenti la osteo-integrazione degli impianti in pazienti sottoposti a radioterapia della regione testa-collo sono discordanti e non univoche: nel complesso la percentuale di successo si aggira in un ampio range compreso fra il 40 e il 100% (2).

In questo setting di pazienti le principali raccomandazioni da seguire sono le seguenti: la chirurgia implantare dovrebbe essere eseguita almeno 21 giorni prima e almeno 9 mesi dopo la radioterapia e comunque mai durante il trattamento radiante e/o in corso di mucosite, la dose totale radiante dovrebbe essere inferiore a 66 Gy per minimizzare il rischio di osteoradionecrosi e inferiore a 50 Gy per ridurre il rischio di mancata osteointegrazione, l’ossigeno iperbarico dovrebbe essere usato per una dose radiante superiore a 50 Gy, il carico immediato dovrebbe essere evitato, e infine dovrebbero essere sempre assicurate una totale asepsi e una adeguata profilassi antimicrobica (1) [tabella 1].

Tabella 1. Raccomandazioni in pazienti candidati a chirurgia implantare in relazione a radioterapia testa-collo

Quando eseguire la chirurgia implantare rispetto alla radioterapia? Almeno 21 giorni prima e almeno 9 mesi dopo la radioterapia.

Mai durante il trattamento radiante.

Mai in corso di mucosite.

Esiste una dose radiante a rischio ai fini di osteoradionecrosi e mancata osteointegrazione? La dose totale radiante dovrebbe essere inferiore a 66 Gy per minimizzare il rischio di osteoradionecrosi.

La dose totale radiante dovrebbe essere inferiore a 50 Gy per ridurre il rischio di mancata osteointegrazione.

Esiste una indicazione all’utilizzo dell’ossigeno iperbarico? L’ossigeno iperbarico dovrebbe essere usato per una dose radiante superiore a 50 Gy.
E’ indicato il carico immediato? Il carico immediato dovrebbe essere evitato.
Quale copertura antibiotica? Deve sempre essere assicurata una adeguata profilassi antimicrobica.

 

Per quanto riguarda la chemioterapia, i principali fattori di rischio in relazione alla chirurgia implantare sono rappresentati dalla frequente comparsa di mucosite del cavo orale e dal variabile effetto tossico/citoriduttivo dei diversi chemioterapici sul midollo osseo (alla  leucopenia/neutropenia può conseguire immunodepressione e alla piastrinopenia facilità al sanguinamento gengivale) (1).

Uno dei pochi studi presenti in letteratura ha dimostrato che il trattamento chemioterapico con cis/carboplatino e 5-fluorouracile non influenza negativamente la sopravvivenza e il successo degli impianti in pazienti affetti da cancro del cavo orale (3).

E’ altresì vero che i pazienti già portatori di impianti dentali che sono sottoposti a successiva radioterapia e/o chemioterapia nel corso della vita presentano spesso a lungo termine un maggior tasso di complicanze quali infezioni, dolore, danno tissutale e sanguinamento gengivale (4).

In questo setting di pazienti le principali raccomandazioni da seguire sono le seguenti: eseguire una accurata visita odontoiatrica prima dell’inizio della chemioterapia al fine di valutare la necessità di una bonifica del cavo orale, prevenire e trattare la mucosite del cavo orale e rimandare se possibile eventuali cure odontoiatriche durante la chemioterapia, ed infine eseguire le cure odontoiatriche invasive dopo almeno 6 mesi dalla fine della chemioterapia dopo esecuzione di esame emocromocitometrico al fine di valutare la persistenza di leucopenia e/o piastrinopenia (1) [tabella 2].

Tabella 2. Raccomandazioni in pazienti candidati a chirurgia implantare in relazione a chemioterapia

E’ necessario eseguire una visita odontoiatrica prima dell’inizio della chemioterapia? E’ buona norma eseguire una accurata visita odontoiatrica prima dell’inizio della chemioterapia al fine di valutare la necessità di una bonifica del cavo orale.
E’ possibile eseguire la chirurgia implantare durante la chemioterapia? E’ buona norma rimandare se possibile eventuali cure odontoiatriche durante la chemioterapia.
Dopo quanto tempo dalla fine della chemioterapia è possibile eseguire la chirurgia implantare? E’ consigliabile eseguire le cure odontoiatriche invasive dopo almeno 6 mesi dalla fine della chemioterapia (dopo esecuzione di esame emocromocitometrico al fine di valutare la presenza di leucopenia e/o piastrinopenia).

 

In generale, la radioterapia e la chemioterapia non possono essere considerate controindicazioni assolute alla chirurgia orale, tuttavia va tenuto presente che i pazienti sottoposti a tali terapie sono “fragili”, maggiormente soggetti a complicanze che possono compromettere l’osteointegrazione implantare, soprattutto dopo radioterapia; trattandosi di pazienti oncologici, la valutazione odontoiatrica deve necessariamente tenere conto della complessità clinica, delle co-morbilità e della prognosi a breve e lungo termine.

Infine va ricordato che nuovi farmaci attualmente utilizzati nella pratica clinica per il trattamento di seconda linea di numerose neoplasie (anti-angiogenici: inibitori delle tirosinochinasi, bevacizumab) sono stati occasionalmente associati a casi di osteonecrosi del mascellare: il Position Paper della AAOMS (Società Americana dei Chirurghi Orali e Maxillo-facciali) fornisce utili raccomandazioni in questo setting di pazienti (5).

Bibliografia

1.Diz P, Scully C, Sanz M. Dental implants in the medically compromised patient. Dental implants in the medically compromised patient. J Dent. 2013 Mar;41(3):195-206.

2.Harrison JS, Stratemann S, Redding SW. Dental implants for patients who have had radiation treatment for head and neck cancer. Spec Care Dentist. 2003 Nov-Dec;23(6):223-9.

3.Kovács AF. Influence of chemotherapy on endosteal implant survival and success in oral cancer patients. Int J Oral Maxillofac Surg. 2001 Apr;30(2):144-7.

4.Karr RA, Kramer DC, Toth BB. Dental implants and chemotherapy complications. J Prosthet Dent. 1992 May;67(5):683-7.

5.Gregorio Guabello. Osteonecrosi delle ossa del cavo orale: linee guida di prevenzione e trattamento. Quintessenza Internazionale e JOMI. Anno 30. Numero 3. 2014.

Evento HSR 3 Febbraio 2018

Aspetti endocrino-osteo-metabolici del carcinoma mammario e prostatico

 

Aggiornamento: disponibili gli atti dell’evento del 3 Febbraio

 

 

 

Programma dell’evento

Razionale del convegno

I pazienti affetti da carcinoma prostatico e mammario in blocco ormonale adiuvante, in considerazione dell’ipoestrogenismo/ipogonadismo indotto dalle terapie oncologiche, vanno rapidamente incontro a progressivo depauperamento osseo (CTIBL: Cancer Treatment Induced Bone Loss) e aumento del rischio di frattura, che in pazienti sempre più lungo-sopravviventi possono avere importanti conseguenze in termini di morbilità e disabilità motoria. Le attuali linee guida inerenti la prevenzione/trattamento della CTIBL prevedono l’indicazione in questo setting di pazienti ad una terapia anti-riassorbitiva di protezione ossea, da instaurare già nel momento stesso in cui il paziente inizia il blocco ormonale adiuvante (soppressione ovarica nelle pazienti con diagnosi di carcinoma mammario in pre-menopausa, inibitore dell’aromatasi nelle pazienti con diagnosi di carcinoma mammario in post-menopausa e deprivazione androgenica nel paziente con carcinoma prostatico). L’inizio della terapia anti-riassorbitiva prevede un preliminare inquadramento osteo-metabolico per escludere o valutare le co-morbidità e impostare un’adeguata supplementazione con calcio e vitamina D, oltre che uno stretto follow-up biochimico e densitometrico in corso di terapia. Per questo motivo, nell’ottica di una medicina integrata, è importante disporre del supporto di un esperto del metabolismo dell’osso all’interno della Breast e Prostate Unit per una gestione ottimale e multidisciplinare di questi pazienti a lungo termine.

Atti del convegno del 3 Febbraio

Gregorio Guabello

Gregorio Guabello
Gregorio Guabello

Endocrinologo con attività clinica e scientifica dedicata all’osteoporosi, al metabolismo minerale e alle malattie dello scheletro

Gregorio Guabello – CV