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Romosozumab, meccanismo d’azione e informazioni sulla sicurezza

Romosozumab è un anticorpo monoclonale che, inibendo l’attività della sclerostina, provoca un aumento della formazione ossea e contemporaneamente, in misura minore, riduce la perdita di massa ossea.

Romosozumab - meccanismo d'azione
Meccanismo d’azione di romosozumab – Effetto dell’inibizione della sclerostina sulla segnalazione Wnt
L’anticorpo monoclonale (MAb) umanizzato romosozumab lega la sclerostina (un inibitore della segnalazione della via Wnt secreto dall’osteocita) in circolazione. Ciò impedisce il legame della sclerostina con i recettori LRP 5/6. Pertanto, Wnt si lega a LRP 5/6 e al suo co-recettore Frizzled. Ciò porta all’attivazione della via di segnalazione Wnt, che alla fine porta alla differenziazione, alla proliferazione e alla sopravvivenza degli osteoblasti e, quindi, all’aumento della formazione ossea.
Shah AD, Shoback D, Lewiecki EM. Sclerostin inhibition: a novel therapeutic approach in the treatment of osteoporosis. Int J Womens Health. 2015;7:565–580.

Indicazioni

Romosozumab è indicato per il trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di frattura, definito attraverso una storia di fratture osteoportiche o più fattori di rischio per fratture, o in pazienti inotollerati o in cui sono fallite altre terapie disponibili per il trattamento dell’osteoporosi.

ll programma di sviluppo di romosozumab ha compreso 19 studi clinici che hanno arruolato circa 14.000 pazienti.

Romosozumab è stato studiato per le sue potenzialità di ridurre il rischio di fratture in un vasto programma globale di Fase 3 che includeva due grandi studi sulle fratture confrontando romosozumab con placebo o comparatore attivo in oltre 11.000 donne in postmenopausa con osteoporosi. Amgen e UCB stanno co-sviluppando romosozumab.

Nel dicembre 2019, il medicinale ha ricevuto dalla Commissione europea l’autorizzazione all’immissione in commercio.

Informazioni importanti sulla sicurezza di romosozumab nell’UE/EEA

Nell’UE, romosozumab è indicato per il trattamento dell’osteoporosi grave nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture.

Controindicazioni

Romosozumab è controindicato in pazienti allergici al romosozumab o a uno qualsiasi degli eccipienti, con bassi livelli di calcio nel sangue (ipocalcemia) o con anamnesi di infarto del miocardio (infarto) o ictus.

Infarto miocardico o ictus

Infarto e ictus sono stati riportati in pazienti in trattamento con romosozumab in studi randomizzati e controllati (non comune). Il trattamento con romosozumab non deve essere iniziato in pazienti con anamnesi di infarto o ictus. Nel determinare se usare romosozumab per un singolo paziente, deve essere valutata la presenza di fattori di rischio per problemi cardiovascolari, tra cui malattie cardiovascolari accertate, ipertensione, livelli elevati di grassi nel sangue, diabete, fumo o problemi renali. Romosozumab deve essere usato solo se il medico prescrittore e il paziente concordano sul fatto che il beneficio supera il rischio. Se un paziente manifesta un infarto miocardico o un ictus durante la terapia, il trattamento con romosozumab deve essere interrotto.

Ipocalcemia

In pazienti in trattamento con romosozumab è stata osservata ipocalcemia transitoria. L’ipocalcemia deve essere corretta prima di iniziare la terapia con romosozumab e i pazienti devono essere monitorati per segni e sintomi di ipocalcemia. Se un paziente presenta sospetti sintomi di ipocalcemia durante il trattamento, devono essere misurati i livelli di calcio. Nei pazienti devono essere adeguatamente integrati calcio e vitamina D. I pazienti con grave insufficienza renale (tasso di filtrazione glomerulare stimato [eGFR] da 15 a 29 ml/min/1,73 m2) o sottoposti a dialisi sono a maggior rischio di sviluppare ipocalcemia e dati di sicurezza per questi pazienti sono limitati. In questi pazienti devono essere monitorati i livelli di calcio.

Ipersensibilità

Negli studi clinici, nel gruppo romosozumab, si sono verificate reazioni cliniche significative di ipersensibilità, inclusi angioedema, eritema multiforme e orticaria. Se si verifica una reazione anafilattica o altra reazione allergica clinicamente significativa, deve essere iniziata una terapia appropriata e l’uso di Romosozumab deve essere interrotto.

Osteonecrosi mascellare

L’osteonecrosi della mascella (ONJ) ​​è stata segnalata raramente in pazienti in trattamento con romosozumab.

I seguenti fattori di rischio devono essere considerati nella valutazione del rischio di un paziente di sviluppare ONJ:

  1. potenza del medicinale che inibisce il riassorbimento osseo (il rischio aumenta con la potenza antiriassorbitiva del composto) e dose cumulativa di terapia di riassorbimento osseo;
  2. cancro, condizioni di comorbilità (ad es. anemia, coagulopatie, infezione), fumo;
  3. terapie concomitanti: corticosteroidi, chemioterapia, inibitori dell’angiogenesi, radioterapia alla testa e al collo;
  4. scarsa igiene orale, malattia parodontale, mal adattamento protesi dentarie, storia di malattia dentale, procedure dentali invasive (ad es. estrazioni dentarie).

Tutti i pazienti devono essere incoraggiati a mantenere una buona igiene orale e ricevere controlli dentali di routine. La dentiera dovrebbe adattarsi correttamente. Durante il trattamento con tomosozumab, i pazienti sottoposti a trattamento odontoiatrico o sottoposti a chirurgia dentale (ad es. estrazioni dentali) devono informare il proprio medico in merito al loro trattamento odontoiatrico e informare il dentista che stanno assumendo romosozumab. Durante il trattamento con romosozumab,i pazienti devono segnalare immediatamente qualsiasi sintomo orale come mobilità dentale, dolore o gonfiore o non guarigione di piaghe o secrezione di pus. I pazienti che sono sospettati di avere o che sviluppano ONJ mentre ricevono romosozumab devono ricevere cure da un dentista o un chirurgo orale con esperienza in ONJ. L’interruzione della terapia con romosozumab deve essere presa in considerazione fino a quando la condizione non si risolve e, ove possibile, si mitigano i fattori di rischio.

Fratture femorali atipiche

In pazienti in trattamento con romosozumab sono state riscontrate raramente fratture atipiche a bassa energia o a basso trauma dello stelo femorale, che possono verificarsi spontaneamente. Qualsiasi paziente con dolore nuovo o insolito alla coscia, all’anca o all’inguine deve essere sospettato di avere una frattura atipica e deve essere valutato per escludere una frattura incompleta del femore. I pazienti che presentano una frattura atipica del femore devono essere valutati anche per sintomi e segni di frattura dell’arto controlaterale. In base a una valutazione del rapporto rischio-beneficio individuale deve essere presa in considerazione l’interruzione della terapia con reomosozumab.

Reazioni avverse

Le reazioni avverse più comuni sono state rinofaringite (13,6%) e artralgia (12,4%). Le reazioni avverse comuni includevano: ipersensibilità, sinusite, eruzione cutanea, dermatite, mal di testa, dolore al collo, spasmi muscolari e reazioni nel sito di iniezione (le reazioni più frequenti nel sito di iniezione erano dolore ed eritema). Reazioni avverse non comuni sono state: orticaria, ipocalcemia, ictus, infarto del miocardio e cataratta. Infine, rari effetti collaterali sono state gravi reazioni allergiche che hanno causato gonfiore di viso, gola, mani, piedi, caviglie o parte inferiore delle gambe (angioedema) ed eruzione cutanea acuta (eritema multiforme).

Romosozumab è soggetto a monitoraggio addizionale.

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Dopo il parere positivo espresso dal Chmp in ottobre, arriva il 12 dicembre l’annuncio da parte di UCB e Amgen che la Commissione Europea (CE) ha concesso l’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) di romosozumab per il trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura.

I primi lanci di romosozumab nella European Economic Area (EEA) sono programmati per la prima metà del 2020.

L’autorizzazione all’immissione in commercio della Commissione Europea ha valore in tutta l’Unione Europea (EU) e nei Paesi aderenti all’EEA-European Free Trade Association – EFTA (Norvegia, Islanda e Liechtenstein). Romosozumab è ad oggi approvato in 37 Stati, compresi gli Stati Uniti, il Giappone e il Canada.

Romosozumab è un innovativo farmaco capace di un duplice effetto: aumentare la formazione ossea e, in misura minore, ridurre il riassorbimento osseo (o perdita di massa ossea).

L’impatto delle fratture da fragilità ossea

Secondo il report “Broken bones, broken lives: a roadmap to solve rhe fragility fracture crisis in Europe“, pubblicato a novembre 2019 dall’Internationa Osteoporosis Foundation, sono 2,68 milioni le nuove fratture da fragilità ossea che si verificano ogni anno in EU6 (Francia, Germania, Italia, Spagna, svezia e UK). La loro prevenzione e gestione sono state a lungo trascurate, nonostante l’enorme impatto che tale evenienza ha sui sistemi sanitari: €37,5 miliardi annui, con una proiezione a oltre 47 miliardi di euro entro il 2030.

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Prevenzione secondaria di fratture osteoporotiche. Raccomandazioni cliniche

Nel settembre 2019 sul Journal of Bone and Mineral Research sono state pubblicate alcune utili raccomandazioni cliniche [1] per la prevenzione secondaria delle fratture osteoporotiche da fragilità nella popolazione di pazienti con età uguale o superiore a 65 anni: il target di questo report è quindi rappresentato nello specifico da pazienti anziani con storia di nota pregressa frattura di femore o vertebrale da fragilità.
Tali raccomandazioni sono rivolte a tutte le figure mediche e paramediche che ruotano in qualità di team multidisciplinare attorno a questo setting di pazienti: ortopedici, reumatologi/endocrinologi, geriatri, ginecologi, internisti, dietologi/nutrizionisti, medici di base, fisiatri/fisioterapisti, dentisti/chirurghi maxillo-facciali.

Raccomandazioni per la prevenzione secondaria di fratture osteoporotiche

La task force di esperti della Asbmr (American Society for Bone and Mineral Research) propone 13 raccomandazioni, di cui sette primarie e sei secondarie.

Raccomandazioni primarie

Prima raccomandazione

È prioritario comunicare a questa categoria di pazienti tre messaggi fondamentali:

  • i pazienti sono ad alto rischio per ulteriori fratture da fragilità, soprattutto nei due anni successivi al primo evento fratturativo;
  • i pazienti sono a rischio di perdita dell’autosufficienza e di morte prematura;
  • i pazienti possono ridurre il loro rischio fratturativo attraverso un’adeguata presa in carico e uno stretto follow-up presso lo specialista di riferimento.

Seconda raccomandazione

È necessario assicurarsi che il medico di riferimento del paziente sia stato messo a conoscenza dell’evento fratturativo occorso.

Terza raccomandazione

È utile indagare il rischio di caduta del paziente attraverso le seguenti modalità:

  • conoscere la storia di cadute nell’ultimo anno;
  • ridurre il consumo di farmaci associati a rischio di caduta;
  • valutare le condizioni cliniche associate a rischio di caduta;
  • valutare la necessità dell’intervento del fisiatra e del fisioterapista.

Quarta raccomandazione

È mandatorio instaurare la terapia farmacologica anti-osteoporosi per ridurre il rischio di ulteriori fratture:

  • iniziando subito la terapia senza aspettare l’esito della densitometria ossea
  • indagando la salute del cavo orale prima di iniziare la terapia con un amino-bisfosfonato o il denosumab;
  • per i pazienti che sono stati sottoposti a chirurgia per la frattura di femore o sono ospedalizzati per la frattura vertebrale, la terapia farmacologica orale può essere iniziata già in corso di ricovero ed essere inclusa nella lettera di dimissione mentre la terapia farmacologica sottocute o endovena può essere procrastinata dopo due settimane dalla chirurgia in considerazione della possibile ipocalcemia intercorrente
    (ipovitaminosi D, idratazione perioperatoria) e della possibile reazione di fase acuta dopo infusione di zoledronato;
  • se la terapia farmacologica non viene iniziata in corso di ricovero, è necessario istituire un percorso di tempestiva rivalutazione specialistica.

Quinta raccomandazione

Iniziare una supplementazione con colecalciferolo di almeno 800 IU al giorno.

Sesta raccomandazione

Iniziare una supplementazione calcica se l’intake alimentare non soddisfa il fabbisogno di 1200 mg al giorno.

Settima raccomandazione

In considerazione del fatto che l’osteoporosi è una condizione di patologia cronica, è
necessario instaurare un follow-up che prevede di

  • rinforzare i messaggi relativi alla raccomandazione numero 1;
  • identificare da subito le condizioni che potrebbero interferire con la compliance del paziente alla terapia anti-osteoporosi;
  • indagare il rischio di caduta;
  • monitorare gli effetti collaterali dei farmaci anti-osteoporosi;
  • valutare l’efficacia del piano di trattamento;
  • valutare in corso di terapia l’opportunità di modificare il trattamento (discontinuazione, terapia sequenziale).

Raccomandazioni secondarie

Prima raccomandazione

Nel sospetto di osteoporosi secondaria, inviare il paziente a una valutazione specialistica di II livello.

Seconda raccomandazione

Erogare le seguenti raccomandazioni:

  • astensione dal fumo di sigaretta;
  • limitare l’assunzione di alcol a meno di 2 unità alcoliche per il maschio e 1 unità alcolica per la femmina;
  • eseguire adeguato esercizio fisico, sotto la supervisione del fisiatra/fisioterapista.

Terza raccomandazione

Nella proposta della terapia farmacologica, valutare con il paziente il rapporto rischio/beneficio e in particolare:

  • il rischio di ulteriori fratture osteoporotiche in assenza di terapia farmacologica;
  • per gli amino-bisfosfonati e il denosumab, il rischio di ONJ e fratture atipiche del femore spiegando al paziente come riconoscere precocemente sintomi e segni di tali possibili rari effetti collaterali

Quarta raccomandazione

La terapia farmacologica di I livello prevede:

  • amino-bisfosfonati orali (alendronato e risedronato) che sono in genere ben tollerati e a basso costo sanitario;
  • zoledronato endovena o denosumab sc, in caso di possibili cause di non aderenza alla terapia orale;
  • per i pazienti ad alto rischio fratturativo (multiple fratture vertebrali), terapia anabolizzante con teriparatide, in assenza di controindicazioni specifiche (storia oncologica).

Quinta raccomandazione

La durata ottimale della terapia anti-osteoporosi non è nota:

  • la vacanza terapeutica e la successiva ripresa della terapia sono opzioni da valutare per il singolo paziente;
  • dopo 3-5 anni di terapia con amino-bisfosfonato, le linee guida prevedono una rivalutazione del rischio fratturativo, tenendo conto dell’effetto coda e della maggiore incidenza di possibili effetti collaterali in caso di terapia di lunga durata;
  • la discontinuazione del denosumab deve essere assolutamente seguita da una terapia di consolidamento farmacologico al fine di contrastare possibili fratture vertebrali da rimbalzo;
  • analogamente dopo i due anni di terapia anabolizzante con teriparatide, è mandatoria la prosecuzione della terapia con un anti-riassorbitivo.

Sesta raccomandazione

I medici di base devono richiedere la consulenza di un endocrinologo o reumatologo esperto di metabolismo dell’osso per i pazienti che, nonostante la terapia anti-osteoporosi, sviluppano altre fratture da fragilità o perdita densitometrica di massa ossea e per i pazienti che hanno comorbilità come iperparatiroidismo primario o malattia renale cronica.

Commento alle raccomandazioni

Se da una parte le suddette raccomandazioni appaiono per un esperto di metabolismo dell’osso ovvie e scontate, dall’altra è doveroso ricordare che solo il 20% delle fratture di femore giunge a una accurata valutazione specialistica e quindi a una terapia appropriata; il percorso del paziente fratturato è spesso non strutturato e la gestione multidisciplinare è spesso mancante, il tutto con ovvie ripercussioni in termini di disabilità e costi sanitari evitabili.

Bibliografia

1. Conley RB, Adib G, Adler RA et al. Secondary Fracture Prevention: Consensus Clinical Recommendations from a Multistakeholder Coalition. J Bone Miner Res. 2019 Sep 20

AGN1 LOEP aumenta la densità minerale ossea dell’anca

Un gruppo di ricercatori ha condotto un primo studio sull’uomo per valutare la validità della procedura AGN1 LOEP (AGN1 local osteo-enhancement procedure). I risultati delle studio hanno dimostrato che questo trattamento minimamente invasivo ha aumentato stabilmente la densità minerale ossea areale (aBMD) nei femori prossimali di donne osteoporotiche in postmenopausa, popolazione ad alto rischio di fratture a seguito di perdita ossea. L’approccio prevede un singolo trattamento. Il riassorbimento di AGN1 – materiale impiantabile trifasico, riassorbibile, a base di calcio – è stato associato alla formazione di nuovo osso entro 12 settimane e il nuovo osso è stato mantenuto per almeno 5-7 anni con conseguente aumento sostanziale della forza femorale stimata.

Scopo dello studio

Lo studio – il primo effettuato sull’uomo – ha valutato fattibilità, sicurezza e risposta in vivo al trattamento di femori prossimali di donne osteoporotiche in postmenopausa con una procedura di osteo-enhancement locale minimamente invasiva (LOEP) per iniettare un materiale osteoconduttivo riassorbibile (AGN1).

Sono quindi stati valutati:

  1. sicurezza iniziale e a lungo termine del trattamento del femore prossimale con AGN1 LOEP;
  2. velocità ed estensione del riassorbimento e della sostituzione di AGN1 con nuovo osso nel femore prossimale
  3. cambiamenti iniziali e a lungo termine nella BMD prossimale del femore e forza dopo l’impianto di AGN1.

Metodi

Lo studio prospettico di coorte ha arruolato 12 donne osteoporotiche (T-score del collo del femore ≤-2,5) in postmenopausa, con età compresa tra 56 e 89 anni. AGN1 LOEP è stato eseguito sul femore sinistro, il femore destro erano non è stato trattato e utilizzato per confronto. I soggetti sono stati seguiti per 5-7 anni. Gli outcome hanno incluso eventi avversi, densità minerale ossea areale del femore prossimale (aBMD), riassorbimento di AGN1 e sostituzione con nuovo osso mediante radiografia e tomografia computerizzata (TC) e forza dell’anca stimata con analisi agli elementi finiti (FEA).

Risultati

L’aBMD del collo femorale trattato e di controllo al basale era equivalente. L’aBMD del collo femorale trattato è aumentato rispettivamente del 68 ± 22%, 59 ± 24% e 58 ± 27% rispetto al controllo a 12 e 24 settimane e 5-7 anni,  (p<0,001, a tutti i controlli temporali). Utilizzando ipotesi conservative, la forza femorale stimata dalla FEA è aumentata rispettivamente del 41%, 37% e 22% a 12 e 24 settimane e 5-7 anni (p<0,01, tutti i controlli temporali).

L’analisi qualitativa delle radiografie e delle scansioni TC ha dimostrato che il riassorbimento e la sostituzione dell’AGN1 con l’osso erano quasi completi entro 24 settimane. Entro 5-7 anni, l’AGN1 sembrava essere completamente riassorbito e sostituito con l’osso trabecolare e corticale circostante.

Non si sono verificati eventi avversi gravi a seguito della procedura eseguita o del dispositivo utilizzato.

Conclusioni

Il trattamento dei femori di donne osteoporotiche in postmenopausa con AGN1 LOEP comporta un aumento rapido e duraturo della aBMD e della forza femorale.

Questi risultati supportano l’uso e incoraggiono l’ulteriore studio clinico di questo approccio in pazienti osteoporotici ad alto rischio di frattura dell’anca.

Lo studio

Howe, J., Hill, R., Stroncek, J. et al. Treatment of bone loss in proximal femurs of postmenopausal osteoporotic women with AGN1 local osteo-enhancement procedure (LOEP) increases hip bone mineral density and hip strength: a long-term prospective cohort study. Osteoporos Int (2019)

 

Osteoporosi nell’anoressia nervosa grave. Un caso di studio

Nelle pazienti con anoressia nervosa (AN), l’osteoporosi rappresenta una complicanza comune e grave, che normalmente persiste anche dopo il recupero del peso e la ripresa del ciclo mestruale regolare. La condizione può causare dolore, lesioni e disabilità significativi.

Un gruppo di ricercatori del Colorado ha pubblicato il caso di un completo ritorno alla normale densità ossea dopo molti anni di grave osteoporosi in una paziente gravemente malnutrita con anoressia nervosa. Gli autori riferiscono di non conoscere altre pubblicazioni che riportano casi analoghi.

Osteoporosi e anoressia nervosa

La perdita ossea nei pazienti con AN è multifattoriale: è il risultato di uno squilibrio di ormoni sessuali e di altri fattori endocrini nonché degli effetti diretti della denutrizione. La perdita di densità minerale ossea (BMD) si verifica rapidamente, spesso entro sei mesi dall’esordio della malattia [1] e persiste anche dopo il recupero del peso [2]. Cause specifiche di bassa BMD nell’AN, nonostante la giovane età tipica dei pazienti con AN, comprendono ipoestrogenismo, ipoandrogenismo, malnutrizione, ridotta massa corporea magra e ipercortisolemia. Inoltre, nei pazienti con AN, nonostante i livelli elevati di ormone della crescita (GH), il fattore di crescita insulino-simile 1 (IGF-1) è ridotto, a causa di uno stato acquisito resistente al GH. Un ruolo può essere svolto anche dall’aumento dei livelli  di grelina e peptide AA [3, 4].

Gli autori della pubblicazione dichiarano di non essere a conoscenza di segnalazioni di casi che descrivono il trattamento terapeutico per l’osteoporosi completamente efficace e che testimoniano l’inversione dell’osteoporosi grave in pazienti con AN grave; ritengono quindi di interesse riportare il caso di una paziente con anoressia nervosa grave diagnosticata in età pre-adolescenziale e con osteoporosi che, dopo vent’anni, ha raggiunto un ritorno alla normale densità ossea.

Questo caso clinico può facilitare ulteriori ricerche sull’utilità tempestiva dell’utilizzo di teriparatide e di altri farmaci nel trattamento di casi di AN grave con osteoporosi.

Un caso di ripristino della normale densità ossea

Il caso si riferisce a una donna di 27 anni con una storia di 17 anni di AN grave, a cui a era stata diagnosticata per la prima volta l’osteoporosi all’età di 14 anni. Il disturbo alimentare aveva avuto esordio all’età di 10 anni quando, a seguito di un episodio di intossicazione alimentare acuta, aveva iniziato per la prima volta a seguire una dieta restrittiva e ad avere comportamenti compulsivi. Da quel momento, è stata ricoverata in ospedale quasi 100 volte e ha ricevuto cure specialistiche per il trattamento di disordini alimentari in regime di ricovero ospedaliero e residenziale per periodi variabili da alcune settimane a diversi mesi. Il peso più basso raggiunto dalla paziente in età adulta è stato di 19,5 kg (162 cm di altezza, BMI 7,4) e il più alto di 50,8 kg (BMI 19,2).

L’osteoporosi era stata diagnosticata per la prima volta nell’anca e nella colonna vertebrale all’età di 14 anni. Da quel momento, la paziente è stata sottoposta a scansioni per valutare la densità ossea (DXA) ogni 1-2 anni, mostrando un peggioramento della densità ossea fino all’età di 25 anni, nonostante le terapie seguite: tra i 15 e i 17 anni ha assunto 1000 mg di supplementazione di carbonato di calcio; a 18 anni ha iniziato il trattamento settimanale con sodio alendronato che è stato sospeso dopo tre mesi perché causa di nausea; tra i 19 e i 22 anni, la paziente ha ricevuto un trattamento annuale con acido zolendronico IV con continuo declino della densità minerale ossea.

La paziente non ha mai avuto menarca spontaneo. Ha iniziato l’associazione di pillole anticoncezionali orali (drospirenone 3 mg ed etinilestradiolo 0,02 mg) tra i 19 e i 22 anni. Dall’età di 23 anni, la paziente ha utilizzato cerotti estradiolici transdermici bisettimanali (0,075 mg/die) e ha assunto 200 mg di progesterone micronizzato bioidentico per i primi 12 giorni di ogni mese. Ha mestruato regolarmente ogni mese dall’inizio del trattamento con estradiolo transdermico e progesterone.

All’età di 23 anni, la paziente ha iniziato un programma di strength conditioning bisettimanale con sessioni della durata di circa 45 minuti. Ha eliminato la caffeina dalla dieta e consumato ogni giorno un quantitativo di calcio adeguato attraverso una combinazione di dieta e integrazione. In quel momento, il livello di vitamina D-25OH della paziente era di a 19 nmol/l e mostrava una risposta minima all’integrazione fino a quando non le sono state somministrate dosi settimanali di 50.000 UI di vitamina D per sei settimane. La paziente ha quindi mantenuto i livelli di vitamina D tra 40 e 50 nmol/l assumendo 10.000 UI di vitamina D al giorno.

All’età di 23 anni, la paziente ha subito una frattura spontanea del quinto metatarso sinistro. Nonostante l’adesione alle raccomandazioni terapeutiche, sono state necessarie 12 settimane affinché la paziente potesse camminare di nuovo senza dolore. La paziente ha subito un’altra frattura un anno dopo nello stesso sito a causa delle camminate eccessive e del jogging.

Nel luglio 2015 e nel dicembre 2015, rispettivamente all’età di 24 anni e poco dopo il suo venticinquesimo compleanno, la paziente ha assunto denosumab. Il suo peso a quel tempo variava tra 24 e 35 kg (BMI 8,9–13,4). In quell’anno la sua scansione DXA ha fatto registrare i  primi miglioramenti nella densità minerale ossea (punteggi T tra -2,3 e -1,2) da quando le era stata diagnosticata l’osteoporosi.

Nel maggio 2016, la paziente ha avuto una frattura spontanea della prima costola che è stata diagnosticata per coincidenza durante l’esecuzione di una radiografia per una spalla lussata. Un anno dopo, a giugno 2016, la paziente ha anche iniziato un ciclo di trattamento di iniezioni giornaliere di teriparatide che è continuato per due anni. I risultati della scansione DXA ottenuti a dicembre 2016 stati i seguenti:

Sito

BMD (g/cm2)

T-score (STD)

Z-score (STD)

L1-L4

0,962

−1,8

− 1,0

Collo del femore sinistro

0,881

−1,1

−0,6

Totale femore sinistro

0,814

−1,5

−0,9

Collo del femore destro

0,909

−0,9

−0,4

Totale femore destro

0,814

−1,5

−0,9

 

Durante il trattamento quotidiano con teriparatide, il peso della paziente variava tra 26 e 38 kg (BMI 10,0-14,4) e non ha mostrato effetti collaterali durante o dopo questo ciclo di trattamento.

I risultati della scansione DXA più recenti della paziente, risalenti all’agosto 2018, hanno mostrato valori di densità ossea nell’intervallo normale per età e sesso:

Sito

BMD (g/cm2)

T-score (STD)

Z-score (STD)

L1-L4

1,019

−1,3

− 0,3

Collo del femore sinistro

0,934

−0,8

−0,0

Totale femore sinistro

0,881

−1,0

−0,2

Collo del femore destro

0,934

−0,7

−0,0

Totale femore destro

0,867

−1,1

−0,3

In particolare, il femore sinistro ha mostrato un aumento di densità ossea di 0,067 g/cm2, con una variazione dell’8,2%. Il femore destro ha mostrato un aumento di densità di 0,053 g/cm2, con una variazione del 6,5%.

Una speranza per pazienti anoressiche con osteoporosi

Al momento, non esiste una raccomandazione terapeutica standard per pazienti con anoressia grave che hanno l’osteoporosi. Il ripristino del peso e la ripresa delle mestruazioni rimangono i pilastri del trattamento. Tuttavia, uno studio longitudinale sugli adolescenti AN ha mostrato un impatto negativo duraturo sulla salute delle ossa anche dieci anni dopo la normalizzazione del peso corporeo [5]. Studi precedenti hanno anche riportato un aumento persistente e a lungo termine del rischio di fratture ossee molti anni dopo la diagnosi iniziale di AN [6]. Inoltre, data la natura spesso cronica e refrattaria della malattia e l’aumento del rischio di fratture a lungo termine in questa  popolazione giovane, il caso di cui sopra richiede ulteriori indagini sull’uso di denosumab e teriparatide in pazienti con AN che hanno osteoporosi.

Il caso di questa paziente sembra allinearsi con studi che suggeriscono che la teriparatide aumenta la BMD e diminuisce il rischio di frattura vertebrale e frattura dell’anca a causa dei suoi effetti anabolici sulla formazione di nuovo tessuto osseo [7]. Teriparatide ha anche dimostrato di aumentare la BMD della colonna vertebrale in pazienti con AN dopo soli 6 mesi di terapia [8].

Un caso clinico sull’uso di denosumab in una paziente osteoporotica con AN ha dimostrato un miglioramento della BMD anche con questo trattamento [9].

Questi risultati supportano anche i dati tratti dallo studio DATA a due anni [10] e gli esiti cumulativi a quattro anni dallo studio di estensione, DATA-Switch [11], che mostrano che la combinazione di teriparatide e denosumab ha sovraperformato entrambi i farmaci individualmente.

In sintesi, continuano a essere necessari e giustificati rigorosi studi controllati randomizzati per determinare l’efficacia di interventi – nuovi e tradizionali – per la gestione dell’osteoporosi nell’anoressia nervosa e in altre popolazioni, data l’elevata prevalenza di bassa BMD nella popolazione [12].

Questo caso clinico fornisce la speranza che un uso oculato dei farmaci e un attento e tempestivo monitoraggio della densità ossea possano portare a miglioramenti della salute delle ossa.

Il caso di studio

Anand, P., Mehler, P.S. Osteoporosis recovery in severe anorexia nervosa: a case reportJ Eat Disord 7, 38 (2019)

Riferimenti bibliografici

[1] Biller BM, Saxe V, Herzog DB, Rosenthal DI, Holzman S, Klibanski A. Mechanisms of osteoporosis in adult and adolescent women with anorexia nervosa. J Clin Endocrinol Metab. 1989;68:548–54.

[2] Rigotti NA, Neer RM, Skates SJ, et al. The clinical course of osteoporosis in anorexia nervosa: a longitudinal study of cortical bone mass. JAMA. 1991;265(9):1133–8.

[3] Misra M, Klibanski A. Anorexia nervosa and osteoporosis. Rev Endocr Metab Disord. 2006;7(1–2):91–9.

[4] Teng K. Premenopausal osteoporosis, an overlooked consequence of anorexia nervosa. Cleve Clin J Med. 2011;78(1):50–8.

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Consumo di cioccolato e salute delle ossa, quale correlazione?

Una revisione della letteratura, condotta da un gruppo di ricercatori della West Virginia University negli Stati Uniti e della Ryerson University canadese, ha analizzato le possibili relazioni tra il consumo di cioccolato, la perdita di massa ossea (BMD) e il conseguente rischio di osteoporosi.

Alcuni componenti del cioccolato, quali flavonoidi – che hanno proprietà antiossidanti e antifiammatorie – e minerali, suggerirebbero, infatti, un potenziale beneficio per la salute delle ossa, ma altre sostanze, come burro di cacao, zucchero e metilxatine potrebbero sortire effetto negativo.

I risultati sinora registrati dagli studi scientifici che hanno analizzato il ruolo del consumo di cioccolato sui marcatori ossei e sulla densità minerale ossea sono controversi. Ciò è dovuto probabilmente alla diversa composizione – e al conseguente differente contenuto di nutrienti e principi bioattivi – dei vari tipi di cioccolato considerati: quelli bianchi e al latte sono ricchi di zuccheri e poveri di flavonoidi e della maggior parte dei minerali, al contrario di quelli fondenti (45-85% di cacao), ricchi di flavonoidi e poveri di zucchero.

Consumo di cioccolato e rischio di osteoporsi

Dalla revisione emerge che gli studi condotti finora non mostrano effetti positivi sulla salute delle ossa correlati a consumo moderato di cioccolato nelle donne in postmenopausa. Sono invece gli adolescenti a godere il maggior beneficio dal consumo di cioccolato: in questa fascia di età all’assunzione di cioccolato è associata una maggior crescita ossea in senso longitudinale.

Nell’ottica di preservare la salute delle ossa, in base al contenuto di flavonoidi e minerali, la polvere di cacao non zuccherata sembra essere l’opzione migliore seguita dal cioccolato fondente con un contenuto elevato di cacao.

Determinare le raccomandazioni dietetiche per il consumo di cioccolato rispetto alla salute delle ossa è importante a causa della crescente popolarità del cioccolato, in particolare del cioccolato fondente, e di un previsto aumento del consumo suggerito da studi che ne mostrano benefici per la salute contro varie malattie degenerative.

Lo studio

Seem SA, Yuan YV, Tou JC Chocolate and chocolate constituents influence bone health and osteoporosis risk Nutrition. 2019 Sep;65:74-84. Epub 2019 Feb 26

Bpco come fattore di rischio indipendente per osteoporosi e fratture

Un gruppo di ricercatori brasiliani dell’Universidade Federal e dell’Escola Paulista de Medicina di San Paolo ha efettuato uno studio caso-controllo per valutare la prevalenza di osteopenia, osteoporosi e fratture in pazienti con Bpco e ha identificato i potenziali fattori di rischio per le fratture in questa popolazione.

Metodi

91 pazienti con Bpco (gruppo Bpco) e 81 individui del gruppo di controllo (CG) corrispondenti per età e sesso sono stati valutati attraverso misurazione della densità minerale ossea, radiografie della colonna toraco-lombare, livelli di PTH e di vitamina D-25OH (25[OH]D). La presenza di fratture precedenti è stata recuperata dalla storia clinica dei pazienti.

Risultati

La prevalenza delle fratture totali nel gruppo Bpco è stata del 57,1% (probabilità di frattura 4,7 volte maggiore rispetto al gruppo di controllo) e il T-score del collo del femore si è dimostrato il miglior predittore di fatture. Rispetto al CG, il gruppo Bpco presentava livelli più bassi di BMD della colonna vertebrale e del femore (p≤0,01) e di 25[OH]D (p=0,01) e probabilità di osteoporosi 2,6 volte maggiori.

Tra gli uomini, le fratture vertebrali erano prevalenti nel gruppo Bpco rispetto al CG (25,9% vs. 6,5%, rispettivamente, p=0,01). Le probabilità di frattura sono aumentate, con T-score del collo del femore ≤-2,7 nel CG e ≤-0,6 nel gruppo Bpco.

Conclusioni

I risultati ottenuti hanno aggiunto solide prove a dimostrazione di un aumento delle probabilità di osteoporosi e fratture in pazienti con Bpco.

Le fratture nel gruppo Bpco si sono verificate con valori di BMD più elevati del previsto, suggerendo che la Bpco può essere un marker indipendente del rischio di fratture

I risultati confermano la necessità di effettuare uno screening regolare dell’osteoporosi con misurazione della BMD e la profilassi delle fratture nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva.

Lo studio

M.G. Adas-Okuma, S.S. Maeda, M.R. Gazzotti, C.M. Roco, C.O. Pradella, O.A. Nascimento, E.F. Porto, J.G.H. Vieira, J.R. Jardim, M. Lazaretti-Castro COPD as an independent risk factor for osteoporosis and fractures, Osteoporosis International, 6 dicembre 2019

 

Associazione tra assunzione di selenio nella dieta e prevalenza di osteoporosi

L’eziologia dell’osteoporosi è multifattoriale e, tra le eziologie già note, si ritiene che i fattori dietetici abbiano una grande importanza. Tuttavia, la maggior parte degli studi esistenti si concentra sull’assunzione di calcio, mentre sono raramente studiati altri fattori dietetici, in particolare gli oligoelementi, che possono anche svolgere un ruolo significativo nella prevenzione dell’osteoporosi (OP) [1].

Il selenio (Se) è un oligoelemento essenziale per l’essere umano: una carenza di Se può portare a un aumento dei livelli intracellulari di specie reattive dell’ossigeno (ROS), considerati causa prossimale nella patogenesi dell’OP [2].

Diversi studi sull’uomo che hanno analizzato l’associazione tra concentrazione di Se e BMD o frattura dell’anca osteoporotica, ma i risultati sono inconcludenti, inoltre la maggior parte degli studi si è focalizzata sulla concentrazione di Se nel sangue piuttosto che sull’assunzione di Se nella dieta.

Per colmare questa lacuna di conoscenza, è stato condotto uno studio trasversale su un ampio campione per valutare l’associazione tra l’assunzione di Se con la dieta e la prevalenza di OP in una popolazione cinese di mezza età e anziana.

Assunzione di selenio e prevalenza di osteoporosi

Un gruppo di ricercatori della Central South University di Changsha in China ha esaminato la correlazione tra l’assunzione di selenio con la dieta (Se) e la prevalenza di osteoporosi (OP) nella popolazione di mezza età e anziana in Cina.

I dati dello studio pubblicato su BMC Musculoskeletal Disorders sono stati raccolti da uno studio trasversale sulla popolazione condotto presso l’Health Management Centre dell’ospedale Xiangya.

Metodi

L’assunzione di Se attraverso la dieta è stata valutata usando un questionario semiquantitativo di frequenza alimentare validato. L’osteoporosi è stata diagnosticata sulla base di scansioni della densità minerale ossea utilizzando un sistema compatto di assorbimetria radiografica. La correlazione tra l’assunzione di Se nella dieta e la prevalenza di OP è stata principalmente esaminata attraverso un modello di regressione logistica multivariabile.

Risultati

Lo studio trasversale ha incluso un totale di 6.267 soggetti di età pari o superiore a 40 anni (età media: 52,2 ± 7,4 anni; 42% donne) e la prevalenza di OP tra i soggetti inclusi è stata del 9,6% (2,3% negli uomini e 19,7% nelle donne).

Rispetto al quartile più basso, che ha assunto con la dieta mediamente 22,8 μg/day di Se, il secondo quartile (assunzione di Se media 34,8 μg/day) ha avuto rapporti di probabilità (odds ratio OR) – dopo aggiustamento per assunzione di calorie, età, sesso e indice di massa corporea (BMI) – di OP pari a 0,72 (intervallo di confidenza al 95% CI 0,55-0,94), il terzo quartile (assunzione di Se media 45,0 μg/day) 0,72 (IC al 95% 0,51-1,01), il quarto quartile (assunzione di Se media 63,4 μg/day) 0,47 (IC 95% 0,31-0,73), con P per tendenza = 0,001.

I risultati sono rimasti coerenti in soggetti maschi e femmine.

L’aggiustamento per ulteriori potenziali fattori confondenti (ad es. fumo, stato di consumo, livello di attività fisica, assunzione di integratori alimentari, diabete, ipertensione, apporto di fibre e apporto di calcio) non ha comportato cambiamenti sostanziali nei risultati.

Inoltre è stata osservata una correlazione negativa tra l’assunzione di Se nella dieta e l’OR per OP, con una relazione dose-risposta.

Conclusioni

In soggetti di età pari o superiore ai quarant’anni, livelli più bassi di assunzione di selenio attraverso la dieta corrispondono a una maggiore prevalenza di OP con una correlazione dose-risposta.

Lo studio

Wang Y, Xie D, Li J, Long H, Wu J, Wu Z, He H, Wang H, Yang T, Wang Y Association between Dietary Selenium Intake and the Prevalence of Osteoporosis: A Cross-Sectional Study. BMC, 22 nov 2019.

Bibliografia

  1. Zofkova I, Nemcikova P, Matucha P Trace elements and bone health. Clin Chem Lab Med 2013, 51(8):1555-1561.
  2. Manolagas SC From estrogen-centric to aging and oxidative stress: a revised perspective of the pathogenesis of osteoporosis. Endocr Rev2010, 31(3):266-300

Correlazione tra durata del sonno e rischio di osteoporosi in donne in postmenopausa

È noto che dormire meno di sette ore per notte può causare problemi alla salute, ma l’associazione tra sonno e salute delle ossa non è ancora nota.

Un team di ricercatori dell’Università di Buffalo, New York, ha condotto uno studio su 11.084 donne in postmenopausa aderenti al programma Women’s Health Initiative (età media 63,3 anni, DS = 7,4) per verificare le associazioni tra comportamento normale del sonno e densità minerale ossea (BMD) e osteoporosi. I risultati dello studio sono stati riportati in un articolo pubblicato sul Journal of Bone and Mineral Research.

La Women’s Health Initiative (WHI) ha arruolato 161.808 donne in postmenopausa di età compresa tra 50 e 79 anni in 40 centri clinici per studi clinici e uno studio osservazionale. Lo studio si è concentrato sulla coorte WHI DXA: un gruppo di donne per le quali è stata misurata l’assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA) in uno dei tre centri clinici (Pittsburgh, Pennsylvania, Birmingham, Alabama, Tucson / Phoenix, Arizona). Circa 11.323 donne hanno avuto una scansione DXA completa alla visita di base WHI. Dopo aver escluso 239 donne con dati sul sonno incompleti, il campione finale esamitanto è stato di 11.084 donne.

È stato condotto uno studio studio trasversale (crosssectional) sull’associazione tra le ore consuete dichiarate di sonno e la qualità del sonno con i valori di BMD osservata in tutto il corpo, a livello dell’anca, del collo del femore e della colonna vertebrale usando modelli di regressione lineare.

È stata inoltre indagata, mediante assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA), la relazione tra durata e qualità del sonno e bassa densità minerale ossea (T-score da −2,5 a <−1) e osteoporosi (T-score ≤ −2,5), usando modelli di regressione multinomiale.

I risultati sono stati adattati per età, macchina DXA usata, razza, sintomi della menopausa, educazione, fumo, indice di massa corporea, uso di alcol, movimento fisico e uso di farmaci per il sonno. Nei modelli di regressione lineare adattati, le donne che hanno riferito di dormire cinque ore o meno a notte hanno fatto registrare valori di BMD mediamente inferiori da 0,012 a 0,018 g/cm2 in tutti e quattro i siti indagati rispetto alle donne che hanno riferito di dormire sette ore a notte (riferimento).

Nei modelli multinomiali adattati, le donne che hanno riferito di dormire cinque ore o meno a notte avevano probabilità più alte di avere bassa densità minerale ossea e osteoporosi a livello dell’anca (odds ratio [OR] = 1,22; intervallo di confidenza al 95% [CI] 1,03–1,45 e 1,63; 1,15– 2,31, rispettivamente). Sono stati rilevati risultati simili relativamente ai valori di BMD registrati a livello della colonna vertebrale: donne con cinque ore o meno di sonno a notte avevano probabilità più elevate di osteoporosi (aggiustamento OR = 1,28; IC 95% 1,02–1,60).

Per confermare gli effetti trasversali della durata del sonno sulla salute delle ossa ed esplorare i meccanismi associati, sono necessari studi longitudinali.

Sonno e salute

Il sonno è un processo biologico fondamentale che svolge un ruolo chiave in una varietà di funzioni metaboliche ed endocrine [1]. Il cattivo sonno è collegato a una vasta gamma di condizioni di salute avverse, tra cui obesità, diabete [2], ipertensione, malattie cardiovascolari [3] e mortalità [4].

La bassa densità ossea e le fratture osteoporotiche sono manifestazioni comuni dell’invecchiamento e associate entrambe a maggiori rischi di morbilità e mortalità. Circa una donna su tre di età pari o superiore a 50 anni subirà una frattura nel corso della sua vita.

SCARICA IL REPORT “BONE CARE FOR THE POSTMENOPAUSAL WOMAN”

I ricercatori hanno considerato che non esistevano molti  studi di grandi dimensioni sull’associazione tra salute del sonno e salute delle ossa, comprese le misurazioni della densità minerale ossea e il rischio di osteoporosi e hanno valutato che, poiché l’invecchiamento è associato a cambiamenti nel riassorbimento osseo e nella formazione ossea, sarebbe stato opportuno condurre studi epidemiologici ampi su donne in postmenopausa che presentano il più alto rischio di fratture.

Lo studio per valutare se il comportamento del sonno è anche associato a una bassa densità minerale ossea (BMD) si è basato su un lavoro precedente in cui i ricercatori avevano identificato un’associazione tra un sonno breve o lungo e disturbato con cadute e fratture ricorrenti [5] .

L’obiettivo dello studio era quindi di esaminare l’associazione della durata e della qualità del sonno con la BMD in più siti del corpo e la prevalenza di osteopenia e osteoporosi.

Sonno e osteoporosi

Nel più grande studio condotto finora sul sonno e sulla BMD in un campione di donne in postmenopausa negli Stati Uniti, i risultati indicano che nelle donne adulte anziane un sonno di breve durata è associato a BMD inferiore in più siti del corpo, sebbene con modesta rilevanza clinica. In particolare, le donne che hanno dormito per cinque ore o meno avevano probabilità più elevate di bassa massa ossea e osteoporosi dell’anca e di tutto il corpo.

In sintesi, lo studio ha fornito prove epidemiologiche sul sonno come fattore di rischio parzialmente modificabile per la BMD che merita ulteriori repliche e studi meccanicistici.

Sono necessari studi prospettici per valutare se la durata del sonno è associata alla perdita di BMD e gli effetti a breve e lungo termine di cattiva gestione del sonno sulla salute delle ossa. Se gli studi dimostrano che la durata del sonno ha un nesso causale con la densità ossea, gli interventi di promozione del sonno possono essere utili per mitigare la perdita ossea in soggetti ad alto rischio di osteoporosi.

Lo studio

H M Ochs‐Balcom, K M Hovey, C Andrews, J A Cauley, L Hale et al Short Sleep Is Associated With Low Bone Mineral Density and Osteoporosis in the Women’s Health InitiativeJbmr, 2019 https://doi.org/10.1002/jbmr.3879

Bibliografia

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Trattamento anti-interleuchina-1 in pazienti con artrite reumatoide e diabete di tipo 2

Negli ultimi due decenni, l’introduzione di farmaci biologici antireumatici modificanti la malattia (bDMARD) associati a un approccio treat-to-target ha migliorato notevolmente la gestione dell’artrite reumatoide (RA) [Biologics for rheumatoid arthritis: an overview of Cochrane reviews]; tuttavia, nonostante la significativa riduzione dei danni strutturali articolari, diversi studi hanno dimostrato che gli eventi cardiovascolari (CV) stanno emergendo come la principale causa di morte in questi pazienti, sottolineando così la stretta associazione tra RA e malattia CV (CVD) [Cardiovascular comorbidity in rheumatic diseases].

Per quanto riguarda il ruolo dei tradizionali fattori di rischio CV nella RA, è stata evidenziata un’aumentata associazione tra RA e il metabolismo anomalo del glucosio, ciò che spiega l’elevata prevalenza di diabete di tipo 2 (T2D) e di insulino-resistenza (IR) in questi pazienti [Prevalence of type 2 diabetes and impaired fasting glucose in patients affected by rheumatoid arthritis].

L’interleuchina-1β (IL-1β), IL-6 e il fattore di necrosi tumorale (TNF), che sono coinvolti nella patogenesi della RA, possono anche svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’IR [Targeting inflammation in the treatment of type 2 diabetes: time to start].

È interessante notare che l’aumento dei livelli di glucosio stressa le isole pancreatiche e i tessuti sensibili all’insulina, portando all’iperproduzione di IL-β. Questo IL-1β sovraespresso contribuisce alla patogenesi del T2D, causando disfunzione e apoptosi delle cellule β, con conseguente riduzione della produzione di insulina.  Inoltre, IL-1β potrebbe inibire direttamente la secrezione di insulina stimolata dal glucosio e innescare la via intrinseca apoptotica mitocondriale nelle cellule β.

La recente conoscenza del contributo dei processi infiammatori alla patogenesi del T2D ha suggerito nuove strategie terapeutiche antidiabetiche in cui i bDMARD, che sono comunemente usati nel trattamento della RA, possono essere efficaci nel migliorare le anomalie del glucosio. Tuttavia, nonostante il crescente numero di prove provenienti da studi preclinici e clinici che confermano il ruolo del targeting per citochine infiammatorie nel miglioramento degli esiti clinici e di laboratorio nei pazienti T2D, nessuno studio clinico specificamente progettato per valutare l’esito glicemico in pazienti con RA e T2D è stato finora pianificato [Anti-interleukin-1 treatment in patients with rheumatoid arthritis and type 2 diabetes (TRACK): A multicentre, open-label, randomised controlled trial].

Basandosi sull’approccio treat-to-target che accomuna RA e T2D, l’individuazione di un singolo trattamento che controlla entrambe queste malattie sembra essere una scelta promettente per migliorare la gestione dei pazienti con RA e T2D [IL-1β at the crossroad between rheumatoid arthritis and type 2 diabetes: may we kill two birds with one stone?]. L’aderenza alla terapia è infatti inversamente proporzione al numero di farmaci assunti dai pazienti in politerapia e ogni singola strategia terapeutica che tratta contemporaneamente due malattie diverse può anche aiutare i decisori delle politiche sanitarie a ottimizzare i costi mantenendo la qualità dei trattamenti.

A partire da queste considerazioni, per verificare se l’inibizione dell’IL-1 con anakinra potesse indurre il miglioramento dei parametri glicemici e infiammatori nei partecipanti con RA e T2D, rispetto ai partecipanti trattati con un inibitore del TNF (TNFi), ricercatori coordinati dalla Cattedra di Reumatologia del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze Cliniche Applicate dell’Università de L’Aquila hanno condotto uno studio multicentrico, randomizzato, in aperto, prospettico, controllato, a gruppi paralleli. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS Medicine Anti-interleukin-1 treatment in patients with rheumatoid arthritis and type 2 diabetes (TRACK). A multicentre, open-label, randomised controlled trial.

Metodi e risultati

Lo studio multicentrico, open-label, randomizzato ha coinvolto e seguito per sei mesi (tra il 2013 e il 2016) 41 pazienti con RA e T2D in 12 unità reumatologiche italiane. I partecipanti sono stati trattati con anakinra o con un TNFi (come ad es. adalimumab, certolizumab pegol, etanercept, infliximab o golimumab) e l’end point primario era la variazione della percentuale di emoglobina glicata (HbA1c%) (EudraCT: 2012-005370-62 ClinicalTrial.gov: NCT02236481).

In totale, sono stati randomizzati 41 partecipanti con RA e T2D e ne sono stati trattati 39 ammissibili (età 62,72 ± 9,97 anni; 74,4% sesso femminile). La maggior parte dei partecipanti era affetta da artrite reumatoide sieropositiva (fattore reumatoide e/o anticorpi anti peptide ciclico citrullinato [ACPA] 70,2%) con malattia attiva (Disease Activity Score-28 [DAS28]: 5,54 ± 1,03; proteina C reattiva 11,84 ± 9,67 mg/L, rispettivamente). Tutti i partecipanti avevano T2D (HbA1c%: 7,77 ± 0,70; glicemia a digiuno: 139,13 ± 42,17 mg).

Dopo i primi sei mesi di follow-up, l’importante differenza nel raggiungimento dell’end point principale – confermato da un’analisi ad hoc non pianificata che ha mostrato la superiorità di anakinra rispetto agli altri TNFis – ha portato a fermare lo studio per beneficio anticipato.

I partecipanti al gruppo anakinra hanno avuto una riduzione significativa dell’HbA1c%, in un modello misto lineare non aggiustato, dopo tre mesi (β:−0,85; p<0,001; IC al 95% da −1,28 a −0,42) e dopo sei mesi (β:−1,05; p<0,001; IC al 95% da −1,50 a −0,59). Risultati simili sono stati osservati modificando il modello per rilevanti confonditori clinici di RA e T2D (sesso maschile, età, positività ACPA, uso di corticosteroidi, durata della RA, durata T2D, uso di un farmaco antidiabetico orale, indice di massa corporea [BMI]) dopo tre mesi (β:−1,04; p<0,001; IC al 95% da −1,52 a −0,55) e dopo sei mesi (β:−1,24; p<0,001; IC al 95% da −1,75 a −0,72). I partecipanti al gruppo TNFi hanno avuto una leggera riduzione non significativa dell’HbA1c%. Supponendo che la soglia di successo sia HbA1c% ≤ 7, è stata considerata una riduzione del rischio assoluto (ARR) = 0,42 (tasso di eventi sperimentali = 0,54; tasso di eventi di controllo = 0,12); pertanto, è stato stimato, arrotondando per eccesso, un numero necessario per il trattamento (NNT) = 3.

Per quanto riguarda la RA, è stata osservata una riduzione progressiva dell’attività della malattia in entrambi i gruppi.

Non sono stati osservati eventi avversi gravi, episodi ipoglicemici o decessi. Reazioni locali nel sito di iniezione hanno portato alla sospensione di 4 (18%) partecipanti trattati con anakinra. Inoltre, sono state osservate infezioni non gravi, tra cui influenza, rinofaringite, infezione del tratto respiratorio superiore, infezione del tratto urinario e diarrea in entrambi i gruppi.

Interruzione per beneficio precoce

Inaspettatamente, l’ipotesi di studio è stata dimostrata prima della fine dello studio, con una maggior percentuale di partecipanti trattati con anakinra che hanno soddisfatto l’end point primario (variazione dei livelli di HbA1c% tra la baseline e le visite successive, con differenza assoluta tra i due bracci valutata significativa, in accordo con la letteratura, se pari allo 0,25%) rispetto ai partecipanti trattati con TNFi.

I risultati suggeriscono che l’inibizione dell’IL-1 da parte di anakinra può consentire il targeting terapeutico di entrambi i disturbi e l’uso di un singolo agente può aiutare nella gestione delle malattie infiammatorie e metaboliche.

Nei partecipanti trattati con anakinra è stata osservata una significativa riduzione di HbA1c%, che suggerisce l’efficacia metabolica dell’inibizione dell’IL-1. I risultati sono in linea con quelli di un precedente studio [Interleukin-1–Receptor Antagonist in Type 2 Diabetes Mellitus] in quanto i partecipanti al T2D trattati con anakinra hanno mostrato una diminuzione di HbA1c e del rapporto tra proinsulina e insulina. È interessante notare che l’estensione di questo studio ha dimostrato che questo miglioramento dei parametri glicemici era ancora presente 39 settimane dopo l’interruzione di anakinra, confermando che anakinra è in grado di migliorare la secrezione di insulina. Inoltre, confrontando i risultati dello studio in oggetto con il precedente studio su T2D [Interleukin-1–Receptor Antagonist in Type 2 Diabetes Mellitus], è stata osservata una riduzione più evidente dell’HbA1c%, suggerendo che i meccanismi patogeni infiammatori di T2D potrebbero essere esagerati nel contesto della RA. In effetti, è stata osservata una correlazione significativa tra i livelli decrescenti di HbA1c% e la riduzione dell’attività della malattia. Al contrario, la terapia con anakinra non ha mostrato alcun effetto nei partecipanti con diabete di tipo 1 (T1D), probabilmente perché l’insulite pancreatica nel T1D è principalmente guidata da un processo autoimmune-mediato, piuttosto che da un processo autoinfiammatorio, come suggerito in T2D, quindi non supporta i benefici dell’inibizione dell’IL-1 nel T1D. Infatti, durante il T2D, i livelli eccessivi di nutrienti, tra cui glucosio e acidi grassi liberi, stressano le isole pancreatiche e i tessuti sensibili all’insulina, portando all’iperproduzione di IL-β tramite l’attivazione inflammasoma NLRP3, un sensore di pericolo metabolico. Inoltre, alte concentrazioni di glucosio inducono la sovraespressione del recettore FAS proapoptotico sulle cellule β. Di conseguenza, IL-1β e FAS possono contribuire, da un lato, alla compromissione indotta dal glucosio della funzione secretoria delle cellule β e, dall’altro, può portare all’apoptosi delle cellule β.

In questo studio, nei partecipanti trattati con anakinra, parallelamente alla riduzione dell’HbA1c%, è stata osservata una riduzione di FPG (fasting plasma glucose). Nonostante il miglioramento dell’HbA1c% e dell’FPG nei partecipanti trattati con anakinra, non è stata osservata ipoglicemia sintomatica. In effetti, le limitazioni dei trattamenti antidiabetici, come l’insulina e le sulfoniluree, possono includere l’insorgenza di ipoglicemia sintomatica imprevedibile. Al contrario, è stato suggerito che, a seguito del miglioramento della funzione delle cellule β, usando l’antagonismo dell’IL-1, queste cellule dovrebbero rilasciare quantità adeguate di insulina dopo la stimolazione metabolica, riducendo così il rischio di ipoglicemia. Infine, il BMI (body mass index) dei partecipanti è rimasto stabile, escludendo così la possibilità che il miglioramento dei parametri metabolici possa essere associato a un effetto anoressigenico di anakinra.

Per quanto riguarda il trattamento con TNFi, durante il follow-up non è stato osservato un effetto statisticamente significativo sull’HbA1c%. Nonostante l’evidenza sperimentale suggerisca un possibile ruolo del TNF nella regolazione della produzione e della funzione dell’insulina, la traduzione dagli studi di base al contesto clinico non è riuscita a confermare un ruolo del TNFi nel trattamento del T2D umano.

In base a questi risultati, è stato deciso, con l’ulteriore supporto di diverse evidenze statistiche, di interrompere anticipatamente lo studio per motivi relativi all’efficacia.

Lo studio suggerisce che, nei pazienti con RA e T2D, anakinra potrebbe essere considerato un trattamento mirato, portando a un miglioramento dei parametri metabolici e dei segni infiammatori, adattando il trattamento medico alle caratteristiche individuali. Inoltre, considerando l’effetto confermato dell’inibizione dell’IL-1 nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, è possibile suggerire che l’inibizione dell’IL-1 possa ridurre l’incidenza del rischio cardiovascolare nella RA. I risultati del studio potrebbero anche aprire la strada a successivi studi di conferma che analizzano l’efficacia della strategia terapeutica mirata all’IL-1 nella RA con T2D.

Limitazioni dello studio

Lo studio presenta alcune limitazioni, dovute principalmente al design in aperto e a un’analisi ad interim non precedentemente pianificata, che è più soggetta a distorsioni rispetto a uno studio controllato in doppio cieco.

Inoltre, secondo il disegno dello studio e la legge italiana, erano consentiti solo test di routine consolidati per la gestione di T2D e/o CVD e non è stato quindi possibile pianificare alcune valutazioni, come il peptide C, il plasma endogeno insulina IL-1Ra, così come marcatori di laboratorio della disfunzione endoteliale, che sarebbero di interesse.

A causa del progetto di studio della “vita reale”, il risultato potrebbe essere stato influenzato dalla continuazione dell’utilizzo di altri farmaci, d’altra parte la randomizzazione al placebo dei partecipanti affetti da una malattia attiva, limitando il possibile beneficio di terapie standard ben note, avrebbe potuto sollevare alcuni problemi etici.

Dimostrando che l’end point primario è stato raggiunto solo nel gruppo anakinra, i risultati hanno mantenuto la loro rilevanza statistica nonostante il basso numero di pazienti arruolati, risolvendo parzialmente risolto il problema scientifico.

Conclusioni

Lo studio ha permesso di osservare un beneficio dell’inibizione dell’IL-1 nei partecipanti con AR e T2D, raggiungendo gli obiettivi terapeutici di entrambe le malattie.

I partecipanti trattati con anakinra hanno raggiunto l’end point primario (riduzione dell’HbA1c%) in pochissimo tempo. Nei partecipanti trattati con TNFi non è stata osservata una riduzione significativa dell’HbA1c% .

I risultati suggeriscono che l’inibizione dell’IL-1 può essere considerata un trattamento mirato per i pazienti con RA e T2D.

La gestione della malattia infiammatoria e della comorbilità metabolica da parte di un agente che inibisce l’IL-1 può comportare un conseguente impatto benefico sulla compliance dei partecipanti, sul loro rischio cardiovascolare generale (CV) e sull’onere dei costi sanitari.

Tuttavia, sono necessari altri studi – che potrebbero includere l’uso di anakinra in monoterapia – per valutare ulteriormente l’uso di inibitori dell’IL-1 in pazienti con AR e T2D e per valutare i risultati a lungo termine sulla malattia cardiovascolare.

Ruscitti P, Masedu F, Alvaro S, Airò P, Battafarano N, Cantarini L, et al. (2019) Anti-interleukin-1 treatment in patients with rheumatoid arthritis and type 2 diabetes (TRACK): A multicentre, open-label, randomised controlled trial. PLoS Med 16(9): e1002901.