venerdì, Luglio 4, 2025
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Gestione della malattia renale cronica e salute delle ossa

La Malattia Renale Cronica (MRC), ovvero la perdita progressiva della funzionalità renale, è in costante aumento nel nostro paese. Asintomatica fino alle fasi avanzate, oggi si stima riguardi circa il 10% della popolazione italiana, ossia 5 milioni di persone, ma la curva di incidenza è in crescita soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione generale e dell’aumentata prevalenza di condizioni patologiche caratterizzate da un elevato rischio di manifestare danno renale, tra le quali: diabete mellito di tipo II, sindrome metabolica, ipertensione arteriosa, obesità, scompenso cardiaco, e di patologie che richiedono uso di mezzi di contrasto nefrotossici. Il 65° Congresso Nazionale della Società Italiana di Nefrologia (SIN), dal 16 al 19 ottobre a Riccione, è l’occasione per fare il punto sulla gestione della MRC, tra nuove possibilità terapeutiche e un Percorso Preventivo Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PPDTA) la cui stesura ha visto fianco a fianco SIN e Ministero della Salute. Il documento mira a ottimizzare la presa in carico dei pazienti con MRC, con particolare attenzione alla prevenzione delle complicanze, che spesso riguardano anche la salute ossea.

Il ruolo della nefrologia nella salute ossea

Il legame tra nefrologia e salute dell’osso è profondo, in quanto i reni giocano un ruolo fondamentale nel mantenimento del metabolismo del calcio, del fosforo e della vitamina D, essenziali per la salute scheletrica. Nei pazienti affetti da malattia renale cronica, soprattutto nelle fasi più avanzate, la funzione renale compromessa altera il delicato equilibrio metabolico, conducendo a gravi problematiche ossee come l’osteodistrofia renale. Questa condizione include un gruppo di disturbi ossei causati da anomalie nei livelli di paratormone (PTH), calcio e fosforo, e dalla ridotta capacità dei reni di attivare la vitamina D.

Uno degli obiettivi del nuovo PPDTA è quello di promuovere la prevenzione e la diagnosi precoce della MRC. Attraverso l’educazione a corretti stili di vita e l’aderenza terapeutica, si mira a rallentare la progressione della malattia e di conseguenza la disfunzione metabolica, riducendo l’incidenza di fratture ossee e fragilità nei pazienti. La gestione della salute dell’osso in pazienti con MRC passa attraverso una serie di interventi terapeutici che comprendono l’integrazione di vitamina D attiva, la riduzione dei livelli di fosfato tramite l’uso di chelanti e il controllo dell’iperparatiroidismo secondario con farmaci calcimimetici.

Novità terapeutiche e protezione della salute ossea

Nel contesto del trattamento della MRC, il 65° Congresso SIN sottolinea l’importanza delle nuove terapie volte a rallentare la progressione del danno renale e, indirettamente, anche a migliorare la qualità della salute ossea. L’introduzione del Finerenone, un antagonista recettoriale non-steroideo dell’aldosterone, e gli studi recenti sulla semaglutide, un agonista del recettore GLP-1, rappresentano novità significative. Questi farmaci, oltre a fornire una protezione nefrocardiovascolare, potrebbero avere impatti positivi anche sulla salute ossea, riducendo i rischi di fratture e migliorando la qualità di vita dei pazienti.

La terapia con inibitori SGLT2 (dapagliflozin ed empagliflozin) si è dimostrata fondamentale nel ridurre la progressione della malattia renale e, indirettamente, preservare la densità ossea grazie alla loro capacità di modulare il metabolismo del calcio e del fosforo. Questi nuovi farmaci offrono speranze concrete di migliorare sia la salute renale che quella ossea nei pazienti diabetici e non.

Dialisi e salute ossea: un delicato equilibrio

Per i pazienti in dialisi, la gestione della salute ossea rappresenta una sfida significativa. Le opzioni terapeutiche disponibili, come l’emodialisi e la dialisi peritoneale, hanno impatti diversi sul metabolismo osseo. Secondo un report all’attenzione del congresso SIN e realizzato dall’ALTEMS, entrambe le terapie sostitutive si sono dimostrate equivalenti in termini di efficacia e sicurezza, ma la dialisi peritoneale potrebbe offrire vantaggi in termini di qualità di vita, permettendo una gestione più flessibile e riducendo il rischio di compromissione cognitiva e altre complicanze. Tuttavia, dal punto di vista della salute ossea, la scelta dell’opzione terapeutica non può scindere da una valutazione del rischio di complicazioni ossee come la osseodistrofia renale, l’iperparatiroidismo secondario e le alterazioni nella densità ossea.

Ad ogni modo, nonostante l’efficacia delle terapie dialitiche nella gestione della MRC, l’obiettivo rimane quello di prevenire il ricorso alla dialisi, intervenendo tempestivamente con trattamenti che preservino la funzione renale e, di conseguenza, la salute dell’osso. Questo approccio è fortemente promosso nel nuovo Documento di Indirizzo PPDTA, che pone la prevenzione al centro della strategia terapeutica per la MRC.

Il futuro della nefrologia: trapianto renale e xenotrapianto

Il trapianto renale, considerato la terapia sostitutiva ottimale per i pazienti con MRC avanzata, ha un impatto significativo anche sulla salute ossea. Il recupero della funzione renale tramite trapianto permette infatti di migliorare il metabolismo osseo, riducendo i rischi di complicanze come l’osteoporosi e le fratture. Tuttavia, l’accesso al trapianto è ancora limitato e il trapianto da vivente resta un’opzione poco sfruttata in Italia. Il xenotrapianto, benché ancora in fase sperimentale, rappresenta una prospettiva futura promettente che potrebbe risolvere il problema della carenza di organi e, di conseguenza, ridurre l’impatto delle malattie renali sulla salute ossea.

L’intelligenza artificiale applicata allo screening per l’osteoporosi

L’osteoporosi è una malattia sistemica che indebolisce le ossa, aumentando il rischio di fratture, con gravi conseguenze sulla salute pubblica ed economica. Caratterizzata dalla riduzione della densità minerale ossea (BMD) e dal deterioramento della microarchitettura ossea, è diffusa soprattutto tra le donne oltre i 50 anni. Un’altra condizione di ridotta densità ossea meno grave ma spesso precursore dell’osteoporosi è l’osteopenia.

Le fratture osteoporotiche, spesso silenziose e sottodiagnosticate, superano in termini di ricoveri e costi quelle di altre gravi malattie come l’infarto e il cancro al seno. Nonostante l’importanza dello screening, solo una piccola parte della popolazione riceve esami adeguati, come l’assorbimetria a raggi X a doppia energia (DXA), il test standard per valutare la BMD. Tuttavia, la DXA presenta limiti diagnostici, spesso non identificando correttamente tutti i soggetti a rischio. In alternativa, la tomografia computerizzata quantitativa (qTC) fornisce una valutazione tridimensionale più accurata, ma è meno utilizzata a causa dei costi e della complessità tecnica.

Inoltre, l’efficacia dei metodi di diagnosi varia tra i gruppi etnici, rendendo necessario lo sviluppo di standard di riferimento specifici per razza per evitare errori di diagnosi. Recentemente, si stanno esplorando approcci di screening basati sull’intelligenza artificiale per migliorare la diagnosi dell’osteoporosi attraverso l’analisi delle scansioni TC.

Metodologia

Il protocollo dello studio è stato sviluppato seguendo le linee guida PRISMAP per le revisioni sistematiche e meta-analisi. L‘obiettivo era analizzare lo screening opportunistico dell’osteoporosi con l’intelligenza artificiale (AI) applicata alle scansioni TC. Sono stati inclusi articoli che trattavano la classificazione di osteoporosi/osteopenia o la misurazione della densità minerale ossea tramite AI in TC, pubblicati in inglese e con dati chiari sui criteri di analisi.

Le ricerche sono state condotte su database come PubMed, Scopus e Web of Science per il periodo 2018-2023, utilizzando una stringa di ricerca specifica per AI, TC e osteoporosi. Dopo l’esportazione dei risultati e la rimozione dei duplicati, 63 pubblicazioni sono state valutate da più revisori, che hanno discusso i risultati e risolto i disaccordi tramite consenso. Tramite un processo di selezione, che ha escluso articoli non pertinenti o metodologicamente inadeguati, sono stati inclusi 14 studi. Questi lavori si concentravano sull’uso dell’IA per analizzare le immagini TC della colonna vertebrale al fine di determinare la BMD e identificare l’osteoporosi o l’osteopenia.

Sono stati estratti vari dati sugli articoli, come l’autore, l’anno, il titolo, i metodi di valutazione, il numero e l’età dei soggetti. Sono state anche analizzate le tecniche AI, i siti anatomici studiati e i limiti di ciascuna ricerca. Gli studi sono stati raggruppati per obiettivi, metodi tecnici e popolazioni coinvolte per fornire una visione completa dello stato della ricerca nel campo dello screening dell’osteoporosi tramite AI.

Risultati

Gli studi hanno utilizzato diverse tecniche di IA, includendo sia approcci completamente automatizzati che ibridi. Alcuni ricercatori hanno adottato algoritmi di deep learning per segmentare automaticamente le vertebre e calcolare la BMD, mentre altri hanno combinato il deep learning con il machine learning tradizionale per analizzare ulteriori caratteristiche radiomiche delle vertebre. I risultati hanno mostrato un’ampia gamma di prestazioni, con una precisione della segmentazione automatica variabile, ma generalmente elevata (coefficiente di similarità DSC tra 0,782 e 0,988). Inoltre, la capacità predittiva della BMD variava tra l’86% e il 96%, e la classificazione dell’osteoporosi ha raggiunto AUC tra 0,927 e 0,984.

Tuttavia, gli studi hanno evidenziato alcune sfide, come l’eterogeneità nei metodi di valutazione e l’assenza di un gold standard univoco per confrontare le diverse tecniche. La mancanza di standardizzazione tra i protocolli ha reso difficile la comparabilità dei risultati, e molti studi si trovano ancora in una fase di prova di concetto, lontani da un’applicazione clinica consolidata. Inoltre, la variabilità nelle modalità di segmentazione, l’effetto degli agenti di contrasto e la gestione dei casi complessi (ad esempio, presenza di fratture vertebrali) restano questioni aperte che necessitano ulteriori ricerche.

Conclusione

La revisione ha evidenziato il crescente ruolo dell’IA nel migliorare lo screening opportunistico per osteoporosi e osteopenia tramite TC. Gli studi analizzati indicano un campo in rapido sviluppo con il potenziale di rivoluzionare il rilevamento della bassa densità minerale ossea, ma segnalano anche importanti sfide da affrontare, come la necessità di parametri di riferimento standardizzati e inclusivi di popolazioni diverse. Le tre principali strategie identificate – IA completamente automatizzata, approcci ibridi basati sulla radiomica, e segmentazione manuale seguita da analisi IA – offrono ciascuna specifici vantaggi. Nonostante l’eterogeneità delle metodologie, vi è un consenso sul fatto che l’IA possa migliorare i protocolli diagnostici esistenti, portando a screening più efficienti e a diagnosi precoci delle condizioni osteoporotiche, con un impatto positivo sulla gestione delle fratture e sui costi sanitari.

Lo studio

Paderno A, Ataide Gomes EJ, Gilberg L, Maerkisch L, Teodorescu B, Koç AM, Meyer M. Artificial intelligence-enhanced opportunistic screening of osteoporosis in CT scan: a scoping Review. Osteoporos Int. 2024 Oct;35(10):1681-1692. doi: 10.1007/s00198-024-07179-1. Epub 2024 Jul 10. Erratum in: Osteoporos Int. 2024 Oct;35(10):1877. doi: 10.1007/s00198-024-07206-1. PMID: 38985200.

 

Le nuove linee guida sulla Vitamina D dell’Endocrine Society

La vitamina D è spesso prescritta dai bone specialist per pazienti con patologie osteometaboliche e carenze. Sebbene esistano studi che associano la carenza di vitamina D a malattie autoimmuni, neoplastiche e infiammatorie, non è stato stabilito un nesso causale.

Il dott. Gregorio Guabello, specialista in endocrinologia presso l’ambulatorio di Endocrinologia, IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio di Milano e direttore scientifico di BoneHealth, ha riassunto in questo video i punti chiave che emergono dalle nuove linee guida pubblicate dall’Endocrine Society, raccomandazioni da utilizzare nella pratica clinica per i pazienti sani che non hanno patologie.

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Impatto dell’obesità sul metabolismo osseo durante l’infanzia e l’adolescenza

L’infanzia e l’adolescenza rappresentano periodi cruciali per la salute ossea a lungo termine. Tuttavia, l’impatto dell’obesità su queste fasi di sviluppo è ancora oggetto di dibattito, probabilmente a causa della mancanza di parametri standardizzati per i marcatori del turnover osseo (BTM) specifici per età, sesso e stadio puberale, che riflettano in modo sensibile il metabolismo osseo. Questo studio si propone di colmare tale lacuna, generando curve di riferimento dei BTM per età, sesso e stadio puberale nei bambini e adolescenti, e analizzando l’effetto dell’obesità sul metabolismo osseo nella popolazione cinese.

Metodologia

Lo studio si inserisce nel progetto “Valutazione e Monitoraggio della Nutrizione e della Crescita Scolastica a Shenzhen”. Sono stati selezionati 800 partecipanti di età compresa tra i 6 e i 18 anni, con un indice di massa corporea (BMI) nella norma, al fine di creare curve di riferimento per i BTM in base all’età, al sesso e allo stadio puberale. Inoltre, sono stati scelti 200 partecipanti con obesità (BMI superiore al 95° percentile) e abbinati 1:1 con bambini sani del gruppo originario. Tutti i partecipanti hanno subito una valutazione della densità minerale ossea, e sono stati misurati i livelli sierici del Propeptide Aminoterminale Procollagene Tipo 1 (P1NP) e del telopeptide C-terminale del collagene di tipo I (CTX).

Discussione

I valori dei marcatori del turnover osseo hanno mostrato significative differenze in base all’età, al sesso e allo stadio puberale. L’analisi dei livelli sierici dei BTM, basata sulle curve di riferimento, ha rivelato che nei ragazzi con obesità vi era una maggiore percentuale di P1NP basso (P = .005), mentre nelle ragazze non sono state osservate differenze significative. Tuttavia, nel gruppo delle ragazze obese si è riscontrata una percentuale significativamente più alta di β-CTX elevato (P = .022), una differenza che non è stata riscontrata nei ragazzi. Questi risultati suggeriscono che l’obesità possa influenzare negativamente la formazione ossea nei ragazzi e il riassorbimento osseo nelle ragazze.

 

Lo studio

Wu C, Li Z, Li Y, Zhao X, Shang Y, Zheng R, Su Q, Li Y, Fu R, Lu W, Xiong J, Su Z. Abnormal Bone Turnover Observed in Obese Children based on Puberty Stage-Specific Bone Turnover Marker Reference. J Clin Endocrinol Metab. 2024 Sep 16;109(10):2478-2490. doi: 10.1210/clinem/dgae206. PMID: 38557870.

Impatto di omega-3, vitamina D3 e attività fisica sulla salute cardiovascolare negli anziani

L’età è il principale fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD), e gli anziani hanno maggiori probabilità di soffrire di declino funzionale e mortalità elevata dopo eventi cardiovascolari maggiori. La prevenzione delle CVD è cruciale per promuovere un invecchiamento sano, e modelli di stratificazione del rischio, come SCORE2-OP, includono biomarcatori ematici e clinici. Studi come HYVET, SPRINT, PROSPER ed EWTOPIA guidano il trattamento, ma permangono dubbi sull’efficacia e sicurezza degli interventi, specialmente per i pazienti anziani. Le statine, sebbene efficaci nel ridurre eventi cardiovascolari maggiori, sollevano preoccupazioni riguardo ai potenziali rischi, come l’aumento del diabete e dell’ictus emorragico, soprattutto negli over 75. Inoltre, gli anziani sono più suscettibili agli effetti collaterali a causa di variazioni legate all’età nella farmacodinamica e interazioni da politerapia.

Recentemente, gli interventi non farmacologici, come omega-3, vitamina D3 e attività fisica, hanno attirato interesse per il loro effetto sui biomarcatori delle CVD e nella prevenzione degli eventi cardiovascolari maggiori (MACE). Diversi studi supportano l’efficacia dell’attività fisica nella riduzione dei MACE, mentre omega-3 e vitamina D3 migliorano i profili lipidici e influenzano il rischio di CVD. Tuttavia, mancano prove sufficienti da studi clinici su larga scala sugli effetti di questi interventi negli anziani, poiché sono spesso sottorappresentati in queste ricerche. Pertanto, un recente studio clinico randomizzato controllato ha studiato l’impatto di vitamina D3, omega-3 e un programma di esercizi domestici sulla salute cardiovascolare in anziani sani e attivi.

Metodo

Lo studio DO-HEALTH è stato un trial triennale, in doppio cieco, randomizzato e controllato con placebo, condotto su 2157 adulti sani di età pari o superiore a 70 anni in sette città europee. Ha valutato tre interventi (vitamina D3, omega-3 e allenamento per la forza) utilizzando un disegno fattoriale 2x2x2. I partecipanti sono stati assegnati a una delle otto combinazioni di trattamento e seguiti per tre anni, con visite annuali e controlli trimestrali per monitorare infezioni, uso di farmaci e altri eventi. I biomarcatori del sangue e i MACE erano endpoint secondari ed esplorativi dello studio.

I campioni di sangue sono stati analizzati per lipidi, Proteina C-reattiva (CRP), troponina e N-Terminale del Propeptide Natriuretico di Tipo B (NT-proBNP), mentre i MACE includevano infarti, ictus e rivascolarizzazione coronarica. L’aderenza ai trattamenti è stata alta (85,8% per le pillole e 62% per l’esercizio fisico). Lo studio ha incluso solo partecipanti senza malattie cardiovascolari o diabete preesistenti, e ha escluso chi assumeva dosi elevate di vitamina D o omega-3 prima dell’arruolamento.

L’analisi statistica ha esaminato le interazioni tra trattamenti e ha utilizzato modelli di regressione per valutare l’effetto sugli esiti. Risultati e modelli sono stati controllati per variabili come età, sesso e indice di massa corporea.

Discussione

I risultati hanno mostrato che l’integrazione di omega-3 ha ridotto i trigliceridi e aumentato il colesterolo buono (HDL), ma ha avuto effetti contrastanti sul colesterolo cattivo (LDL), non-HDL e colesterolo totale rispetto al placebo. Tuttavia, non si è riscontrato alcun effetto significativo sui MACE, ipertensione o biomarcatori cardiovascolari come troponina e NT-proBNP. Gli interventi con vitamina D3 e esercizio fisico non hanno mostrato benefici significativi su questi esiti.

In linea con altri studi, come VITAL e REDUCE-IT, gli omega-3 non hanno dimostrato di ridurre in modo significativo i MACE, tranne in casi di rischio cardiovascolare elevato e con dosi maggiori. Anche la vitamina D3 non ha avuto effetti protettivi, in linea con altri studi come VITAL e D-HEALTH, che non hanno trovato benefici sull’insufficienza cardiaca. Infine, il programma di esercizi fisici non ha mostrato benefici sui MACE, probabilmente perché i partecipanti erano già fisicamente attivi.

Lo studio DO-HEALTH, pur con alcune limitazioni (breve durata e popolazione sana e attiva), ha confermato che né omega-3 né vitamina D3 o esercizio fisico hanno un impatto significativo sulla prevenzione dei MACE o dell’ipertensione in questa fascia di età.

 

Lo studio

Gaengler S, Sadlon A, De Godoi Rezende Costa Molino C, Willett WC, Manson JE, Vellas B, Steinhagen-Thiessen E, Von Eckardstein A, Ruschitzka F, Rizzoli R, da Silva JAP, Kressig RW, Kanis J, Orav EJ, Egli A, Bischoff-Ferrari HA. Effects of vitamin D, omega-3 and a simple strength exercise programme in cardiovascular disease prevention: The DO-HEALTH randomized controlled trial. J Nutr Health Aging. 2024 Feb;28(2):100037. doi: 10.1016/j.jnha.2024.100037. Epub 2024 Jan 9. PMID: 38199870.

Diabete di tipo 1 e fragilità ossea: l’abaloparatide apre nuove prospettive terapeutiche

Il diabete di tipo 1 (T1-DM) è una malattia autoimmune che causa la distruzione delle cellule β del pancreas e una carenza permanente di insulina. Nel 2022, c’erano 8,75 milioni di persone con T1-DM, con un’ampia distribuzione di età. Una complicazione riconosciuta di questa condizione è la fragilità ossea, che aumenta significativamente il rischio di fratture, come quelle dell’anca, che possono risultare fatali nel 20% dei casi entro 12 mesi. I meccanismi alla base del deterioramento osseo includono il ridotto turnover osseo, i cambiamenti nella microarchitettura ossea e i prodotti finali della glicazione avanzata (AGE).

Nonostante la necessità di trattamenti osteoanabolici, non ci sono studi clinici che supportano il loro utilizzo nei pazienti con T1-DM. Studi preclinici su topi hanno dimostrato che i peptidi derivati dal PTHrP, così come la teriparatide (PTH) e l’abaloparatide (ABL), possono ripristinare l’osso perso e migliorare la microarchitettura ossea. Nel confronto tra questi due agenti, ABL ha mostrato una maggiore efficacia rispetto a PTH nel migliorare la resistenza ossea e correggere i difetti meccanici, senza influenzare il controllo metabolico del diabete.

Questi risultati suggeriscono che la protezione ossea tramite attivazione del recettore PTH1R è indipendente dal controllo glicemico, aprendo nuove prospettive per il trattamento del deterioramento osseo nel T1-DM.

Metodo

Nel modello sperimentale, topi maschi di 11 settimane sono stati randomizzati in base alla densità minerale ossea (BMD) spinale e suddivisi in vari gruppi. Il diabete di tipo 1 (T1-DM) è stato indotto tramite iniezioni di streptozotocina (STZ) e confermato da glicemia >250 mg/dl a distanza di 18 giorni dopo l’inizio delle iniezioni. Dopo 4 settimane, i topi diabetici e di controllo sono stati ulteriormente divisi in gruppi trattati con veicolo, PTH umano o ABL, con trattamenti somministrati per via sottocutanea 5 volte a settimana. Le misurazioni di densità ossea, microarchitettura e parametri biomeccanici sono state effettuate 28 giorni dopo. Il glucosio nel sangue è stato monitorato con test di tolleranza al glucosio. Sono state analizzate le proprietà biomeccaniche delle ossa e il contenuto di citrato, mentre l’espressione genica è stata valutata tramite la reazione a catena della polimerasi (PCR).

Discussione

Questo studio ha utilizzato un modello murino di diabete mellito di tipo 1 (T1-DM) per confrontare l’efficacia dei ligandi anabolici del recettore PTH1R, PTH e ABL, nel migliorare la formazione e il rimodellamento osseo compromessi dalla malattia. I risultati mostrano che ABL è più efficace del PTH nell’aumentare la formazione ossea e ha effetti più duraturi. ABL ha un impatto più profondo sia sull’osso trabecolare che corticale, migliorando le proprietà strutturali e la resistenza ossea. Inoltre, sia PTH che ABL riducono l’espressione di sclerostina, un fattore chiave del basso turnover osseo nei pazienti con diabete. Complessivamente, ABL si dimostra più potente di PTH nel promuovere la salute ossea in condizioni sia fisiologiche che diabetiche.

 

Lo studio

Marino S, Ozgurel SU, McAndrews K, Cregor M, Villaseñor A, Mamani-Huanca M, Barbas C, Gortazar A, Sato AY, Bellido T. Abaloparatide is more potent than teriparatide in restoring bone mass and strength in type 1 diabetic male mice. Bone. 2024 Apr;181:117042. doi: 10.1016/j.bone.2024.117042. Epub 2024 Feb 13. PMID: 38360197.

Romosozumab seguito da Denosumab migliora gli esiti dell’osteoporosi in pazienti ad alto rischio

Le recenti linee guida sull’osteoporosi raccomandano l’uso di agenti osteoanabolizzanti come terapia iniziale per pazienti ad altissimo rischio di frattura, grazie alla loro efficacia nel migliorare rapidamente la densità minerale ossea (BMD) e ridurre il rischio di fratture rispetto ai bifosfonati. Tuttavia, non esistono studi che confrontino direttamente questi agenti con denosumab (DMAb), un potente antiriassorbitore. Romosozumab (Romo), un inibitore della sclerostina, aumenta la formazione ossea e riduce il riassorbimento. Lo studio FRAME ha dimostrato che Romo, seguito da DMAb, aumenta la BMD e riduce il rischio di fratture vertebrali, cliniche e non vertebrali. Nell’estensione dello studio FRAME, i benefici di Romo sono stati mantenuti anche a 36 mesi. Un’analisi post hoc ha confrontato l’efficacia della combinazione Romo-DMAb con DMAb in monoterapia, mostrando vantaggi significativi in termini di BMD e prevenzione delle fratture.

Metodo

Lo studio ha incluso partecipanti degli studi FRAME e FRAME Extension, focalizzandosi su donne di età tra 55 e 90 anni con bassa BMD. Le partecipanti sono state randomizzate a ricevere Romo o placebo per 12 mesi, seguiti da DMAb per 12 o 24 mesi. L’analisi post hoc ha confrontato due coorti: una che ha ricevuto Romo seguito da DMAb e l’altra trattata con DMAb per l’intero periodo. Le variazioni della BMD e il rischio di frattura sono stati confrontati tra le coorti, utilizzando metodi statistici come la ponderazione del punteggio di propensione per bilanciare le caratteristiche dei gruppi. Le analisi di sensibilità, inclusa l’imputazione multipla per gestire i dati mancanti, hanno confermato la robustezza dei risultati.

Discussione

Questa analisi post hoc ha confrontato l’efficacia di una sequenza di 24 mesi di Romo seguito da DMAb rispetto a 24 mesi di solo DMAb nel trattamento dell’osteoporosi. I risultati mostrano che la combinazione Romo/DMAb ha prodotto un aumento della BMD più del doppio rispetto al solo DMAb, con un guadagno significativo a livello della colonna lombare, dell’anca totale e del collo del femore. Inoltre, la sequenza Romo/DMAb ha ridotto del 50% le nuove fratture vertebrali rispetto a DMAb da solo.

L’analisi ha anche dimostrato che il regime Romo/DMAb aumenta la probabilità di raggiungere punteggi di BMD superiori al livello osteoporotico, riducendo così il rischio di fratture. Tuttavia, le differenze nell’incidenza di fratture non vertebrali e dell’anca non sono risultate statisticamente significative, probabilmente a causa della bassa gravità dell’osteoporosi nella popolazione studiata.

Nonostante i limiti, come il disegno post hoc e la dimensione limitata del campione, lo studio ha evidenziato la superiorità della sequenza Romo/DMAb rispetto a DMAb da solo, supportando l’uso di farmaci osteoanabolici nei pazienti ad alto rischio di fratture.

 

Lo studio

Cosman F, Oates M, Betah D, Timoshanko J, Wang Z, Ferrari S, McClung MR. Romosozumab followed by denosumab versus denosumab only: a post hoc analysis of FRAME and FRAME extension. J Bone Miner Res. 2024 Sep 2;39(9):1268-1277. doi: 10.1093/jbmr/zjae116. PMID: 39041711; PMCID: PMC11371899.

Efficacia del burosumab nella sindrome da iperfosfatemia cutanea-scheletrica: un caso di trattamento off-label

La sindrome da ipofosfatemia cutanea-scheletrica (CSHS) è una rara malattia ossea caratterizzata da alterazioni scheletriche e cutanee, causata da varianti patogene della famiglia RAS che attivano un mosaico somatico. La CSHS comporta una sovrapproduzione del fattore di crescita dei fibroblasti-23 (FGF23), il quale inibisce l’assorbimento renale e intestinale del fosfato, portando a ipofosfatemia. Ciò provoca sintomi come dolore osseo, rachitismo, deformità ossee e ridotta crescita e mobilità.

Il trattamento convenzionale con fosfato e vitamina D attiva non riesce a contrastare la sovrapproduzione di FGF23, che perpetua lo spreco renale di fosfato. Burosumab, un anticorpo monoclonale che neutralizza FGF23, ha recentemente dimostrato di essere superiore alla terapia convenzionale per il trattamento dell’ipofosfatemia legata all’X (XLH) nei bambini, un’altra condizione a esordio infantile legata alla sovrapproduzione di FGF23 e quindi simile alla CSHS.

In questo studio, si descrive l’uso off-label di burosumab in una ragazza con CSHS che non rispondeva alla terapia convenzionale. L’obiettivo principale era valutare il dosaggio e la risposta al trattamento con questo anticorpo anti-FGF23 in un caso moderato-grave di CSHS.

Risultati

Il caso descritto riguarda un paziente a cui è stato diagnosticato un nevo sebaceo lineare all’età di 4 mesi, con lesioni estese sul lato sinistro del corpo. A quasi 3 anni ha sviluppato dolore osseo, scarsa crescita e deformità degli arti, con diagnosi di ipofosfatemia e rachitismo. Nonostante il trattamento convenzionale con fosfato e vitamina D attiva, il paziente non ha ottenuto miglioramenti significativi, né clinici né biochimici.

A 3 anni e 7 mesi, il paziente è stato trattato con burosumab, un anticorpo monoclonale anti-FGF23. Il livello di fosfato sierico è migliorato rapidamente, così come altri parametri biochimici. Dopo 26 mesi di trattamento, sono stati osservati miglioramenti nella crescita (altezza oltre il 3° percentile, peso al 50°) e nella deformità degli arti inferiori. Sebbene sia stata notata una nuova lesione femorale asintomatica, il paziente ha tollerato bene il trattamento senza effetti avversi significativi.

Discussione

Questo studio descrive il trattamento con burosumab in un paziente con sindrome del nevo sebaceo lineare e ipofosfatemia mediata da FGF23, una condizione rara nota come CSHS. Il paziente ha mostrato un miglioramento clinico, biochimico e radiografico, con burosumab ben tollerato anche a dosaggi ridotti rispetto a quelli utilizzati per l’ipofosfatemia legata all’X (XLH). Ciò potrebbe essere dovuto alla minore osteomalacia sistemica presente nella CSHS rispetto all’XLH.

Nonostante i miglioramenti, il paziente ha sviluppato nuove fratture osteomalaciche durante il trattamento. Questo suggerisce che le lesioni scheletriche displastiche tipiche della CSHS, caratterizzate da anomalie strutturali, potrebbero persistere nonostante il ripristino dell’equilibrio fosfatemico. Il mancato completo recupero delle fratture potrebbe anche essere causato dalle deformità ossee, che potrebbero richiedere interventi chirurgici, o da una disregolazione della mineralizzazione scheletrica, potenzialmente legata a osteopontina, un inibitore della mineralizzazione, come ipotizzato in altre condizioni genetiche correlate alla famiglia RAS.

Il trattamento con burosumab ha migliorato i livelli di fosfato e altri marker biochimici, ma il paziente ha ancora bisogno di un follow-up per valutare la guarigione completa delle fratture.

Conclusione

Questo caso dimostra l’efficacia di burosumab nel trattamento della CSHS, una condizione rara per la quale le opzioni terapeutiche sono limitate. I risultati suggeriscono che burosumab potrebbe essere utilizzato anche in altre forme di ipofosfatemia mediate da FGF23, oltre all’XLH e all’osteomalacia indotta da tumori. Si raccomandano ulteriori studi per comprendere meglio il legame tra mosaicismo genetico nella CSHS e le caratteristiche scheletriche, al fine di ottimizzare il dosaggio, la risposta clinica e il monitoraggio della terapia con burosumab.

 

Lo studio

Abebe L, Phung K, Robinson ME, Waldner R, Carsen S, Smit K, Tice A, Lazier J, Armour C, Page M, Dover S, Rauch F, Koujok K, Ward LM. Burosumab for the treatment of cutaneous-skeletal hypophosphatemia syndrome. Bone Rep. 2023 Nov 11;20:101725. doi: 10.1016/j.bonr.2023.101725. PMID: 38229908; PMCID: PMC10790024.

Vitamina D e riduzione del rischio cardiovascolare nei pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico

Il lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia autoimmune che, oltre a contribuire a un deterioramento della salute ossea incrementando il rischio di osteoporosi e fratture, aumenta il rischio di malattie cardiovascolari (CVD) rispetto alla popolazione generale. I pazienti con LES presentano un doppio picco di mortalità: uno legato all’attività della malattia e alle infezioni, l’altro alle CVD, aterosclerosi e danni agli organi. Fattori di rischio non tradizionali come alti livelli di interleuchina sei (IL-6), interferone alfa (IFN α), fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) e proteina C-reattiva (CRP), fibrinogeno, lipoproteina ​​a bassa densità ossidata (ox-LDL) e ipovitaminasi D (bassi livelli sierici di calcidiolo) interagiscono in un ciclo di feedback positivo con i tradizionali fattori di rischio CVD tra cui ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia. La vitamina D, con proprietà immunomodulatrici, può influenzare il rischio di CVD, ma la sua carenza è comune nei pazienti con LES. Studi suggeriscono che una dieta ricca di vitamina D e alimenti sani potrebbe ridurre i rischi cardiovascolari e migliorare l’infiammazione. Questo studio mira a valutare il potenziale legame tra vitamina D e CVD nel LES.

Metodo

Lo studio trasversale ha coinvolto 224 donne con LES, diagnosticate secondo i criteri ACR, e 201 donne sane reclutate tra il 2017 e il 2021. I criteri di inclusione per le pazienti con LES comprendevano: essere donne di età ≥18 anni, BMI tra 16 e 40 kg/m², e diagnosi di LES fatta da un reumatologo. Per le donne sane, i criteri di inclusione erano essere maggiorenni, senza storia di malattie autoimmuni, e con BMI tra 16 e 40 kg/m². Sono state escluse partecipanti con infezioni recenti, in gravidanza o in allattamento.

Le misurazioni includevano parametri antropometrici (BMI, rapporto vita-fianchi e rapporto vita-altezza) e biochimici (livelli di colesterolo, trigliceridi, glucosio e CRP ad alta sensibilità). Inoltre, sono stati calcolati vari indici cardiometabolici per valutare il rischio cardiovascolare: indice di Castelli (colesterolo totale), il rapporto tra trigliceridi e colesterolo lipoproteico ad alta densità (TG/HDL-C), indice cardiometabolico (punteggio CMI) e prodotti di accumulo dei lipidi (punteggio LAP). I livelli di vitamina D (calcidiolo) sono stati misurati con un test ELISA.

La dieta è stata analizzata tramite questionari e registri alimentari, valutando l’assunzione di vitamina D e identificando tre modelli alimentari principali: uno ricco di alimenti contenenti vitamina D, un modello occidentalizzato e un paniere di mercato di base. L’analisi statistica ha incluso test parametrici e non parametrici, regressione lineare e logistica per valutare l’associazione tra i modelli alimentari, l’assunzione di vitamina D e i rischi cardiometabolici nei pazienti con LES e nel gruppo di controllo.

Discussione

Le CVD rappresentano una delle principali cause di morte nei pazienti affetti da LES. Tra i fattori di rischio modificabili legati allo stile di vita, i livelli sierici di vitamina D e la dieta possono rappresentare bersagli terapeutici importanti. Lo studio ha rilevato che una carenza di vitamina D (calcidiolo) è associata a livelli più bassi di HDL-C e a un rischio maggiore di colesterolo totale elevato, oltre che a un eccesso di peso. Un modello cardiometabolico sfavorevole è stato osservato in pazienti che non seguivano una dieta ricca di vitamina D. La carenza di calcidiolo è legata a un aumento di tessuto adiposo, che ne trattiene una parte, contribuendo a livelli sierici più bassi di vitamina D, soprattutto nei pazienti obesi. Anche l’obesità compromette la produzione di calcidiolo a causa della steatosi epatica.

La vitamina D ha un ruolo fondamentale nelle funzioni endoteliali, influenzando l’infiammazione e le cellule del sistema immunitario. In pazienti con LES e carenza di vitamina D si è osservata una maggiore attività clinica della malattia. L’integrazione di vitamina D ha dimostrato di ridurre i marker di infiammazione e migliorare il profilo immunologico e metabolico. Inoltre, livelli sufficienti di calcidiolo migliorano i parametri cardiovascolari, promuovendo la vasodilatazione, riducendo l’aggregazione piastrinica e i livelli di trigliceridi.

Lo studio ha evidenziato che una dieta ricca di fonti alimentari di vitamina D, come pesce, latticini e uova, è associata a un miglior profilo cardiometabolico. Tuttavia, sia i pazienti con LES che quelli sani non raggiungevano la dose giornaliera raccomandata di vitamina D. In generale, una dieta sana e bilanciata, ricca di frutta, verdura e acidi grassi polinsaturi, sembra essere un fattore protettivo contro le CVD, grazie alla riduzione dell’infiammazione e al miglioramento della salute metabolica.

Infine, lo studio sottolinea la necessità di ulteriori ricerche per comprendere meglio il ruolo della vitamina D e della dieta nei pazienti con LES e nelle popolazioni generali, considerando le differenze socioeconomiche e geografiche.

 

Lo studio

Ruiz-Ballesteros AI, Betancourt-Núñez A, Meza-Meza MR, Rivera-Escoto M, Mora-García PE, Pesqueda-Cendejas K, Vizmanos B, Parra-Rojas I, Campos-López B, Montoya-Buelna M, Cerpa-Cruz S, De la Cruz-Mosso U. Relationship of serum and dietary vitamin D with high cardiometabolic risk in Mexican systemic lupus erythematosus patients: A cross-sectional study. Lupus. 2024 Jul;33(8):851-863. doi: 10.1177/09612033241252060. Epub 2024 May 6. PMID: 38709772.

Osimertinib e la reazione ossea osteoblastica nel tumore al polmone non a piccole cellule con mutazione EGFR

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Le metastasi ossee sono comuni nei pazienti con cancro polmonare non a piccole cellule (NSCLC) avanzato, colpendo il 30-40% dei casi e causando dolore, fratture e riduzione della qualità di vita. Queste metastasi possono essere sclerotiche, litiche o miste. Le lesioni sclerotiche, presenti soprattutto in pazienti con mutazione del recettore EGFR, sono associate a una prognosi migliore. La reazione ossea osteoblastica (OBR), che indica la formazione di nuovo osso, è stata osservata in pazienti con NSCLC trattati con inibitori della tirosin-chinasi (TKI). Il TKI dell’EGFR di terza generazione, osimertinib, ha dimostrato di essere superiore ai TKI di prima generazione, gefitinib ed erlotinib, in termini di sopravvivenza libera da progressione (PFS) e sopravvivenza globale (OS); pertanto, è ora ampiamente raccomandato come trattamento di prima linea per i pazienti con NSCLC che presentano mutazioni dell’EGFR. Tuttavia, studi precedenti che hanno valutato l’OBR nel NSCLC con mutazione di EGFR erano mirati solo ai pazienti trattati con TKI di prima generazione; pertanto, questo studio mira a valutare la prevalenza e gli effetti clinici dell’OBR in pazienti trattati con osimertinib. Riconoscere l’OBR è cruciale per evitare di confondere questo fenomeno con la progressione della malattia e modificare erroneamente i trattamenti.

Metodo

Lo studio di coorte retrospettivo monocentrico ha esaminato pazienti con NSCLC con mutazione EGFR e metastasi ossee trattati con osimertinib come prima linea. Sono stati esclusi coloro che non avevano eseguito una tomografia computerizzata (TC) post-trattamento o avevano ricevuto radioterapia prima della valutazione. I dati clinici, inclusi mutazioni e metastasi ossee, sono stati raccolti per valutare l’eventuale comparsa di OBR, in particolare l’aumento della densità ossea o nuove lesioni sclerotiche. Le relative immagini TC sono state valutate indipendentemente da un radiologo e un oncologo. L’efficacia del trattamento è stata valutata secondo i criteri di valutazione della risposta nei tumori solidi versione 1.1 (RECIST 1.1), mentre la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e da eventi scheletrici (SRE-FS) sono state calcolate tramite analisi Kaplan-Meier. Le analisi statistiche includevano modelli di regressione di Cox per esaminare l’associazione tra OBR, PFS e SRE-FS.

Discussione

Questo studio è il primo a esaminare la prevalenza e le caratteristiche della reazione ossea osteoblastica (OBR) nei pazienti con NSCLC con mutazione EGFR trattati con osimertinib. L’OBR si è manifestata nell’82% dei pazienti, una percentuale più alta rispetto a studi precedenti. Ciò suggerisce che osimertinib potrebbe avere un impatto maggiore sulle metastasi ossee rispetto ad altre terapie, inibendo il reclutamento di osteoclasti e promuovendo la formazione ossea.

Tre risultati principali sono emersi dallo studio:

  1. Tipi di metastasi ossee: il 38% dei pazienti ha mostrato metastasi sclerotiche, e il trattamento con osimertinib ha influenzato tutti i tipi di metastasi (litiche, miste e sclerotiche).
  2. Sviluppo dell’OBR: l’OBR si è verificata anche in lesioni non visibili alla TC iniziale ma rilevate successivamente.
  3. Sedi delle metastasi: l’OBR può verificarsi in diversi siti ossei, come vertebre, costole e bacino.

Lo studio ha anche rilevato che l’OBR è associata a una migliore sopravvivenza libera da eventi scheletrici (SRE-FS). Tuttavia, quando l’OBR non è stata rilevata, i pazienti hanno avuto un rischio maggiore di SRE e una sopravvivenza peggiore. Lo studio ha delle limitazioni, tra cui la natura retrospettiva, la piccola dimensione del campione e il breve periodo di osservazione.

 

Lo studio

Kanaoka K, Sumikawa H, Oyamada S, Tamiya A, Inagaki Y, Taniguchi Y, Nakao K, Matsuda Y, Okishio K. Osteoblastic bone reaction in non-small cell lung cancer harboring epidermal growth factor receptor mutation treated with osimertinib. BMC Cancer. 2023 Sep 6;23(1):834. doi: 10.1186/s12885-023-11360-w. PMID: 37674153; PMCID: PMC10481568.