venerdì, Luglio 4, 2025
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Romosozumab e Raloxifene contro la fragilità ossea nella DKD

Uno studio pubblicato a gennaio 2025 sulla rivista Bone dimostra che l’associazione di romosozumab e raloxifene offre un duplice beneficio—morfologico e meccanico—sullo scheletro di topi maschi affetti da nefropatia diabetica. Romosozumab incrementa la massa ossea, mentre raloxifene migliora le proprietà meccaniche a livello tissutale. I risultati aprono nuove prospettive per strategie terapeutiche combinate nei pazienti con diabete e insufficienza renale cronica, condizioni ad alto rischio di frattura e con patologie ossee complesse da trattare.

Un doppio colpo alla fragilità ossea nella nefropatia diabetica

La fragilità ossea nei pazienti con diabete e insufficienza renale cronica (CKD) rappresenta una sfida terapeutica complessa. Il mantenimento di una massa ossea apparentemente normale o persino aumentata nel diabete di tipo 2 non si traduce necessariamente in una protezione dal rischio di frattura, mentre la CKD è nota per alterare profondamente il turnover osseo e accelerare la perdita di qualità scheletrica. Affrontare simultaneamente entrambe le componenti—massa e qualità ossea—è essenziale in questo scenario.

Il team di ricerca della Purdue University ha dimostrato che la combinazione di romosozumab, anticorpo monoclonale anti-sclerostina ad azione anabolizzante, con raloxifene, modulatore selettivo del recettore estrogenico (SERM), migliora sia la quantità che la qualità ossea in un modello murino maschile di nefropatia diabetica.

Il modello murino di DKD: realismo preclinico

Il modello sperimentale adottato riproduce in modo fedele la coesistenza di diabete mellito e malattia renale cronica, ottenuta mediante somministrazione di streptozotocina (per indurre iperglicemia) seguita da dieta arricchita in adenina (per indurre danno renale). I topi sono stati successivamente trattati per quattro settimane con romosozumab, raloxifene, entrambi i farmaci, oppure placebo.

Le valutazioni hanno incluso analisi morfometriche mediante micro-CT, test biomeccanici su tibie e vertebre, dosaggi biochimici e analisi termogravimetriche per valutare l’idratazione ossea.

Romosozumab costruisce, raloxifene rifinisce

I dati mostrano che romosozumab esercita il suo noto effetto anabolizzante, incrementando significativamente la massa ossea sia corticale che trabecolare, soprattutto nel compartimento vertebrale e metafisario delle ossa lunghe. Parallelamente, raloxifene esercita un’azione più mirata sulla qualità tissutale: migliora le proprietà meccaniche intrinseche del tessuto osseo, come lo stress di snervamento e di rottura, senza modificare sensibilmente il volume.

La combinazione delle due molecole ha fornito i migliori risultati in assoluto, sia in termini di morfologia che di resistenza meccanica. In particolare, si è osservato un incremento additivo della densità minerale, della forza di compressione vertebrale e dello spessore corticale tibiale, con benefici sia a livello di struttura che di materiale.

Oltre la densità: la sfida della qualità ossea

Uno degli aspetti più rilevanti emersi dallo studio è la dissociazione tra incremento di massa ossea e miglioramento della qualità meccanica intrinseca. La sola romosozumab, pur aumentando significativamente il volume osseo, non migliora in modo paragonabile le proprietà tissutali, che invece risultano sensibilmente potenziate dalla presenza di raloxifene. Questo suggerisce un effetto sinergico in cui il nuovo tessuto generato sotto stimolo anabolizzante viene “qualitativamente rifinito” dal SERM.

Interessante anche il dato sull’incremento dell’idratazione ossea suggerito dai trend nella termogravimetria, anche se non statisticamente significativo, e la relativa indipendenza dagli accumuli di prodotti finali della glicazione avanzata (AGEs), che spesso vengono chiamati in causa nella fragilità diabetica.

Verso un nuovo paradigma terapeutico?

L’efficacia della combinazione RAL–Romo in un modello di malattia ossea complessa come la DKD pone le basi per nuove strategie terapeutiche anche nella pratica clinica. Mentre romosozumab è già approvato per l’osteoporosi post-menopausale ad alto rischio di frattura, e raloxifene mantiene un ruolo consolidato in pazienti selezionate, la loro combinazione potrebbe offrire un’opzione in pazienti con diabete e compromissione renale, per i quali le scelte attuali sono limitate e spesso subottimali.

Naturalmente, sono necessari studi clinici per confermare la sicurezza e l’efficacia di tale approccio in ambito umano, specie in pazienti con CKD avanzata o in dialisi. Tuttavia, i dati preclinici evidenziano come agire su massa e qualità ossea in modo simultaneo possa rappresentare la chiave per prevenire efficacemente le fratture in contesti ad alto rischio.

Lo studio offre una nuova prospettiva su come affrontare la fragilità scheletrica in condizioni complesse come la nefropatia diabetica. La combinazione di un agente anabolizzante come romosozumab e di un modulatore tissutale come raloxifene potrebbe rappresentare una strategia vincente, capace di rafforzare lo scheletro in termini sia quantitativi che qualitativi. Un approccio promettente, che merita di essere esplorato anche nell’uomo.

Lo studio

Rachel Kohler, Dyann M. Segvich, Olivia Reul, Corinne E. Metzger, Matthew R. Allen, Joseph M. Wallace, Combined Romosozumab and Raloxifene treatment targets impaired bone quality in a male murine model of diabetic kidney disease, Bone, Volume 194, 2025, 117415, ISSN 8756-3282.

Osteoporosi: conoscerla e prevenirla

L’osteoporosi è una condizione caratterizzata da una riduzione della densità minerale ossea e da un’alterazione della microarchitettura del tessuto osseo, che comportano un aumento del rischio di fratture. È una patologia silenziosa: spesso non dà sintomi fino alla comparsa della prima frattura, che può avere conseguenze serie sulla qualità della vita e sull’autonomia personale.

Che cos’è l’osteoporosi

L’osteoporosi si manifesta quando il processo naturale di rimodellamento osseo – che comporta la continua formazione e riassorbimento del tessuto – è sbilanciato a favore del riassorbimento. Questo porta a una perdita progressiva di massa ossea e a un indebolimento dello scheletro. È una condizione che può colpire uomini e donne, anche se è più frequente nelle donne dopo la menopausa, a causa del calo degli estrogeni.

Fattori di rischio

Numerosi fattori possono aumentare la probabilità di sviluppare l’osteoporosi. Oltre alla predisposizione genetica, influiscono lo stile di vita (sedentarietà, dieta povera di calcio e vitamina D, fumo, abuso di alcol), alcune malattie croniche (come l’artrite reumatoide o l’ipertiroidismo) e l’uso prolungato di farmaci come i cortisonici. Anche la magrezza eccessiva e la menopausa precoce sono elementi di rischio.

I sintomi da riconoscere

L’osteoporosi è nota come “ladra silenziosa” perché non dà sintomi evidenti fino a quando non provoca una frattura. Le più comuni sono le fratture vertebrali, del polso e del femore. Alcuni segni premonitori possono essere la perdita di statura, il mal di schiena persistente e la postura curva. Per questo motivo, è fondamentale fare prevenzione e sottoporsi a controlli regolari.

La prevenzione quotidiana

La prevenzione inizia con un’alimentazione equilibrata e ricca di calcio e vitamina D, fondamentali per la salute ossea. Il calcio si trova in latte e derivati, verdure a foglia verde, legumi e frutta secca. La vitamina D si assume attraverso il pesce, le uova e l’esposizione al sole. L’attività fisica regolare – come camminate, ginnastica dolce o yoga – rinforza le ossa e migliora l’equilibrio, riducendo il rischio di cadute.

L’importanza della diagnosi

Per valutare la salute delle ossa, il medico può prescrivere la densitometria ossea (MOC), un esame rapido e indolore che misura la densità minerale ossea. Se viene diagnosticata osteopenia o osteoporosi, il medico indicherà il percorso terapeutico più adatto, che può comprendere integratori, farmaci specifici e controlli periodici. Conoscere il proprio rischio e intervenire in tempo fa davvero la differenza.

L’osteoporosi non è un destino inevitabile. Con uno stile di vita sano e l’attenzione ai controlli, è possibile ridurre il rischio di fratture e mantenere una buona qualità della vita anche con l’avanzare dell’età.

Ossa forti, vita attiva

La salute delle ossa è un tema cruciale in ogni fase della vita. Le ossa non sono un tessuto inerte, ma una struttura viva e dinamica, costantemente rinnovata dal nostro corpo. Proteggere la salute ossea significa investire in qualità di vita e autonomia, riducendo i rischi legati all’osteoporosi e alle fratture da fragilità.

Perché la salute delle ossa conta

Fin dalla giovane età, le ossa costituiscono la “scaffalatura” che sorregge il nostro corpo e ne garantisce stabilità e movimento. Con l’invecchiamento, la densità ossea tende a diminuire, rendendo le ossa più fragili e predisposte a fratture, soprattutto in caso di cadute. Prevenire la perdita di massa ossea è fondamentale per mantenere uno stile di vita attivo e indipendente.

Il ruolo dell’alimentazione

Un’alimentazione ricca di calcio e vitamina D è indispensabile per la salute delle ossa. Il calcio, presente in alimenti come latte, formaggi, yogurt, verdure a foglia verde e legumi, rappresenta il principale costituente dello scheletro. La vitamina D, invece, favorisce l’assorbimento del calcio a livello intestinale e si assume attraverso la dieta (pesce azzurro, uova) e con una regolare esposizione al sole.

Non bisogna dimenticare che anche altri minerali e vitamine sono importanti: il magnesio, il fosforo, la vitamina K e le proteine giocano un ruolo significativo nel mantenere l’architettura ossea robusta e flessibile. Una dieta varia ed equilibrata, priva di eccessi e carenze, è quindi il primo passo per la salute dello scheletro.

Movimento e postura

L’attività fisica regolare è un alleato prezioso. Camminate, esercizi di resistenza, ginnastica dolce e attività come il tai chi stimolano il metabolismo osseo, migliorano la coordinazione e riducono il rischio di cadute. Il movimento aiuta anche a rafforzare i muscoli, che a loro volta sostengono le ossa e migliorano la stabilità complessiva del corpo.

La postura corretta è altrettanto importante: mantenere l’allineamento della colonna vertebrale durante le attività quotidiane contribuisce a evitare carichi eccessivi e microtraumi. Piccoli esercizi di stretching e di consapevolezza corporea, come quelli proposti nel pilates o nello yoga, possono fare la differenza.

Parla con il medico

Il dialogo con il medico è essenziale per valutare lo stato di salute delle ossa e pianificare interventi mirati. Controlli regolari, come la densitometria ossea (MOC), permettono di individuare eventuali segni di osteopenia o osteoporosi. In caso di familiarità o di fattori di rischio specifici – come menopausa precoce, uso prolungato di cortisonici o altre patologie croniche – il medico potrà consigliare integratori o terapie farmacologiche adeguate.

Il confronto con lo specialista offre inoltre l’opportunità di ricevere consigli personalizzati e aggiornati sulle nuove linee guida di prevenzione. La comunicazione aperta è il primo passo verso un percorso di cura consapevole e attento.

Un investimento per la vita

La salute delle ossa è un investimento che dura tutta la vita. La combinazione di una dieta equilibrata, di un’attività fisica regolare e di controlli medici puntuali è la chiave per mantenere ossa forti e prevenire le complicazioni più temute, come le fratture. Ricorda: ossa forti significano una vita attiva e piena di energia.

 

Verso una vera terapia sostitutiva per l’ipoparatiroidismo

L’ipoparatiroidismo cronico è una delle poche endocrinopatie in cui la terapia ormonale sostitutiva non è ancora una prassi clinica consolidata. Lo studio pubblicato da Palermo et al. esplora i limiti delle attuali opzioni terapeutiche con PTH ricombinante e presenta palopegteriparatide come la prima vera terapia sostitutiva, capace di migliorare non solo i parametri biochimici ma anche la qualità della vita e la funzione renale. Una nuova frontiera si apre nella gestione di questa complessa patologia.

Un disordine raro e le sue insidie terapeutiche

L’ipoparatiroidismo cronico (HypoPT), spesso conseguente a tiroidectomia chirurgica, si contraddistingue per un deficit persistente di paratormone (PTH) e una gestione clinica ancora ancorata all’uso di calcio e vitamina D attiva. Questo approccio, pur efficace nel correggere l’ipocalcemia, non ripristina la fisiologia ormonale né previene le complicanze renali o scheletriche, e impatta negativamente sulla qualità della vita dei pazienti.

La carenza di PTH determina uno stato di basso rimodellamento osseo, iperfosfatemia e ipercalciuria, con aumentato rischio di nefrocalcinosi e compromissione renale cronica. In questo scenario, l’introduzione di analoghi del PTH ha segnato un primo passo verso la terapia sostitutiva, ma con risultati contrastanti e limitazioni cliniche evidenti.

rhPTH (1–84): un’illusione terapeutica?

Il PTH (1–84) ricombinante umano, commercializzato come Natpara®, ha rappresentato una svolta parziale. Studi clinici come REPLACE ne hanno dimostrato la capacità di ridurre l’uso di supplementi e stabilizzare la calcemia, ma senza normalizzare la calciuria nelle 24 ore né garantire un miglioramento consistente della qualità della vita (QoL).

A queste incertezze si sono aggiunti problemi pratici: un richiamo del prodotto nel 2019 per contaminazione da particolato e l’annunciata cessazione della produzione da parte di Takeda entro fine 2024. La farmacocinetica di rhPTH (1–84), con una doppia fase di assorbimento e un’emivita di circa tre ore, non permette un’esposizione continua al recettore PTH1R, lasciando scoperti i pazienti nelle ore che precedono la successiva somministrazione.

Inoltre, studi istomorfometrici e di imaging ad alta risoluzione hanno rilevato un incremento della porosità corticale e una riduzione della densità ossea a livello dell’avambraccio. Sebbene non siano stati documentati effetti avversi significativi sul rischio di frattura, l’impatto a lungo termine resta incerto.

Palopegteriparatide: farmacologia pensata per sostituire

Palopegteriparatide, o TransCon PTH, è un profarmaco di PTH (1–34) disegnato per rilasciare l’ormone in modo costante per almeno 24 ore. La molecola sfrutta un linker autocleavabile sensibile a pH e temperatura fisiologici, permettendo un rilascio graduale e prolungato dell’ormone attivo.

Questa modalità d’azione elimina i picchi e le fluttuazioni plasmatiche tipiche degli analoghi precedenti, assicurando una stimolazione continua dei recettori PTHR1 a livello renale e osseo. L’emivita funzionale della molecola è stimata in circa 60 ore, con effetti farmacodinamici prolungati anche in caso di mancata somministrazione.

Prove di efficacia: il salto di qualità dei trial PaTH Forward e PaTHway

I dati degli studi clinici di fase II (PaTH Forward) e fase III (PaTHway) sono solidi: oltre il 75% dei pazienti trattati con palopegteriparatide ha potuto sospendere completamente la terapia convenzionale con calcio e vitamina D attiva.

Il beneficio renale è particolarmente promettente: in pazienti con funzione renale compromessa (eGFR < 60), si è osservato un incremento medio di +11,5 mL/min/1,73m² a 52 settimane. La calciuria si è ridotta sin dalle prime settimane, superando le performance di rhPTH (1–84), che ha mostrato un miglioramento solo dopo 5 anni.

Anche la qualità della vita, valutata con la scala specifica HPES, ha evidenziato miglioramenti clinicamente rilevanti e statisticamente significativi. È la prima volta che un questionario validato specificamente per HypoPT viene utilizzato in uno studio registrativo.

Osso e sicurezza: dati in evoluzione

Il profilo osseo di palopegteriparatide mostra una riduzione iniziale della BMD nei primi 6 mesi, seguita da una stabilizzazione che suggerisce il raggiungimento di un nuovo equilibrio metabolico. Questo comportamento è coerente con una vera terapia sostitutiva più che con una stimolazione anabolica episodica.

Non sono stati ancora pubblicati dati HR-pQCT a lungo termine, ma i risultati preliminari di 3 anni suggeriscono un impatto contenuto sulla porosità corticale rispetto a rhPTH (1–84), grazie alla maggiore continuità di esposizione al recettore.

Quanto alla sicurezza, non si segnalano eventi avversi gravi correlati al farmaco. Il rischio di osteosarcoma, documentato in ratti Fischer 344 con rhPTH, non è stato osservato con palopegteriparatide, sebbene siano ancora necessarie cautele nei pazienti con fattori di rischio noti.

Una svolta terapeutica reale

Palopegteriparatide rappresenta, oggi, il primo candidato ad affermarsi come terapia sostitutiva “completa” per l’ipoparatiroidismo. I vantaggi vanno oltre la semplice normalizzazione della calcemia: miglioramento della funzione renale, riduzione della calciuria, recupero della qualità della vita e un profilo osseo incoraggiante.

Se confermati dai dati di follow-up a lungo termine, questi risultati potrebbero ridefinire gli standard di cura, avvicinando l’endocrinologia alla fisiologia naturale anche in un disturbo fino a ieri considerato marginale nella pipeline terapeutica.

Lo studio

Palermo, A., Naciu, A.M., Donovan, Y.K.T. et al. PTH Substitution Therapy for Chronic Hypoparathyroidism: PTH 1–84 and PalopegteriparatideCurr Osteoporos Rep 23, 12 (2025).

Teriparatide e il lungo respiro della terapia

Dai dati real-world raccolti in due decenni su oltre 600 pazienti emerge un messaggio forte per la clinica: il trattamento con teriparatide, seguito da terapia antiriassorbitiva, mantiene nel tempo gli incrementi di densità ossea (soprattutto vertebrale), migliora la microarchitettura ossea e riduce le fratture in modo persistente. I benefici si osservano anche nei pazienti pretrattati, e il T-score dell’anca totale non predice il rischio di frattura. Una conferma concreta dell’importanza della terapia sequenziale in pazienti fragili con fratture recenti.

Teriparatide, evidenze di lunga durata per una terapia a lungo termine

La gestione dell’osteoporosi grave, soprattutto nei pazienti con fratture vertebrali recenti o multipli eventi fratturativi, continua a rappresentare una delle sfide più complesse per il clinico. In questo contesto, l’utilizzo di terapie anaboliche come il teriparatide ha segnato un’importante svolta, ma le evidenze sulla durata e sulla qualità dell’effetto nel lungo termine erano finora limitate.

Lo studio recentemente pubblicato da Guyer et al. su Bone fornisce un contributo fondamentale in questo senso, analizzando gli effetti a lungo termine del trattamento con teriparatide (18-24 mesi), seguito da terapia antiriassorbitiva, in una coorte real-world di 624 pazienti iscritti al registro nazionale svizzero dell’osteoporosi e seguiti fino a 20 anni.

Una coorte reale e rappresentativa

La popolazione analizzata comprende in prevalenza donne (87%), con un’età media di 67 anni. Di questi, il 32% era naïve rispetto a terapie antiriassorbitive, mentre il restante 68% presentava un pretrattamento di durata mediana pari a 5,9 anni. Tutti i pazienti hanno ricevuto in seguito una terapia antiriassorbitiva (principalmente bifosfonati o denosumab).

L’inizio del trattamento anabolico era spesso preceduto da fratture recenti, in particolare vertebrali, coerentemente con le indicazioni di rimborso svizzere. La densità minerale ossea (BMD) e il trabecular bone score (TBS) sono stati monitorati fino a 10 anni prima e 10 anni dopo la terapia con teriparatide.

Miglioramenti persistenti di BMD e TBS

I risultati dell’analisi globale mostrano un incremento significativo della BMD lombare dopo la terapia con teriparatide, mantenuto fino a 5 anni dopo il passaggio alla terapia antiriassorbitiva (T-score +0,876, p<0,001). Miglioramenti minori ma significativi si sono osservati anche a livello del collo femorale (+0,182) e dell’anca totale (+0,112). Anche il TBS è aumentato in modo significativo (+0,047, p<0,001), indicando un miglioramento della microarchitettura ossea.

L’analisi temporale rivela inoltre che nei pazienti naïve l’incremento della BMD si manifesta già durante la fase anabolica anche a livello femorale, mentre nei pretrattati l’effetto si manifesta principalmente nella fase post-teriparatide, dopo l’introduzione della terapia antiriassorbitiva.

Rischio fratturativo: calo marcato e sostenuto

Lo studio documenta un picco di incidenza fratturativa nei due anni precedenti all’inizio del trattamento (es. vertebrali: 0,96 eventi/anno), seguito da un calo netto durante la terapia con teriparatide e un mantenimento dei bassi livelli anche nei successivi anni di terapia antiriassorbitiva. L’effetto si estende fino a 8 anni dopo l’interruzione di teriparatide.

Questo dato appare particolarmente rilevante se si considera che la coorte era composta da soggetti ad altissimo rischio, con una media di 1,8 fratture vertebrali e 0,8 fratture non vertebrali già all’inizio della terapia.

Il paradosso del T-score dell’anca

Uno degli aspetti più interessanti dello studio è l’assenza di correlazione tra il T-score dell’anca totale durante il trattamento con teriparatide e il rischio fratturativo successivo. Questo dato appare coerente con la fisiologia del trattamento anabolico, che tende a migliorare più rapidamente la BMD vertebrale rispetto a quella dell’anca, soprattutto nei pazienti già trattati in precedenza.

Inoltre, come sottolineano gli autori, l’efficacia antifratturativa del teriparatide dipende in larga parte da miglioramenti nella qualità ossea e nella microarchitettura, elementi non completamente catturati dalla BMD dell’anca.

Un forte argomento per la terapia sequenziale

I dati supportano in modo netto la strategia sequenziale: teriparatide in fase acuta, seguito da consolidamento con terapia antiriassorbitiva per mantenere gli incrementi di massa ossea e ridurre il rimodellamento eccessivo. Gli effetti positivi si mantengono fino a 5 anni, con una lieve tendenza al declino oltre i 6 anni, suggerendo la necessità di monitoraggio continuo e potenzialmente di ulteriori cicli terapeutici.

Limiti e punti di forza dello studio

Lo studio, di natura osservazionale, presenta alcune limitazioni: l’assenza di un gruppo di controllo, la varietà dei regimi antiriassorbitivi successivi e la mancata distinzione tra i farmaci utilizzati (denosumab, bifosfonati orali e endovenosi). Tuttavia, la durata eccezionale del follow-up, la numerosità campionaria e l’inclusione di pazienti reali ad alto rischio conferiscono grande valore ai risultati.

Lo studio di Guyer e colleghi offre solide evidenze in favore del trattamento anabolico sequenziale nei pazienti ad alto rischio fratturativo. Teriparatide, se seguito da un’adeguata terapia antiriassorbitiva, offre benefici prolungati in termini di incremento della BMD, miglioramento della microarchitettura e riduzione del rischio di fratture, sia nei pazienti naïve sia nei pretrattati. Il monitoraggio del T-score dell’anca non è sufficiente a prevedere l’efficacia clinica, rendendo necessari strumenti più raffinati per la valutazione del rischio residuo.

Per il clinico, questi dati rappresentano un invito concreto a considerare con decisione la terapia anabolica sequenziale, specialmente nei pazienti con fratture vertebrali recenti, al fine di massimizzare il beneficio terapeutico nel lungo periodo.

Lo studio

Laura Guyer, Oliver Lehmann, Mathias Wenger, Sven Oser, Ueli Studer, Christian Steiner, Hans-Rudolf Ziswiler, Gernot Schmid, HansJörg Häuselmann, Stephan Reichenbach, Thomas Lehmann, Judith Everts-Graber, Long-term impact of teriparatide on bone mineral density, trabecular bone score, and fracture risk relative to total hip T-score: A two-decade, registry-based cohort study, Bone, Volume 195, 2025, 117445, ISSN 8756-3282.

Intelligenza artificiale per la cura personalizzata dei pazienti

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Con il crescente ricorso ai portali sanitari, i pazienti pongono domande sempre più specifiche su dieta, glicemia, farmaci, problemi amministrativi e, in alcuni casi, su aspetti meno immediati come la salute ossea. La pandemia di COVID-19 ha accelerato questa tendenza, evidenziando la necessità di strumenti di supporto più efficienti.

Analizzare mezzo milione di messaggi per comprendere i bisogni

Uno studio condotto presso Stanford Health Care ha analizzato oltre 528.000 messaggi sicuri inviati da pazienti diabetici.

L’uso combinato di NLP e AI generativa ha permesso di identificare dodici aree chiave di interesse, tra cui: controllo dietetico e gestione della glicemia, interpretazione dei risultati di laboratorio, problemi amministrativi, gestione della tiroide e salute ossea.

Gli strumenti AI proposti: opportunità e cautele

I medici valutano positivamente diverse soluzioni AI, in particolare:

  • Risposte automatizzate evidence-based a domande frequenti
  • Educazione strutturata su ipoglicemia e uso di dispositivi glicemici
  • Aggiornamenti tempestivi su coperture assicurative e politiche

Maggiori cautele emergono per strumenti che analizzano autonomamente dati clinici o propongono triage automatizzati.

Salute ossea: un’area da integrare nella personalizzazione

Tra i temi emersi, la gestione della salute ossea si è distinta come rilevante, specie tra donne e pazienti bianchi. Gli autori suggeriscono che strumenti AI potrebbero supportare l’educazione dei pazienti su imaging e chirurgia ossea, nonché ottimizzare l’invio a esami diagnostici.

Un passo verso una medicina più centrata sul paziente

Gli strumenti AI possono:

  • Alleggerire il carico operativo dei clinici
  • Migliorare la comunicazione medico-paziente
  • Offrire un supporto educativo personalizzato
  • Rafforzare aree di cura spesso trascurate, come la salute ossea

Con un approccio prudente e guidato dalla clinica, l’intelligenza artificiale potrà davvero contribuire a una medicina più efficace, efficiente e centrata sui bisogni reali dei pazienti.

I 12 bisogni principali dei pazienti secondo l’analisi AI

Tema Descrizione sintetica
1. Dieta e controllo del peso Gestione dell’alimentazione e impatto dei carboidrati sul peso.
2. Interpretazione dei test di laboratorio Comprensione di analisi del sangue, urine e A1C.
3. Gestione della tiroide Dubbi su dosaggi di levotiroxina e livelli di TSH.
4. Sfide amministrative Problematiche relative a burocrazia, assicurazioni, autorizzazioni.
5. Salute ossea Preoccupazioni su complicanze ossee, imaging e chirurgia correlata.
6. Navigazione ordini e risultati di laboratorio Chiarimenti su ordini di test e risultati clinici.
7. Coordinamento appuntamenti Richieste di fissare, modificare o confermare visite.
8. Gestione del dosaggio dei farmaci Regolazione delle terapie farmacologiche quotidiane.
9. Ricariche di prescrizioni e copertura assicurativa Rinnovo farmaci e problematiche di rimborso.
10. Educazione su tecnologie mediche Uso di sensori glicemici (Dexcom) e pompe insuliniche.
11. Preoccupazioni per l’ipoglicemia Sintomi da glicemia bassa e richiesta di consigli.
12. Gestione della glicemia Fluttuazioni dei livelli di zucchero nel sangue e loro controllo.

Nota: Questi temi sono emersi da 528.199 messaggi clinici inviati tra il 2013 e il 2024. Costituiscono una guida utile per progettare interventi educativi e clinici basati sui bisogni reali.

Fonte

Kim, J., Chen, M.L., Rezaei, S.J. et al. Artificial intelligence tools in supporting healthcare professionals for tailored patient care. npj Digit. Med. 8, 210 (2025). https://doi.org/10.1038/s41746-025-01604-3

L’impatto a lungo termine della terapia anabolica sull’osso e sul rischio di frattura

Uno studio ventennale su oltre 600 pazienti dimostra come teriparatide, seguito da terapia anti-riassorbitiva, non solo migliori la densità minerale ossea (BMD) e il trabecular bone score (TBS), ma mantenga ridotto il rischio di frattura fino a 8 anni dopo la fine del trattamento. Le implicazioni per il trattamento sequenziale dell’osteoporosi sono rilevanti, anche in pazienti già trattati con bisfosfonati.

Teriparatide nel mondo reale: una terapia che lascia il segno

Teriparatide è da tempo considerato un’opzione potente per l’osteoporosi severa, ma quanto durano davvero i suoi effetti? La risposta arriva da uno studio osservazionale su 624 pazienti svizzeri, seguito per due decenni. I risultati sono chiari: se seguito da un’adeguata terapia anti-riassorbitiva, teriparatide consente un mantenimento a lungo termine dei benefici in termini di BMD, TBS e rischio fratturativo.

La coorte, costituita per l’87% da donne con un’età media di 67 anni, comprendeva sia pazienti naïve che già trattati con bisfosfonati o denosumab. Dopo 18-24 mesi di teriparatide, tutti hanno ricevuto terapia anti-riassorbitiva secondo le linee guida svizzere. E proprio questa combinazione sequenziale sembra essere la chiave del successo.

Densità minerale e struttura trabecolare in miglioramento

Nel periodo che ha seguito la terapia con teriparatide, i pazienti hanno mostrato un aumento significativo della densità ossea:

  • Colonna lombare: +0,876 nel T-score (p < 0,001)

  • Collo femorale: +0,182 (p < 0,001)

  • Anca totale: +0,112 (p < 0,005)

  • TBS: +0,047 (p < 0,001)

Questi dati confermano l’effetto anabolico della molecola, ma mostrano anche come il mantenimento e il consolidamento dei guadagni sia fortemente dipendente dalla successiva terapia anti-riassorbitiva. Il miglioramento della TBS suggerisce un’influenza positiva anche sulla microarchitettura trabecolare, aspetto spesso trascurato nel monitoraggio clinico.29

Meno fratture, per anni

Prima dell’inizio del trattamento con teriparatide, le incidenze fratturative erano elevate: 0,96 fratture vertebrali, 0,11 fratture d’anca e 1,37 fratture totali per paziente nei due anni precedenti. Durante e dopo il trattamento, queste cifre sono crollate e si sono mantenute basse per un periodo osservato fino a 8 anni.

Una riduzione così duratura è significativa, soprattutto se si considera che molti pazienti presentavano fratture recenti al momento dell’arruolamento, con un rischio “imminente” di nuovi eventi. Questo dato sottolinea la validità della strategia sequenziale anche nei pazienti ad alto rischio.

La T-score dell’anca non predice le fratture durante teriparatide

Uno degli aspetti più interessanti emersi dallo studio è la mancanza di correlazione tra il T-score dell’anca durante la terapia con teriparatide e il rischio fratturativo successivo (r² = 0,0337; p = 0,44). Il motivo? L’osso corticale dell’anca risponde meno intensamente alla stimolazione anabolica di quanto faccia l’osso trabecolare vertebrale, specialmente nei pazienti già trattati con anti-riassorbitivi.

Il messaggio per la clinica è chiaro: la risposta al trattamento con teriparatide non può essere valutata solo sulla base del T-score dell’anca. È necessario un monitoraggio più articolato che includa TBS e l’andamento delle fratture cliniche.

Sequenza, non solo scelta: il ruolo del trattamento anti-riassorbitivo

Il beneficio osservato non è attribuibile solo al teriparatide, ma anche alla corretta prosecuzione con una terapia anti-riassorbitiva. Il trattamento sequenziale ha garantito stabilità dei valori di BMD per circa 5 anni dopo la fine della terapia anabolica. Successivamente, si osserva una lieve riduzione della densità ossea e un incremento modesto nel rischio fratturativo, segnalando la necessità di rivalutare periodicamente la terapia.

In Svizzera, la prescrizione di teriparatide è subordinata a una frattura da fragilità, rendendo difficile un confronto con pazienti trattati solo con anti-riassorbitivi. Tuttavia, i risultati indicano chiaramente che la strategia sequenziale rappresenta un’opzione robusta per la gestione dell’osteoporosi severa, anche in pazienti già in terapia da tempo.

Conclusioni per la pratica clinica

Questo studio di coorte conferma in un contesto reale e su un lungo periodo ciò che i trial clinici randomizzati avevano già suggerito: teriparatide, seguito da un’adeguata terapia anti-riassorbitiva, può ridurre in modo significativo e prolungato il rischio di fratture. È efficace nei pazienti naïve ma anche in quelli già trattati, e migliora non solo la densità, ma anche la qualità dell’osso.

La chiave non è tanto la singola molecola quanto la sequenza terapeutica, costruita sulla storia clinica del paziente e modulata nel tempo. Una lezione importante per una medicina dell’osso che sia sempre più personalizzata, sostenibile ed efficace.

Lo studio

Laura Guyer, Oliver Lehmann, Mathias Wenger, Sven Oser, Ueli Studer, Christian Steiner, Hans-Rudolf Ziswiler, Gernot Schmid, HansJörg Häuselmann, Stephan Reichenbach, Thomas Lehmann, Judith Everts-Graber, Long-term impact of teriparatide on bone mineral density, trabecular bone score, and fracture risk relative to total hip T-score: A two-decade, registry-based cohort study, Bone, Volume 195, 2025, 117445, ISSN 8756-3282

Oltre la razza

Le differenze razziali ed etniche nella struttura scheletrica, nel rischio di frattura e nei biomarcatori dell’osteodistrofia renale sollevano interrogativi fondamentali sull’adeguatezza degli approcci terapeutici attuali. Alla luce di nuove evidenze, emerge la necessità di superare i parametri tradizionali — tra cui la stessa categoria di “razza” — per abbracciare una medicina davvero personalizzata, capace di rispondere alla complessità biologica dell’individuo.

Un paradigma da rivedere

L’osteodistrofia renale (Renal Osteodystrophy, ROD) è una complicanza centrale della malattia renale cronica (CKD), con impatti clinici importanti: fratture, deformità, disabilità. L’attuale classificazione, fondata su biopsia ossea dell’osso iliaco, distingue quadri a elevato o ridotto rimodellamento osseo, con o senza difetti di mineralizzazione. Ma nella pratica, la limitata accessibilità alla biopsia ha portato a sostituirla con biomarcatori surrogati come il paratormone (PTH) e l’alcalina fosfatasi ossea.

Tuttavia, l’eterogeneità della ROD — amplificata da marcate differenze tra individui — sta mettendo in discussione l’efficacia di questi approcci. Lo studio firmato da Marciana Laster propone un punto di svolta: le differenze razziali ed etniche osservate nella microarchitettura ossea, nel rischio di frattura e nei biomarcatori non sono solo una questione epidemiologica, ma un’occasione per ripensare l’intera strategia terapeutica. In altre parole, la razza non è (solo) una variabile da considerare, ma un sintomo della necessità urgente di una medicina di precisione.

Densità, forza, fratture: cosa dice la biologia

Nella popolazione sana, le differenze razziali sono evidenti già nei bambini: i soggetti neri mostrano un’accresciuta densità ossea vertebrale rispetto ai bianchi, con una maggiore forza ossea in adolescenza e un profilo microarchitetturale favorevole (maggiore spessore corticale e trabecolare, minore porosità). Risultati simili si osservano negli adulti, in particolare nelle donne nere post-menopausali, che presentano un rischio di frattura inferiore rispetto a donne bianche, ispaniche o asiatiche.

Nella CKD, queste differenze si confermano: in uno studio su biopsie ossee iliache, i pazienti neri con insufficienza renale avevano più frequentemente volumi ossei normali o elevati rispetto ai bianchi, nei quali predominava un basso volume osseo. In ambito pediatrico, bambini neri in dialisi presentavano uno spessore corticale superiore del 36% rispetto ai bianchi, pur a parità di età, sesso e livelli di PTH.

Anche i dati sul rischio di frattura parlano chiaro. Il CRIC Study ha rilevato che negli adulti con CKD la razza nera è un fattore protettivo per fratture vertebrali e dell’anca. Nei bambini con CKD pre-dialitica, il rischio di frattura era inferiore del 74% nei soggetti neri e del 66% in quelli ispanici rispetto ai bianchi.

Il paradosso biochimico e i suoi limiti

Sorge però un paradosso: i soggetti neri presentano livelli meno favorevoli di biomarcatori classici — minore vitamina D, PTH più alto — ma mostrano una struttura ossea più robusta e un minor rischio di frattura. Questo fenomeno, noto come “skeletal paradox”, sfida l’attuale paradigma terapeutico che si fonda su target uniformi di PTH e vitamina D per tutti i pazienti CKD, indipendentemente dalla loro biologia individuale.

In passato si è ipotizzato che tali discrepanze derivassero da livelli inferiori di proteina legante la vitamina D (VDBP) nei neri, con conseguente maggiore disponibilità biologica della vitamina. Tuttavia, recenti metodi basati su spettrometria di massa hanno smentito questa ipotesi, mostrando livelli simili di VDBP tra i gruppi etnici. Altri studi hanno evidenziato una maggiore attività dell’enzima CYP27B1 e una minore attività di CYP24A1 nei soggetti neri, con un impatto positivo sull’omeostasi del calcio e sulla produzione della forma attiva della vitamina D (1,25-diidrossivitamina D).

Superare la razza: la sfida della personalizzazione

L’insieme di queste evidenze ci obbliga a una riflessione profonda: la razza e l’etnia, pur essendo utili nel descrivere tendenze a livello di popolazione, sono strumenti troppo grossolani per guidare terapie individuali. Il futuro della cura della ROD risiede nella capacità di identificare biomarcatori predittivi dell’attività ossea e della mineralizzazione che vadano oltre le categorie etniche, riflettendo la vera complessità biologica del paziente.

Anche l’impiego del PTH, ancora centrale nelle linee guida KDIGO, dovrebbe evolversi verso un’interpretazione più dinamica: il valore ottimale di PTH potrebbe variare da individuo a individuo, e solo l’osservazione combinata con l’alcalina fosfatasi — meglio ancora se ossea specifica — può offrire una finestra utile sull’attività ossea reale. Tuttavia, anche questo marker ha dei limiti, specie in età pediatrica, dove le alterazioni della mineralizzazione sono frequenti.

La razza è un campanello d’allarme, non una risposta

La vera lezione che emerge da questi studi è che la razza, più che una variabile da inserire negli algoritmi, è un segnale della nostra ignoranza sulle vere determinanti biologiche dell’osteodistrofia renale. Il passo avanti non consiste nel trattare diversamente i pazienti neri o bianchi, ma nel comprendere cosa rende unico ciascun paziente: il suo assetto genetico, la sua biochimica ossea, il suo metabolismo della vitamina D, la sua risposta al PTH.

Una medicina della precisione, dunque, che parta dalla complessità dell’individuo e non dai confini storici delle categorie razziali.

Lo studio

Laster M. Precision Renal Osteodystrophy: What’s Race Got to do With It? Curr Osteoporos Rep. 2024 Dec 2;23(1):5. doi: 10.1007/s11914-024-00894-y. PMID: 39621165; PMCID: PMC11612005.

BoneHealth | The magazine for bone and joint specialists | Aprile 2025

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Il nuovo numero di BoneHealth approfondisce i temi più attuali nella gestione delle patologie osteo-metaboliche, confermando l’identità della rivista come spazio di confronto clinico e scientifico di alto profilo.

Al centro dell’edizione di aprile 2025 troviamo l’algodistrofia e l’impatto del neridronato nelle fasi precoci della CRPS-1, le terapie conservative con cellule staminali mesenchimali e la protesizzazione in osso osteoporotico. Uno speciale è dedicato all’ipoparatiroidismo e al confronto tra terapia convenzionale e sostitutiva con palopegteriparatide, mentre un focus emergente esplora il ruolo del microbiota nell’osteoporosi postmenopausale.

Il numero raccoglie anche gli highlights del Congresso “The Bone Identity”, divenuto un punto di riferimento per la comunità scientifica.

Approfondimenti, illustrazioni originali e voci esperte compongono un magazine ricco, pensato per chi vive la salute dell’osso con visione e competenza.

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L’era del paratormone sostitutivo

L’ipoparatiroidismo sta finalmente guadagnando visibilità grazie a iniziative di sensibilizzazione, innovazioni terapeutiche e una nuova consapevolezza clinica.

In Italia, secondo le stime più aggiornate, soffrono di questa malattia rara circa 10.500 persone, un numero apparentemente esiguo, ma che cela una quotidianità costellata di sintomi cronici e complicanze sistemiche.

Due recenti appuntamenti promossi da Ascendis Pharma hanno rilanciato il dibattito su questa patologia ancora orfana di una terapia sostitutiva realmente efficace. Il primo destinato ai giornalisti si è tenuto a Milano a fine marzo; il secondo si è svolto a Roma il 10 aprile 2025 alla Camera dei Deputati, riunendo clinici di riferimento e rappresentanti delle istituzioni.

Una patologia invisibile ma impattante

L’ipoparatiroidismo è una disfunzione endocrina causata da un deficit, totale o parziale, di paratormone (PTH), che compromette gravemente l’omeostasi del calcio e del fosforo. I sintomi sono spesso aspecifici e debilitanti: crampi, spasmi, parestesie, affaticamento, confusione mentale, ansia, depressione. Il trattamento convenzionale con calcio e vitamina D attiva, pur alleviando alcuni sintomi, non sostituisce il PTH e può portare a complicanze renali e calcificazioni extrascheletriche.

Ipoparatiroidismo media tutorial
Media tutorial. Milano, 27 marzo 2025

Secondo la prof.ssa Maria Luisa Brandi, specialista in endocrinologia e presidente della Fondazione FIRMO, “Il paratormone è l’ormone dimenticato. La sua assenza compromette funzioni vitali e rende la malattia estremamente invalidante”.

Le forme cliniche e le cause

Come ha spiegato la prof.ssa Brandi durante il Media Tutorial, l’ipoparatiroidismo può essere congenito (per mutazioni genetiche o malattie autoimmuni rare) o secondario, per lo più a seguito di tiroidectomie o trattamenti oncologici con immunoterapie (es. anti PD-1/PD-L1).

Il dott. Andrea Palermo, endocrinologo presso il Policlinico Universitario Campus Biomedico di Roma, ha evidenziato le complicanze croniche: “La supplementazione non sostitutiva può causare ipercalciuria, nefrolitiasi, nefrocalcinosi e aumentare il rischio di insufficienza renale. Lo scheletro si modifica in modo patologico, diventando più denso ma meno resistente”.

La prof.ssa Valentina Camozzi, endocrinologa all’Università di Padova, ha spiegato: “Il calcio e il calcitriolo sono solo un surrogato. Non replicano le funzioni fisiologiche del PTH e comportano un notevole burden terapeutico. In molti casi, la qualità della vita è gravemente compromessa”.

La testimonianza dei pazienti: Marta e la quotidianità negata

Nel corso dell’incontro milanese, Marta Cecconi, vicepresidente dell’associazione A.P.P.I., ha raccontato la propria esperienza di ipoparatiroidismo postchirurgico, conseguente all’asportazione della tiroide per morbo di Basedow.

Ha descritto un decorso difficile, caratterizzato da crisi tetaniche, ospedalizzazioni prolungate e necessità di ricorrere frequentemente al pronto soccorso per la somministrazione di calcio endovena. La sua testimonianza ha messo in luce quanto la malattia possa condizionare la quotidianità e la qualità della vita, anche nei gesti più semplici. Tuttavia, durante la gravidanza e l’allattamento, grazie alla produzione naturale di PTH-like peptide, la sua condizione è migliorata. Una parentesi felice che sottolinea il bisogno di terapie più efficaci e continuative.

Una svolta terapeutica all’orizzonte: il palopegteriparatide

L’innovazione terapeutica che potrebbe cambiare il paradigma di trattamento dell’ipoparatiroidismo si chiama palopegteriparatide.
Il farmaco, già approvato da FDA ed EMA, ma non ancora disponibile in Italia, rappresenta una svolta epocale. Si tratta di una molecola a rilascio prolungato che garantisce livelli fisiologici costanti di PTH per 24 ore, ripristinando la regolazione del metabolismo calcio-fosforo.

I dati dello studio di fase 3 PaTHway mostrano che dopo 52 settimane:

  • l’81% dei pazienti ha raggiunto normocalcemia e indipendenza da calcio e vitamina D attiva;
  • il 95% ha interrotto completamente la terapia convenzionale;
  • sono migliorati significativamente i parametri di qualità di vita (HPES e SF-36);
  • la calciuria è diminuita, con riduzione del rischio renale.

Il dott. Palermo sottolinea: “Palopegteriparatide è l’unica terapia sostitutiva registrata per questa patologia. Ripristina le funzioni fisiologiche del PTH e può prevenire le complicanze sistemiche”.

La prof.ssa Brandi ha definito la molecola: “Una scoperta paragonabile a quella dell’insulina per il diabete. Il vero problema è che in Italia non è ancora disponibile. È urgente colmare questo paradosso”.

Il confronto politico-istituzionale alla Camera dei Deputati

L’evento romano, promosso dall’On. Ilenia Malavasi, ha permesso un dialogo concreto tra clinici, istituzioni e associazioni.

La parlamentare ha ricordato l’importanza di ascoltare il punto di vista dei pazienti, che spesso sono i primi a cogliere le lacune del sistema. Ha inoltre richiamato la necessità di uniformare l’accesso alle cure su tutto il territorio nazionale, soprattutto per le patologie rare.

Il prof. Andrea Frasoldati, presidente AME (Associazione Medici Endocrinologi), ha ribadito che l’ipoparatiroidismo resta una patologia troppo spesso sottovalutata nella pratica clinica quotidiana e ha auspicato una maggiore consapevolezza tra i professionisti.

Gli ha fatto eco il prof. Gianluca Aimaretti, presidente SIE (Società Italiana di Endocrinologia), sottolineando come oggi la comunità scientifica disponga di strumenti diagnostici e conoscenze avanzate, ma debba ancora colmare il gap terapeutico.

Thomas Carlo Maria Topini, General Manager di Ascendis Pharma Italia, ha dichiarato:

“Per troppo tempo l’ipoparatiroidismo è rimasto nell’ombra. Vogliamo dare voce ai pazienti e accompagnarli verso una quotidianità più serena, con terapie all’altezza delle loro esigenze.”

Una nuova narrazione per una nuova normalità

Parallelamente al dialogo clinico e istituzionale, durante l’evento istituzionale di Roma, Ascendis Pharma ha lanciato la campagna di awarness: “Si può parlare di normalità? Ipoparatiroidismo: conoscerlo e gestirlo per vivere una nuova quotidianità”. Rivolta a medici, pazienti, caregiver e opinione pubblica, l’iniziativa vuole promuovere una maggiore consapevolezza sull’impatto della patologia e sulla necessità di un cambiamento concreto.

Accanto alla campagna principale, Ascendis ha annunciato tre ulteriori progetti:

  • Medicina narrativa: un percorso realizzato con la Scuola Holden e Feltrinelli Education per raccogliere e raccontare le storie dei pazienti e dei loro medici. Il progetto culminerà in un e-book e in un evento pubblico a Torino.
  • Documentari: una serie di video realizzati con NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, che offriranno uno spaccato autentico della vita quotidiana con l’ipoparatiroidismo.
  • Sportello legale: uno spazio di consulenza gratuito, gestito da OMAR (Osservatorio Malattie Rare), per fornire supporto su diritti, lavoro, invalidità e accesso alle cure.

Queste iniziative testimoniano una visione sistemica del problema, in cui il paziente non è più solo un destinatario di cure, ma un protagonista attivo del cambiamento.

L’impegno della comunità endocrinologica, il ruolo attivo delle associazioni e l’apertura del mondo istituzionale indicano una direzione chiara: riconoscere l’ipoparatiroidismo come patologia cronica a elevato impatto e garantire l’accesso alle migliori opzioni terapeutiche disponibili.

Come ha ricordato Marta Cecconi, la normalità per i pazienti affetti da ipoparatiroidismo è ancora un obiettivo da conquistare. E ogni passo verso una terapia più adeguata rappresenta una conquista di dignità.

Il futuro del trattamento dell’ipoparatiroidismo è già cominciato. Ora spetta al Sistema Sanitario Nazionale scegliere se cogliere questa opportunità o continuare a ignorarla.