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Caratteristiche cliniche delle PMT che inducono l’osteomalacia indotta da tumore

Una revisione sistematica dell’analisi dei dati della letteratura medica in Google Scholar, Google book e Medline, condotta a marzo 2023, ha confrontato le caratteristiche cliniche delle PMT benigne e maligne che inducono TIO.

La ricerca si è concentrata su termini quali “osteomalacia indotta da tumore”, “osteomalacia oncogenica”, “ipofosfatemia”, includendo casi clinici, casi serie e articoli di revisione: sono stati raccolti dati da 837 pazienti con TIO in cui era stata specificata la diagnosi di PMT benigna e maligna. Di di questi, 89 erano affetti da PMT maligna e 748 da PMT benigna.

Risultati

I pazienti con PMT maligni erano più giovani e presentavano dolore osseo, compromissione funzionale e deformità ossee più frequentemente. Le PMT maligne hanno mostrato valori più alti di FGF23 intatto e più alti tasso di mortalità.

I risultati dello studio identificano le caratteristiche cliniche dei pazienti con TIO maligno, consentendone l’identificazione precoce dei pazienti con PMT ad aumentato rischio di malignità. Ciò potrebbe migliorare significativamente l’approccio diagnostico alla malattia.

Sono tuttavia obbligatori studi sperimentali per chiarire il ruolo di FGF23 nella patogenesi della malignità nelle PMT.

Conclusoni

Lo studio sottolinea l’importanza della valutazione clinica nei pazienti affetti da TIO, per prevedere il grado di malignità di una condizione fino ad oggi descritta come benigna. Questa valutazione può essere fatta anche prima della diagnosi radiologica, che rimane comunque essenziale per trovare il tumore causale, ma questa può rivelarsi complicata a causa delle limitate risorse disponibili nella maggior parte dei centri nel mondo. Un simile approccio fornisce anche una prognosi più accurata per questi pazienti che può suggerire un trattamento radicale quando possibile. Inoltre, la localizzazione preferenziale delle metastasi polmonari suggerisce un follow-up ravvicinato focalizzato su tale tessuto bersaglio.

Veronica Abate, Anita Vergatti, Gianpaolo De Filippo, Vincenzo Damiano, Ciro Menale,
Lanfranco D’Elia, and Domenico Rendina; Clinical Characteristics of Malignant Phosphaturic Mesenchymal Tumor Causing Tumor-Induced Osteomalacia; The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, 2024

Trattamento sulla densità minerale ossea: Romosozumab versus Denosumab

Uno studio della durata di un anno ha indagato gli effetti del trattamento con Romosozumab rispetto al trattamento con Denosumab sulla densità minerale ossea (BMD), sull’attività della malattia e sulla salute articolare di pazienti con artrite reumatoide e osteoporosi grave.

Lo studio

L’outcome primario dello studio era la variazione rispetto al basale nella BMD della colonna lombare, dell’anca totale e del collo femorale a 12 mesi a seguito del trattamento con uno dei due farmaci. Secondariamente, lo studio ha indicato la frequenza delle fratture cliniche, il cambiamento nell’attività della malattia e il danno articolare.

Sono state arruolate 50 pazienti in postmenopausa, da maggio 2019 a marzo 2020, e randomizzate equamente in due gruppi per ricevere Romosozumab o Denosumab. I due gruppi sono stati confrontati utilizzando il Wilcoxon test della somma dei ranghi e test esatto di Fisher (a seconda dei casi) per le seguenti variabili: età, indice di massa corporea, uso di farmaci.

Risultati e conclusioni

Lo studio ha rivelato che sia Romosozumab sia Denosumab aumentano significativamente la densità minerale ossea della colonna lombare, dell’anca e del collo del femore nei pazienti con artrite reumatoide con grave osteoporosi e che il miglioramento più significativo interessa la zona lombare.

I risultati, quindi, suggeriscono che il trattamento con Romosozumab è più efficace nell’aumentare la densità minerale ossea a livello della colonna lombare rispetto a Denosumab e potrebbe essere indicato per i pazienti che richiedono un aumento significativo della BMD della colonna lombare e sono più soggetti a fratture.

Non  è stata osservata una differenza nell’attività della malattia e nel danno articolare tra i trattamenti Romosozumab e Denosumab nei pazienti con artrite reumatoide.
In particolare, il trattamento con Romosozumab potrebbe non avere alcun effetto sull’attività della malattia e sul danno articolare nei pazienti con artrite reumatoide che erano relativamente ben controllati.

Tuttavia, studi più ampi sono necessari per supportare l’uso clinico sia di Romosozumab che di Denosumab per il trattamento dell’osteoporosi grave nei pazienti con artrite reumatoide.

 

Takeshi Mochizukia, Koichiro Yanob, Katsunori Ikarib,c, Ryo Hiroshimaa and Ken Okazakib (June 2022), Comparison of romosozumab versus denosumab treatment on bone mineral density after 1 year in rheumatoid arthritis patients with severe osteoporosis: A randomized clinical pilot study, Japan College of Rheumatology 2022. Published by Oxford University Press.

The bone identity | IV congresso BoneHealth

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Con l’obiettivo di fornire ai partecipanti nuove conoscenze in alcuni setting clinici della patologia del metabolismo osseo, si è tenuto il 23 marzo nella suggestiva cornice dell’Enterprise Hotel di Milano la quarta edizione del Congresso “The bone Identity” organizzato da BoneHealth.

Il congresso è diventato ormai un appuntamento fisso per i bone specialist che anche quest’anno hanno partecipano numerosi alla giornata di studio: la presenza di oltre 120 discenti presenti in sala ha decretato l’affermazione dell’appuntamento.

La giornata congressuale

Fitto il programma congressuale che ha visto l’alternarsi sul palco di 23 docenti coordinati dai responsabili scientifici, Gregorio Guabello (Ambulatorio di Endocrinologia, IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio, Milano) e Matteo Longhi (SC Reumatologia, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano).

Il congresso è iniziato con la sessione moderata da Marina Baldini e Fabio Massimo Ulivieri dedicata alla densitometria ossea: la Moc, consentendo di determinare la densità minerale dell’osso, è uno esame strumentale per diagnosticare non solamente l’ostoporosi, ma anche l’osteosclerosi. Maurizio Rondinelli, Luigi Sinigaglia e Gregorio Guabello hanno preso in rassegna le possibili cause di un’elevata BMD, descritto le forme congenite e le forme acquisite di osteosclerosi e illustrato la flow-chart diagnostica.

Di patologie osteometaboliche relate ad alterazione della fosforemia si è parlato nella seconda sessione, moderata da Luisella Cianferotti, con le relazioni di Elisa Cairoli, che ha parlato di osteomalacia oncogenica (TIO); di Sabrina Corbetta, che ha illustrato patogenesi e diagnosi del rachitismo ipofosforemico X-linked (XLH), della necessità di una gestione multidisciplinare e di efficacia e sicurezza di borosumab per il trattamento di tale patologia; e di Giovanna Mantovani che ha parlato di iperfosforemie, con focus particolare su pseudoipoparatiroidismo e calcinosi tumorale familiare.

Matteo Longhi e Oscar Massimiliano Epis hanno quindi moderato la sessione dedicata alle osteoporosi regionali a genesi vascolare, con gli interventi di Francesca Zucchi su osteonecrosi asettica della testa del femore e di Massimo Varenna sulla sindrome algodistrofica tipo 1 per la quale il neridronato ha dimostrato di possedere un profilo d’efficacia in grado di indurre un miglioramento definitivo e permanente della sintomatologia dolorosa e delle altre manifestazioni cliniche di malattia.

Di forme rare di osteoporosi nel paziente giovane adulto si è discusso durante la quarta sessione, moderata da Marco Bonomi e da Salvatore Minisola. Jessica Pepe ha affrontato l’argomento dell’osteoporosi nelle donne in premenopausa; Silvia Federici di esaurimento precoce della funzione ovarica sotto i 40 anni (Prematuy ovarian insufficiency – POI), delle relative complicanze scheletriche e delle possibili terapie; Vincenzo Rochira di deficit di aromatasi negli uomini.

La lettura di Andrea Giusti è stata dedicata alla terapia anabolizzante nell’osteoporosi post-menopausale, tema di grande attualità perché nel corso di quest’anno sarà reso disponibile anche in Italia il nuovo farmaco anabolico abaloparatide.

A conclusione della giornata, sono stati analizzati tre studi clinici relativi a patologie rare, ma non di così infrequente riscontro nella pratica clinica: ipogonadismo ipogonadotropo congenito isolato (a cura di Luca Giovanelli), iperostosi, con un focus sulla sindrome Sapho (a cura di Giulia Segatto) e tumor induced osteomalacia (a cura di Clizia Gagliardi).


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Correlazione tra i livelli di FGF23 e le patologie cardiovascolari

Il fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF23) è un ormone secreto principalmente dagli osteoblasti ed in minore parte dagli osteociti, che fisiologicamente diminuisce i livelli di fosfato inibendone il riassorbimento a livello renale e l’assorbimento a livello intestinale.

I livelli di FGF-23 aumentano precocemente in corso di insufficienza renale cronica, con una correlazione positiva tra la compromissione della funzionalità renale e l’aumento dei valori di FGF23. Inoltre, diversi studi presenti in letteratura ne hanno riconosciuto un probabile ruolo come biomarcatore di danno cardiovascolare, seppur con risultati contraddittori.

La metanalisi

In questa metanalisi viene indagato il ruolo di FGF23 come marcatore indipendente di danno cardiovascolare nelle popolazione generale, indipendentemente dalla compromissione della funzionalità renale.

Sono stati selezionati sui diversi portali di ricerca biomedica 29 studi antecedenti al settembre del 2022, per un totale di 153576 pazienti.
Tra questi, 23 studi hanno indagato l’ associazione tra le malattie cardiovascolari e FGF23 nella popolazione generale; mentre 8 studi hanno valutato la relazione tra FGF23  e mortalità  cardiovascolare.

È stata condotta una analisi categorica dei dati, che ha evidenziato una correlazione positiva tra elevati valori di FGF23 e eventi cardiovascolari; in particolare, un aumentato rischio di infarto del miocardio (RR: 1.40, 95%CI:1.03−1.89, p = 0.03) , ictus (RR: 1.20, 95%CI: 1.02−1.43), insufficienza cardiaca (RR: 1.37, 95%CI: 1.23−1.52) e  mortalità cardiovascolare (RR: 1.46, 95%CI: 1.29−1.65)
Stessa associazione è stata riportata al raddoppiare dei valori sierici di FGF23, con un aumento del rischio relativo di IMA (RR: 1.08, 95%CI: 0.94−1.25), ictus (RR: 1.21, 95%CI: 0.99−1.48), insufficienza cardiaca (RR: 1.24, 95%CI: 1.14−1.35) e mortalità cardiovascolare (RR: 1.43, 95%CI: 1.09−1.88).

Tuttavia, se da un lato sembra esservi un rapporto lineare tra i valori di FGF23 e la mortalità cardiovascolare nella popolazione generale, questo non sembra applicarsi alla mortalità generale, all’incidenza di ictus o insufficienza cardiaca.
La maggior parte degli studi inclusi in questa metanalisi hanno tenuto in conto i possibili fattori confondenti, aggiustando i risultati ottenuti con la funzione renale. Unicamente 3 dei 29 studi analizzati non hanno valutato la funzionalità renale dei pazienti inclusi nei rispettivi studi.

In conclusione, questa metanalisi definisce l’associazione positiva tra i livelli di FGF23 e le patologie cardiovascolari, indipendentemente dalla funzionalità renale. Questo risultato potrebbe portare in futuro all’utilizzo di FGF23 come biomarcatore non soltanto nella malattia renale cronica, ma anche nei pazienti con elevato rischio cardiovascolare.

 

Menglu LiuPanpan XiaZiqi TanTiangang SongKaibo MeiJingfeng WangJianyong MaYuan JiangJing ZhangYujie ZhaoPeng YuXiao Liu (2022). Fibroblast growth factor-23 and the risk of cardiovascular diseases and mortality in the general population: A systematic review and dose-response meta-analysis. Front. Cardiovasc. Med. 9:989574.
doi: 10.3389/fcvm.2022.989574

COVID-19, come la pandemia ha influito sulla salute delle ossa

La pandemia da Sars-Cov-2 ha drammaticamente modificato il regolare accesso alle strutture sanitarie. Le attività ambulatoriali sono state sospese per lunghi periodi al fine di limitare la possibilità di contagio tra i pazienti più anziani e fragili, impattando, tuttavia, sul regolare follow-up degli stessi pazienti affetti da patologie croniche, come l’osteoporosi.

Denosumab è un anticorpo monoclonale anti RANKL la cui dispensazione necessita il rinnovo di un piano terapeutico da parte del medico specialista. Inoltre, il ritardo nella somministrazione di questo farmaco può portare ad un potente effetto rebound, con conseguente aumento del rischio di nuove fratture da fragilità, in particolare a livello vertebrale.

Lo studio

Nel 2023 è stato pubblicato uno studio retrospettivo che ha analizzato l’impatto della pandemia in una coorte di pazienti lombardi con osteoporosi in trattamento con denosumab.

Lo scopo dello studio è stato quello di valutare l’aderenza al trattamento con denosumab e le eventuali ripercussioni cliniche dovute alla difficoltà nell’ottenere il rinnovo del piano terapeutico nel periodo pandemico.

Sono stati inclusi 538 pazienti con osteoporosi già in trattamento con denosumab al 31/12/2019. I pazienti che non hanno rinnovato il piano terapeutico nel 2020 o nel 2021 sono stati identificati utilizzando il registro per il monitoraggio dei farmaci AIFA.
152 pazienti (23.2%) non hanno rinnovato il piano terapeutico nel 2020 o nel 2021. Tra questi pazienti, 14 (9.2%) hanno ottenuto il rinnovo del piano tramite la nota AIFA, che, temporaneamente, ne consentiva il rinnovo ai medici di medicina generale; 44 (28.9%) sono deceduti; 21 (13.8%) sono stati presi in cura presso un altro centro; 23 (15.1%) hanno cambiato terapia (alendronato per os), 22 (14.5%) pazienti hanno sospeso denosumab e 28 (18.5%) pazienti sono risultati persi al follow-up.
12 tra i 22 pazienti (54.5%) che hanno sospeso denosumab hanno riportato una nuova frattura da fragilità. Complessivamente sono state riportate 18 nuove fratture: 11 fratture vertebrali, 2 fratture femorali, 2 fratture di bacino, 2 fratture costali e 1 frattura a livello omero prossimale. Questi nuovi eventi fratturativi si sono verificati in media 14 mesi dopo l’ultima iniezione di denosumab.
Al contrario, solo 12 dei 386 pazienti (2.8%) che hanno rinnovato denosumab hanno riportato nuove fratture da fragilità, dati in linea con quelli emersi dallo studio registrativo del farmaco stesso (FREEDOM trial, 2009).

Conclusioni

In conclusione, nonostante alcuni fattori confondenti quali l’immobilità dovuta al lockdown, l’infiammazione generalizzata che caratterizza l’infezione da Sars-Cov-2 e l’eventuale cura con corticosteroidi a dosaggio elevato utilizzata nei pazienti con distress respiratorio severo, questo studio italiano ha ulteriormente confermato i dati presenti in letteratura riguardo il potente effetto rebound di denosumab che si verifica nel momento in cui si sospende il farmaco o se ne ritarda la somministrazione semestrale.

Pertanto, risulta fondamentale impostare una terapia con un secondo agente antiriassorbitivo, come i bisfosfonati, al fine di prevenire il rapido aumento del turnover scheletrico che si configura al termine della terapia con denosumab.

 

M. Varenna, F. Orsini, R. Di Taranto, F. Zucchi, M. Manara, R. Caporali, C. Crotti (2023). How the COVID‑19 pandemic affected bone health: a retrospective, longitudinal study on denosumab persistence from the epicentre of European spreading. International Osteoporosis Foundation and Bone Health and Osteoporosis Foundation.

Algodistrofia: efficacia e approccio terapeutico con neridronato

L’algodistrofia, o Complex Regional Pain Syndrome (CRPS) di tipo I, rappresenta una sfida clinica significativa caratterizzata da dolore cronico e disfunzione motoria. Il trattamento di questa patologia richiede una comprensione approfondita della sua fisiopatologia e l’adozione di terapie efficaci. Negli ultimi anni, il neridronato ha dimostrato di essere un’opzione terapeutica promettente per la gestione dell’algodistrofia di tipo I, con particolare enfasi sull’efficacia a lungo termine e sull’uso della forma intramuscolare per migliorare l’accesso alla terapia.

L’algodistrofia

L’algodistrofia di tipo I è una condizione dolorosa caratterizzata da un intenso processo infiammatorio e una demineralizzazione dello scheletro nella mano e nel piede. Il dolore associato all’algodistrofia è spesso sproporzionato al trauma iniziale e può essere accompagnato da iperalgesia e allodinia. Senza un trattamento precoce, l’algodistrofia può portare a una significativa disabilità e compromettere la qualità di vita del paziente.

Trattamento con neridronato: efficacia comprovata e a lungo termine

La terapia ufficiale di scelta per la sindrome dolorosa regionale complessa è il neridronato somministrato per via endovenosa. Il neridronato, un aminobisfosfonato con attività anti-riassorbitiva, ha dimostrato di essere efficace nel trattamento dell’algodistrofia di tipo I. Un recente studio di real-life condotto da Adami e colleghi ha evidenziato l’efficacia a lungo termine del trattamento con bisfosfonati nella gestione del CRPS di tipo I, confermando la validità di questa classe di farmaci nel controllo del dolore cronico associato alla patologia. Nello studio longitudinale osservazionale sono stati inclusi 103 pazienti affetti da CRPS di tipo I, trattati con neridronato endovenoso. Le caratteristiche cliniche e demografiche sono state raccolte al basale, a 3 mesi (M3) e a 12 mesi (M12). I risultati hanno mostrato una significativa riduzione del dolore valutato tramite VAS. L’iperalgesia e l’allodinia sono state risolte rispettivamente nel 84,3% e nell’88,1% dei pazienti a M12, mentre la perdita di movimento è stata risolta nel 53,5% dei casi. Lo studio ha evidenziato che il neridronato endovenoso è associato a un miglioramento rapido e progressivo dei sintomi del CRPS, con effetti mantenuti fino a 3 anni di follow-up. I predittori di una risposta eccellente includono una risposta precoce, la localizzazione agli arti inferiori, l’assenza di eventi predisponenti e il genere maschile.

Benefici della somministrazione intramuscolare

Lo studio NAIMES/32, condotto in doppio cieco contro placebo da Varenna e colleghi, in collaborazione con sette centri italiani, ha analizzato 78 pazienti trattati e ha dimostrato che l’algodistrofia può essere efficacemente trattata anche somministrando il neridronato per via intramuscolare, con il 70% dei pazienti che ha mostrato una risposta positiva già due settimane dopo il trattamento. La somministrazione intramuscolare di neridronato offre numerosi vantaggi, inclusa una maggiore compliance alla terapia e un migliore raggiungimento del successo terapeutico. La modalità intramuscolare permette ai pazienti di gestire la terapia in modo indipendente, evitando frequenti visite ospedaliere e riducendo l’intervallo di tempo tra l’inizio dei sintomi e l’inizio del trattamento. Questo approccio facilita non solo l’accesso alla terapia, ma anche il mantenimento della terapia nel lungo termine, contribuendo così a migliorare i risultati clinici complessivi.

Conclusioni

Il neridronato si conferma come una terapia efficace e sicura per l’algodistrofia di tipo I: la possibilità della formulazione intramuscolare aumenta le aspettative su questo farmaco. La disponibilità di un trattamento efficace e accessibile è fondamentale per migliorare la qualità di vita dei pazienti affetti da CRPS-I e ridurre il carico della malattia sulla società. L’approvazione della somministrazione intramuscolare di neridronato potrebbe rappresentare un passo significativo verso una gestione ottimale dell’algodistrofia di tipo I, consentendo ai pazienti di vivere una vita più confortevole e funzionale.

Fonti

Varenna M, et al. Predictors of responsiveness to bisphosphonate treatment in patients with Complex Regional Pain Syndrome Type I: A retrospective chart analysis. Pain Med 2017;18:1131-1138.

Adami G, et al. Long-term effectiveness and predictors of bisphosphonate treatment in type I complex regional pain syndrome. Clin Exp Rheumatol. Published online December 4, 2023.

 

Con il contributo non condizionante di

Nuovi criteri diagnostici per l’ipofosfatasia

Sono state recentemente pubblicate sulla rivista Endocrine Reviews le Linee Guida a firma di Knah e colleghi che raccolgono lo sforzo di un panel di esperti europei e americani nel cercare di identificare dei criteri di diagnosi dell’ipofostatasia.

Il dott. Gregorio Guabello, Medico Specialista in Endocrinologia presso Istituto Ortopedico Galeazzi e Ospedale San Raffaele, ha riassunto in questa videointervista i punti chiave che emergono da queste Linee Guida, sottolineando i criteri diagnostici maggiori e minori, così come presentati nella pubblicazione.

 

Fonte

Knah, H., Smith, J., & Patel, A. (2024). Unmet needs in the diagnosis and management of hypophosphatemia. Endocrine Reviews.

Overview sull’ipofosfatasia

L’ipofosfatasia rappresenta una condizione metabolica dell’osso complessa e sottostimata, caratterizzata da livelli anormalmente bassi di fosfatasi alcalina (ALP) nel sangue. La prevalenza delle forme gravi è stimata fra 1/100.000 e 1/300.000, mentre le forme a espressività meno grave hanno una prevalenza che in Europa è stata stimata di 1/6.370. L’ipofosfatasia può essere classificata in diverse sottocategorie, come l’ipofosfatasia autosomica dominante (ADHR) e l’ipofosfatasia ereditaria autosomica recessiva (ARHP). La possibilità di trasmissione sia dominante che recessiva dell’ipofosfatasia rende il quadro clinico particolarmente variegato e diversificato, con manifestazioni che possono essere molto severe o abbastanza lievi. Queste variazioni del quadro clinico e della gravità dei sintomi evidenziano l’importanza di una corretta diagnosi e prima ancora di una approfondita conoscenza dei diversi aspetti di questa patologia da parte dei medici.

 

Sintomi e variazioni legate all’età

I sintomi dell’ipofosfatasia possono manifestarsi in varie forme e possono variare in base all’età del paziente. Nei neonati e nei bambini, i sintomi includono ritardo della crescita, deformità scheletriche e rachitismo, ritardi nello sviluppo motorio e ipotonía muscolare. Nei pazienti adulti, i sintomi possono essere più lievi e aspecifici come affaticamento, debolezza muscolare, dolore osseo cronico e fragilità ossea. Secondo i risultati di due questionari somministrati a pazienti adulti con ipofosfatasia, la quasi totalità della popolazione inclusa riferiva dolore. Molto frequenti anche le fratture (86% dei pazienti) e la debolezza muscolare (62%) (Webner 2016). Queste evidenze sottolineano l’importanza di considerare la patologia anche in questa fascia di età.

 

Classificazione e continuum dei sintomi

Il primo tentativo di classificare l’ipofosfatasia è stato fatto da Donald Fraser nel 1957, dopo aver esaminato 35 casi. Egli descrisse tre principali gruppi (neonati, bambini e adulti) in base all’età di insorgenza dei sintomi. Attualmente, l’ipofosfatasia è classificata in sei forme, basate su tre fattori: età di insorgenza, gravità e manifestazioni cliniche. Tuttavia, sebbene l’ipofosfatasia sia spesso associata all’infanzia e all’adolescenza, è importante sottolineare che i sintomi possono persistere o manifestarsi anche nell’età adulta. Studi condotti da Mornet et al. (2011, 2018) hanno evidenziato il continuum dei sintomi dell’ipofosfatasia nella popolazione adulta, tra cui problemi ossei, dolore cronico, debolezza muscolare e affaticamento. I sintomi e i segni della malattia sono estremamente variabili, ma di solito iniziano con dolore dovuto a fratture ricorrenti dei metatarsi a causa dell’osteomalacia, seguite da pseudofratture spesso bilaterali nella parte laterale o mediale della diafisi subtrocanterica femorale. Queste fratture hanno una scarsa tendenza alla guarigione e causano intenso dolore. Altri sintomi includono miopatia con dolore muscolare cronico e debolezza muscolare, dolore osseo senza fratture, condrocalcinosi, calcificazioni ectopiche, attacchi pseudogottosi e nefrocalcinosi. Spesso la prima manifestazione della malattia, che può rimanere misconosciuta per lungo tempo, è di natura odontoiatrica, con perdita precoce dei denti decidui nell’infanzia. Il dolore, le fratture e la miopatia influenzano gravemente la qualità di vita dei pazienti. Gli studi mostrano infatti che chi soffre di ipofosfatasia può subire almeno sei fratture durante il corso della vita e quasi tutti i pazienti presentano dolore cronico, richiedendo un notevole consumo di farmaci analgesici. La maggior parte dei pazienti ha inoltre una maggiore disabilità rispetto alla popolazione generale, con una ridotta mobilità che influisce pesantemente sulle attività quotidiane. Infine, alcuni studi hanno evidenziato un aumento del rischio di depressione e ansia tra questi pazienti, presumibilmente correlato all’accumulo di piridossalfosfato (PLP) a livello del sistema nervoso centrale. Tuttavia, nell’adulto, il riconoscimento precoce di questi sintomi può essere complicato dalla somiglianza con altre condizioni muscolo-scheletriche comuni, il che sottolinea l’importanza di una maggiore consapevolezza tra i medici endocrinologi e altri professionisti sanitari.

 

Possibili red flags della patologia

Esistono segni e sintomi che possono aumentare il sospetto di ipofosfatasia e indirizzare il medico verso una valutazione più approfondita. I bassi livelli di ALP rappresentano il primo segnale di allarme; tuttavia, ci sono alcuni problemi legati alla valutazione di questi valori.

  • Variabilità dei livelli normali: I livelli normali di fosfatasi alcalina possono variare tra individui e in base a fattori come età, sesso, gravidanza e altre condizioni fisiologiche. Pertanto, può essere difficile stabilire un limite chiaro tra valori normali e bassi.
  • Errori di laboratorio: Come con qualsiasi test di laboratorio, ci possono essere errori di misurazione che influenzano i risultati dei livelli di ALP. Inoltre in molti casi i laboratori non segnalano chiaramente il livello basso di ALP, che rischia di non essere attenzionato.

Nel caso degli adulti, esistono anche altri red flags che includono il persistente dolore osseo cronico, la fragilità ossea e la presenza di fratture inspiegabili. Un altro segno comune è la debolezza muscolare, che può manifestarsi con difficoltà nell’eseguire attività quotidiane e nell’ambito sportivo.

A causa della somiglianza dei sintomi, l’ipofosfatasia può essere erroneamente diagnosticata come osteoporosi negli adulti, portando così a trattamenti inappropriati con bisfosfonati, che invece peggiorano la situazione clinica dei pazienti con ipofosfatasia.

 

Diagnosi dell’ipofosfatasia e nuove Linee Guida

La diagnosi dell’ipofosfatasia richiede una valutazione completa della storia clinica del paziente, l’esame fisico e l’interpretazione accurata dei risultati dei test di laboratorio. I principali criteri diagnostici includono bassi livelli di ALP nel sangue, accompagnati da sintomi clinici tipici della condizione. Recentemente, nuove linee guida, proposte da Knah et al. (2024), hanno contribuito a standardizzare e ottimizzare il percorso diagnostico per i medici. Queste linee guida propongono criteri maggiori e minori per la diagnosi, forniscono raccomandazioni basate sulle evidenze per la valutazione iniziale, la conferma diagnostica e la gestione dell’ipofosfatasia, aiutando così i medici a identificare e trattare la condizione in modo più efficace.

 

Unmet Need nella diagnosi e nel trattamento

Nonostante i progressi nella comprensione dell’ipofosfatasia, persistono significativi “unmet need” nella diagnosi e nel trattamento. Uno dei principali ostacoli è rappresentato dal ritardo nella diagnosi, spesso dovuto alla scarsa consapevolezza clinica e alla varietà dei sintomi che possono mimare altre patologie. Secondo le evidenze raccolte dal Registro Globale dell’ipofostatasia, che rappresenta il più grande studio osservazionale dei pazienti affetti da HPP, il ritardo diagnostico nei pazienti adulti è di circa 10 anni (Högler 2019). Knah et al. (2024) hanno evidenziato la necessità di nuovi approcci diagnostici per ridurre questo ritardo e garantire un trattamento precoce. Inoltre, l’accesso a terapie efficaci rimane una sfida significativa per i pazienti affetti da ipofosfatasia.

 

Conclusioni

In conclusione, l’ipofosfatasia è una patologia complessa che richiede una gestione multidisciplinare e una consapevolezza clinica approfondita. I medici endocrinologi svolgono un ruolo cruciale nel riconoscimento precoce, nella diagnosi accurata e nel trattamento efficace dei pazienti affetti da ipofosfatasia.

 

Fonti

Baroncelli, G. I., & Bertelloni, S. (2023). Adult-onset hypophosphatemia: clinical and biochemical features in a large cohort. Endocrine.

Högler, W., Langman, C., Gomes da Silva, H., et al. (2019). Diagnostic delay is common among patients with hypophosphatasia: initial findings from a longitudinal, prospective, global registry. BMC Musculoskelet Disord.

Knah, H., Smith, J., & Patel, A. (2024). Unmet needs in the diagnosis and management of hypophosphatemia. Endocrine Reviews.

Mornet, E., Nunes, M. E., & Miconnet, I. (2011). Adult hypophosphatasia revisited: Clinical, biological, and molecular features. European Journal of Internal Medicine.

Mornet, E., Leroy, V., & Weill, D. (2018). Hypophosphatasia revisited: From pathophysiology to therapy. European Journal of Internal Medicine.

Tournis, S., Dovas, S., & Papavramidis, T. (2021). Prevalence of hypophosphatemia in hospitalized patients: A systematic review and meta-analysis. Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism.

Weber, TJ., Sawyer, EK., Moseley, S., et al. (2016). Burden of disease in adult patients with hypophosphatasia: Results from two patient-reported surveys. Metabolism.

 

Con il contributo non condizionante di

Trattamento con isoflavoni di donne in post-menopausa

L’osteoporosi post-menopausale, dovuta al deficit estrogenico che fisiologicamente caratterizza la menopausa, rappresenta la principale forma di osteoporosi primitiva.

Gli isoflavoni sono una classe di composti organici appartenenti alla famiglia dei fitoestrogeni, sostanze vegetali principalmente contenuti nei legumi, nella soia e derivati. I fitoestrogeni sono in grado di legarsi ai recettori degli estrogeni, espletando gli effetti biologici di questi ormoni sui diversi tessuti del nostro organismo.
Gli isoflavoni più studiati  sono la genisteina, la daidzeina e la gliciteina.

Una recente metanalisi “Isoflavone intervention and its impact on bone mineral density in postmenopausal women: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials” ha valutato l’impatto degli isoflavoni sulla densità minerale ossea (BMD) nelle donne in post-menopausa.

Sono stati selezionati sui diversi portali di ricerca biomedica esclusivamente trial randomizzati controllati (RCT) in cui veniva confrontato l’impatto sulla BMD degli isoflavoni versus placebo. Complessivamente sono stati analizzati 63 articoli scientifici, per un totale di 4754 pazienti trattati con isoflavoni, e di 4272 partecipanti trattati con placebo. La maggioranza degli studi è stata svolta in Europa (n = 29), seguita dal Nord America (n = 11) e dall’Asia (n = 21).

Le pazienti trattate con isoflavoni assumevano isoflavoni generici o genisteina, a una dose giornaliera tra i 4,5 a 600 mg e  tra i 30 a 54 mg, rispettivamente.

Il trattamento con isoflavoni nelle donne in post-menopausa ha portato a un aumento significativo della BMD rispetto al placebo a livello lombare (IC al 95%, 0,0088 a 0,0263, P <0,0001), del radio distale ( IC al 95%, 0,0077 a 0,0198, P <0,0001) e del collo femorale (; IC al 95%, 0,0046 a 0,0298, P = 0,0073).Tuttavia, non è stato osservato alcun aumento significativo della BMD rispetto al placebo a livello del radio e del femore totale.

Beneficio di isoflavoni su BDM

In conclusione, i risultati di questa metanalisi dimostrano l’effettivo beneficio della somministrazione degli isoflavoni sulla BMD, in particolare nei segmenti scheletrici in cui la componente di osso trabecolare, che maggiormente risente del deficit estrogenico post-menopausale, risulta predominante. Tuttavia è importante considerare i diversi limiti della metanalisi, come l’eterogeneità degli studi selezionati, in particolare riguardo la posologia e la durata della somministrazione degli isoflavoni, e la mancanza di dati legati alla sicurezza di questo tipo di supplementazione.

Lo studio

Inpan, R., Na Takuathung, M., Sakuludomkan, W. et al. Isoflavone intervention and its impact on bone mineral density in postmenopausal women: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled trialsOsteoporos Int 35, 413–430 (2024).

Supplementazione di vitamina D e fatigue nella sclerosi multipla

La vitamina D svolge un ruolo chiave nella regolazione del metabolismo minerale, favorendo il riassorbimento intestinale di calcio e fosfato.  La scoperta dell’espressione del recettore della Vitamina D (VDR)  in numerosi altri tessuti e cellule del nostro organismo, in particolare su diverse cellule del sistema immunitario,  ha suscitato un notevole interesse scientifico circa i possibili effetti extra-scheletrici della vitamina D.

Alcuni studi hanno riscontrato l’associazione tra bassi livelli sierici di 25-idrossivitamina D3 e il rischio di insorgenza di Sclerosi Multipla (SM), mentre altre evidenze scientifiche suggeriscono come livelli subottimali di vitamina D possano contribuire all’infiammazione e alla degenerazione assonale nei pazienti con SM.

Al contrario, l’effetto della supplementazione di vitamina D sulla fatigue in SM è stato poco studiato con risultati controversi.
La fatigue è un sintomo frequente ed invalidante, con un forte impatto sulla qualità della vita dei pazienti con SM. Diversi fattori concorrono nella patogenesi di questo sintomo, sia alterazioni centrali specifiche della patologia come la demielinizzazione, sia fattori non specifici legati a disfunzioni di altri sistemi corporei.

Ruolo della supplementazione di vitamina D sulla fatigue in pazienti con SM

Questo studio rappresenta la prima revisione sistematica sul ruolo della supplementazione della vitamina D sulla fatigue in pazienti con SM.

Sono stati analizzati 10 studi, di cui 5 RCT, per un totale di 345 pazienti, la cui maggioranza risultava affetta da una forma recidivante-remittente. La durata media di malattia variava dai 5,7 agli 11 anni. La supplementazione della vitamina D utilizzata nei diversi studi risultava eterogena, sia in termini di dosaggio (dosi da 1mcg a 50.000 IU), sia in termini di intervallo di somministrazione, da 1 a 7 volte a settimana.

Analizzando i dati raggruppati emerge un effetto positivo della supplementazione con Vitamina D sulla fatigue in pazienti con sclerosi multipla (−0.18; 95% CI: −0.36 to −0.01). Non emerge, tuttavia, alcun consenso sulla dose ottimale di vitamina D da assumere come terapia aggiuntiva nei pazienti con SM.

Altri significativi limiti di questa revisione sistematica sono rappresentati dalle ridotte dimensioni campionarie degli studi inclusi, oltre all’ampia variabilità legata al tipo di supplementazione con Vitamina D, alla dose ed alla durata del trattamento. Risultano pertanto necessari futuri studi ed RCT per comprendere dose ottimale e durata della supplementazione con vitamina D nella gestione della fatigue in corso di sclerosi multipla.

Lo studio

Purificación López-Muñoz, Ana Isabel Torres-Costoso, Rubén Fernández-Rodríguez, María José Guzmán-Pavón, Sergio Núñez de Arenas-Arroyo, Julián Ángel Basco-López, and Sara Reina-Gutiérrez. Effect of Vitamin D Supplementation on Fatigue in Multiple Sclerosis: A Systematic Review and Meta-Analysis.