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Linee guida per il trattamento dell’osteoporosi

In questa seconda parte delle Linee Guida Internazionali vedremo quanto riguarda il trattamento dell’osteoporosi.

Farmaci per osteoporosi approvati da FDA

Attualmente le terapie farmacologiche per prevenire o trattare l’osteoporosi postmenopausale includono: bisfosfonati, estrogeni, ormone paratiroideo, RANKL inibitori e anticorpi monoclonali umani per la sclerostina. In linea generale una terapia che ha mostrato di essere efficace sulla riduzione del rischio di fratture sia vertebrali che non vertebrali è da preferire rispetto a un’altra che non ha questa doppia validità.

Bisfosfonati

I bisfosfontati sono una potente classe di agenti anti-riassorbitivi. Tutti i farmaci appartenenti a questa categoria possono avere effetti collaterali sulle funzioni renali e sono controindicati nei pazienti con una filtrazione glomerulare inferiore a 30-35 mL/min.

Di questi fa parte l’alendronato, approvato sia per la prevenzione che per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale. Alendronato riduce l’incidenza di fratture della colonna e del bacino di circa il 50% durante tre anni di trattamento in pazienti che si erano fratturati in precedenza e con T-score del bacino inferiore a -2,5.

Anche l’acido zoledronico è un bisfosfonato, approvato da FDA per la prevenzione e trattamento dell’osteoporosi postmenopausale con una somministrazione una volta all’anno per il trattamento e una volta ogni due anni per la prevenzione. È stato dimostrato che l’acido zoledronico riduce il rischio di fratture vertebrali del 62-70%, di fratture del bacino del 41% e di fratture non vertebrali del 20-25% durante i tre anni di trattamento.

Analoghi dell’ormone paratiroideo

L’ormone paratiroideo (PTH) è noto per regolare l’omeostasi del calcio. La teriparatide è un frammento del PTH umano sintetizzato approvato dall’FDA per il trattamento dell’osteoporosi sia femminile che maschile per soggetti ad alto rischio di fratture. Teriparatide riduce il rischio di fratture vertebrali del 35-53% nei pazienti dopo circa 18 mesi di terapia, e viene somministrata con iniezioni subcutanee giornaliere. Quando il trattamento non è continuativo può verificarsi una rapida perdita di materiale osseo e va considerata una continuazione della terapia per mantenere la corretta BMD.

RANKL inibitori

La citochina RANK-ligando (RANKL) prodotta dagli osteociti è necessaria per la formazione degli osteoclasti. Sopprimere il RANKL blocca la formazione degli osteoclasti, riducendo la quantità di tessuto osseo riassorbito e portando a una maggiore densità ossea.

Il denosumab è un anticorpo monoclonale umano contro RANKL approvato da FDA per il trattamento di uomini e donne con osteoporosi con un alto rischio di fratture. È approvato per il trattamento di pazienti che hanno fallito o che sono intolleranti ad altre terapie disponibili per l’osteoporosi, è adatto a donne in postmenopausa con osteoporosi ad alto rischio di frattura e per aumentare la massa ossea negli uomini con osteoporosi ad alto rischio frattura.

Denosumab è uno dei farmaci anti-riassorbitivi più potenti disponibili per il trattamento dell’osteoporosi perché va a inibire direttamente la formazione degli osteoclasti e causa l’apoptosi degli osteoclasti già maturi. La sua somministrazione avviene tramite iniezione sottocutanea una volta ogni sei mesi. Purtroppo l’interruzione di denosumab è associata a una rapida perdita di materiale osseo che può portare a multiple fratture vertebrali, soprattutto in pazienti con una storia di fratture alle spalle. Per questo motivo non è consigliato fare una “drug holiday” da questo farmaco.

Sclerostina inibitori

Il romosozumab è un anticorpo monoclonale umano contro la sclerostina, approvato dall’FDA per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale in donne ad alto rischio di frattura (è approvato per gli uomini in alcuni paesi ma gli USA non sono tra questi). Per quanto riguarda la sua efficacia, romosozumab riduce il rischio di fratture e incrementa la BMD della colonna lombare e del bacino più dell’alendroato e teriparatide in donne in postmenopausa con una bassa massa ossea. Viene somministrato con una iniezione sottocutanea mensile per un massimo di 12 mesi a causa di un effetto controproducente sulla formazione ossea dopo un anno di assunzione.

Raggiungimento degli obiettivi della terapia

Con la disponibilità di parametri di riferimento misurabili come BMD, incidenza di fratture e marcatori biochimici del turnover osseo, la strategia “treat-to-target” focalizzata sui risultati, il monitoraggio e la rivalutazione possono essere applicati alla gestione dell’osteoporosi.

Per i pazienti idonei che iniziano la terapia, un periodo di 3 anni di trattamento è quello più ragionevole per raggiungere l’obiettivo finale, quello di aumentare il T-score da -2,8 a > -2,5 e non avere fratture. Una BMD stabile e un anno senza nuove fratture potrebbero essere un obiettivo misurabile per qualcuno con un livello basso BMD e precedenti fratture da fragilità.

Tuttavia, fondamentale per il concetto di “treat-to-target” è il principio secondo cui la risposta alla terapia non è necessariamente sufficiente per raggiungere un livello di rischio accettabile. Un paziente può raggiungere la sua BMD “target” ed essere ancora a rischio troppo elevato di frattura. Questo principio ha implicazioni per la scelta della terapia iniziale.

Terapia combinata e sequenziale

Pazienti con fratture recenti e/o BMD molto bassa (T-score < – 3,0) sono a rischio particolarmente elevato di future fratture. La monoterapia con anti-riassorbitivi potrebbe non essere sufficiente a ridurre il rischio a livelli accettabili in tali pazienti. In questi casi quindi è consigliato passare a una terapia più aggressiva con la combinazione oppure può essere giustificato l’uso sequenziale di farmaci antifratturativi.

La combinazione e/o uso sequenziale di anabolizzanti (ad esempio teriparatide) e potenti antiriassorbitivi (ad esempio denosumab) è stato dimostrato che aumenta la densità minerale ossea e migliora la microarchitettura e la resistenza in modo più efficace rispetto alla mono terapia con qualsiasi agente.

Ci sono ormai numerosi studi a supporto del fatto che la densità minerale ossea e le fratture sono significativamente influenzati dall’ordine in cui vengono somministrati agenti antifratturativi. Un agente anabolizzante somministrato in seguito alla terapia anti-riassorbitiva ha dimostrato impatto minore sulla densità minerale ossea rispetto alla somministrazione dell’anabolizzante come primo trattamento, infatti la terapia anabolizzante dopo un potente anti-riassorbitivo può comportare un’attenuazione dell’effetto benefico raggiunto o addirittura perdita ossea. Quando si considera il trattamento sequenziale, iniziare con la terapia anabolizzante e proseguire con quella antiriassorbitiva è sicuramente preferibile.

I farmaci attualmente approvati dalla FDA per il trattamento dell’osteoporosi maschile includono: bifosfonati, alendronato, risedronato e acido zoledronico; teriparatide e l’inibitore del RANKL denosumab.

Durata del trattamento

Come ogni malattia cronica permanente, l’osteoporosi è meglio gestita quando si procede con una terapia continuativa e un frequente monitoraggio. I benefici terapeutici, infatti, possono essere mantenuti solo con il trattamento.

Una volta interrotta la terapia farmacologica, ci si può aspettare che la BMD e il rischio di frattura ritornino ai valori di base o addirittura peggiori; nel caso dell’interruzione di bisfosfonati ciò avviene lentamente, mentre con l’interruzione di non bisfosfonati avviene una rapida ripresa del turnover osseo, perdita di materiale osseo e aumento del rischio di fratture spontanee.

Un trattamento efficace può aumentare la densità minerale ossea e ridurre le fratture, migliorando il T-score per la bassa massa ossea o addirittura portarlo a un livello fisiologico. Tuttavia, in una persona con una storia di osteoporosi, un T-score nell’intervallo osteopenico o normale non cambia la diagnosi: il paziente ha ancora l’osteoporosi.

La BMD può essere migliorata e il rischio di frattura ridotto; tuttavia, permane il deterioramento della microarchitettura, così come i processi patologici responsabili di tale deterioramento.

“Drug Holiday”

Per i pazienti in terapia con bifosfonati che sembrano avere un livello modesto di rischio di frattura (ad esempio un T-score > – 2,5 e nessuna frattura recente) l’interruzione temporanea (“vacanza”) può essere presa in considerazione dopo 3 anni con terapia endovenosa o 5 anni con terapia orale.

Una vacanza da bifosfonati è definita come una sospensione temporanea della terapia con bifosfonati (fino a 5 anni).

Per i pazienti che continuano a dimostrare un elevato rischio di frattura (ad es. T-score ≤ − 2,5 e/o frattura recente), la continuazione del trattamento con un bifosfonato o una terapia alternativa è la soluzione migliore, e si può portare avanti fino a 10 anni con un bifosfonato orale e fino a 6 anni con acido zoledronico via endovena annuale.

Per i pazienti trattati con un farmaco non bifosfonato, l’effetto terapeutico si dissipa rapidamente con la sospensione. Gli studi indicano che la sospensione di denosumab determina un aumento dei marker del turnover osseo, la riduzione della densità minerale ossea e aumento del rischio di multiple fratture vertebrali, soprattutto in pazienti con una precedente frattura vertebrale.

Riabilitazione e gestione del dolore

La cura del paziente dopo una frattura da fragilità è un processo complesso che coinvolge tre componenti: minimizzare il dolore, ridurre il rischio di fratture secondarie e migliorare la funzionalità. Una cura così sfaccettata si realizza nel modo più efficace quando c’è un vero gruppo sanitario coordinato da professionisti. Una leggera ma costante attività fisica seguita da un professionista è un grade supporto alla riabilitazione del paziente.

Poiché il dolore è una barriera fisica ed emotiva al movimento e all’attività, un’efficace gestione del dolore è una parte fondamentale per la riabilitazione delle fratture, conservazione del tessuto osseo e prevenzione di fratture secondarie.

Il dolore acuto si risolve tipicamente in 6-8 settimane dopo la frattura vertebrale. Tuttavia, alcune persone avvertono dolore per mesi o anni dopo che una completa guarigione della frattura. Un dolore persistente come questo può rendere difficile dormire, camminare e mangiare; può rendere una persona irritabile o depressa privandola dell’indipendenza e pertanto è un fattore da non sottovalutare per la qualità di vita del paziente.

Prevenzione delle fratture secondarie

Idealmente, tutti gli individui a rischio potrebbero essere identificati e gestiti per prevenire la loro prima frattura (prevenzione primaria). Negli ultimi anni sono stati apportati miglioramenti al rilevamento e alla gestione dell’osteoporosi nelle donne di età pari o superiore a 65 anni, ma ancora non sufficienti. Secondo i dati Medicare, in seguito a riparazione della frattura dell’anca, meno di 1 donna su 5 ha ricevuto la raccomandazione di ulteriori interventi, nonostante siano ad altissimo rischio per future fratture secondarie.

Altri studi hanno mostrato tassi ancora peggiori, fino al 95% di pazienti dimessi in seguito alla riparazione della frattura dell’anca senza la prescrizione di un trattamento anti-fratturativo.

Purtroppo la maggior parte dei pazienti non riconosce una frattura come sintomo di una malattia. I medici riscontrano una certa difficoltà nel convincere un paziente che inciampare e rompersi un osso non è sempre attribuibile alla sfortuna o una caduta particolarmente dura, ma può trattarsi di osteoporosi e, sono riconosciuta, porterò a ulteriori fratture, in particolare nel breve termine.

Capire il legame tra trattamento e frattura è fondamentale per motivare i pazienti a intraprendere le molteplici attività individuali necessarie per ridurre il rischio.

Èorad: la campagna di Fedios sostenuta da Bonehealth

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L’osteoporosi è una patologia sistemica dell’apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Si stima che in Italia l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. È una malattia la cui incidenza è destinata a crescere in futuro, anche come conseguenza della miglior aspettativa di vita, comportando un aumento del rischio di fratture e una maggior disabilità.

Il 20 ottobre si celebra la Giornata Mondiale dell’Osteoporosi, a cui FEDIOS (Federazione Italiana Osteoporosi e malattie dello Scheletro) aderisce e punta i riflettori sull’importanza di adottare sani stili di vita per migliorare lo stato di salute delle ossa, con un’adeguata alimentazione, attività fisica e integrazione. Il tema della giornata di quest’anno sarà “Build Better Bones”, un’occasione per sensibilizzare la popolazione e incentivare la prevenzione: nelle giornate del 20 e 21 ottobre si potrà infatti richiedere un consulto telefonico gratuito con un medico specialista chiamando il Numero Verde 800 909225 e il 20 ottobre alcuni ambulatori aderenti all’iniziativa (consultare l’elenco sul sito www.fedios.org) metteranno a disposizione i propri specialisti per un controllo gratuito del rischio di osteoporosi.

L’aderenza alle terapie è tra i principali obiettivi dell’Associazione, che lancia una campagna di sensibilizzazione moderna e innovativa, volta ad agevolare l’aderenza alla terapia con Vitamina D.

Stiamo parlando di èoraD, un servizio gratuito di “reminder” ai pazienti, che ricorda in maniera semplice ed efficace di assumere regolarmente la Vitamina D che è stata prescritta e che, se assunta con intervalli di tempo molto ampi, può essere facilmente dimenticata. Compilando il modulo presente sul sito www.eorad.it con i propri dati personali e medici, si riceverà un messaggio su Whatsapp nel giorno programmato per l’assunzione del farmaco, per non dimenticarsi mai più di questa importante terapia.

Bone Health è orgogliosa di aver contribuito allo sviluppo di questo servizio che contribuisce sia a migliorare l’aderenza al trattamento sia a ottimizzare l’efficacia del trattamento. I benefici della Vitamina D, infatti, sono numerosi ed essenziali per la salute e la sua efficacia dipende molto dalla regolarità dell’assunzione. Pertanto, poter disporre di un servizio a supporto della compliance è fondamentale. Inoltre, la piattaforma scelta, Whatsapp, è la più diffusa e anche le persone anziane hanno ormai imparato a utilizzarla agevolmente.

La Giornata Mondiale dell’Osteoporosi di quest’anno è inoltre una bella occasione per introdurre la partnership tra FEDIOS e l’associazione pazienti MAMog, Mamme con Osteoporosi Gravidica; l’obiettivo comune delle due associazioni è informare i pazienti circa questa patologia, notoriamente associata alle donne in età avanzata e in postmenopausa, che può colpire invece anche le donne nell’ultimo trimestre di gravidanza, causando gravi fratture spontanee.

Accedere al servizio èoraD è semplice e intuitivo, completamente gratuito e ha già dimostrato di essere uno strumento utile al raggiungimento dei migliori risultati per i pazienti che assumono Vitamina D.

“La salute delle ossa è importante, ricordiamoci di prendercene cura e rendiamole più forti: Build Better Bones!”

Linee guida per la prevenzione e trattamento dell’osteoporosi

La rilevazione dell’osteoporosi, la diagnosi e il trattamento dovrebbero essere pratiche di routine in tutti gli ambienti sanitari per adulti. La Bone Health and Osteoporosis Foundation (BHOF) – ex National Osteoporosis Foundation – ha pubblicato per la prima volta le linee guida nel 1999 per fornire informazioni accurate sulla prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi. Da quel momento sono stati apportati notevoli miglioramenti tecnologici e diagnostici per il trattamento dell’osteoporosi.

Raccomandazioni universali

Queste raccomandazioni sono applicabili a donne in post menopausa e uomini di 50 + anni.

  • Consigliare i singoli pazienti sul rischio di osteoporosi, fratture e potenziali conseguenze delle fratture
  • Raccomandare una dieta con un adeguato apporto di calcio
  • Monitorare i livelli sierici di 25-OH vitamina D e mantenerli nel giusto range (sopra i 30ng/mL ma sotto i 50 ng/mL)
  • Consigliare caldamente l’interruzione del consumo di tabacco e alcol eccessivo
  • Per gli anziani residenti in comunità valutare ed eventualmente migliorare i rischi di caduta
  • Prescrivere antidolorifici da banco per pazienti che hanno subito una frattura
  • Considerare qualsiasi frattura negli adulti come un sospetto sintomi di osteoporosi
  • Fare un report dettagliato della storia delle cadute del paziente
  • Svolgere test per la BDM nei pazienti a più alto rischio

Monitoraggio dei pazienti e risposta al trattamento

  • Valutare la BMD dopo 1 e 2 anni dall’inizio della terapia per osteoporosi ad intervalli appropriati in base al livello di rischio del paziente
  • Rivalutare periodicamente il livello di rischio di frattura, la soddisfazione e l’aderenza del paziente alla terapia

L’osteoporosi resta una malattia sottodiagnosticata e sottotrattata nonostante efficaci interventi antifratturativi e le conseguenze potenzialmente letali delle fratture. Tuttavia, ben l’80-95% dei pazienti in alcune strutture cliniche vengono dimessi in seguito alla riparazione della frattura dell’anca senza un trattamento o un piano di gestione antifratturativa.

Le fratture e le loro complicanze sono le conseguenze cliniche di osteoporosi. Le fratture più comuni sono quelle vertebrali (colonna lombare), femore prossimale (anca) e avambraccio (polso). La maggior parte delle fratture negli anziani sono dovute almeno in parte a una massa ossea ridotta, anche quando ci sono stati dei considerevoli traumi. Tutte le fratture sono associate ad un certo grado di bassa densità minerale ossea e aumento del rischio di successive fratture negli anziani.

Una frattura in qualunque parte dello scheletro che si verifichi in un adulto con più di 50 anni andrebbe considerata come un allarme che indica la necessità di ulteriori analisi per l’osteoporosi.

Ciclo di vita dello scheletro

Durante l’infanzia e l’adolescenza, le ossa subiscono un processo chiamato modellamento, durante il quale si forma nuovo osso in un sito e il vecchio osso viene rimosso da un altro sito all’interno dello stesso osso. Questo processo consente alle singole ossa di svilupparsi in dimensione, forma e posizione. Durante la rapida crescita scheletrica nell’infanzia e nell’adolescenza, ci vogliono diversi mesi per mineralizzare l’impalcatura proteica per nuovo osso, chiamato osteoide. Questo ritardo tra la formazione e la mineralizzazione produce periodi di densità ossea relativamente bassa e una maggiore propensione alla frattura. Al contrario la perdita di materiale osseo è associata all’anzianità, aumenta la porosità corticale e si assottigliano le trabecole ossee, creando le condizioni per una fragilità ossea e conseguenti fratture.

Rimodellamento osseo

Lo scheletro risponde dinamicamente a fattori ormonali, meccanici e a stimoli farmacologici attraverso il riassorbimento e la formazione nel processo di rimodellamento osseo, o turnover. Il rimodellamento viene avviato dalle cellule che riassorbono l’osso, gli osteoclasti, che distruggono e rimuovono l’osso danneggiato in un processo chiamato riassorbimento. L’osso scavato viene sostituito con nuovo osso prodotto dagli osteoblasti. I meccanismi che regolano la formazione ossea coinvolgono interazioni complesse che sono in parte mediate da cellule chiamate osteociti. Gli osteociti svolgono un ruolo sia nella formazione che nel rimodellamento osseo.

Valutazione dei rischi di frattura

Tutte le donne in postmenopausa e gli uomini di età pari o superiore a 50 anni dovrebbe essere valutati per il rischio di osteoporosi. In generale, più fattori di rischio ci sono, maggiore è la probabilità che un paziente si fratturi. Le fratture osteoporotiche sono prevenibili. Anche dopo una frattura, l’osteoporosi si può tenere monitorata. Tuttavia, poiché non ci sono segnali di allarme, molte persone affette da osteoporosi non vengono diagnosticate finché non si verifica una frattura. Inoltre la maggior parte delle fratture negli adulti è dovuta a una caduta, e per questo non viene indagato oltre sullo stato di salute delle loro ossa. Per prevenire le fratture secondarie, oltre alle analisi di BMD occorre anche informare il medico delle cadute pregresse, campanello di allarme per una diagnosi di osteoporosi.

Misurazione della densità minerale ossea

La misurazione DXA del bacino e della colonna vertebrale lombare è il metodo più usato per stabilire o confermare la diagnosi di osteoporosi, per valutare i futuri rischi di frattura e per monitorare i pazienti già in cura. La densità minerale ossea misurata con la DXA viene espressa in grammi di minerali per centimetro quadrato; la BDM di un individuo è riportata come la deviazione standard maggiore o minore rispetto alla BMD media. La BMD è stata dimostrata essere strettamente correlata alla forza delle ossa: maggiore è l’incremento della BMD e maggiore sarà la riduzione del rischio di nuove fratture.

Tuttavia queste standardizzazioni diagnostiche non possono essere applicate a qualsiasi soggetto. Le donne in premenopausa, uomini sotto i 50 anni e i bambini non possono essere diagnosticati solo sulla base della densitometria ossea. La decisione di eseguire la misurazione iniziale della densità ossea dovrebbe basarsi sul profilo di rischio di frattura dell’individuo e sui marcatori della salute scheletrica.

Marker biochimici del turnover osseo

La misurazione dei marker biochimici del turnover osseo (BTM) gioca un ruolo essenziale nel valutare il rischio di fratture in determinati individui, per esempio nelle donne in trattamento per cancro al seno c’è una forte perdita di materiale osseo.

I prodotti del rimodellamento osseo possono essere misurati come marcatori dell’attività di turnover; i più importanti tra questi sono il marker del riassorbimento osseo nel siero C-telopeptide (CTX) e nelle urine N-telopeptide (NTX), il marker di formazione ossea nel siero il peptide amino-terminale del collagene di tipo 1 (P1NP). I BTM possono:

  • Predire la rapidità di perdita di materiale osseo in una donna in post menopausa
  • Predire la riduzione del rischio di fratture quando vengono misurati dopo 3-6 mesi dall’inizio del trattamento
  • Possono suggerire quando ricominciare la terapia in caso di sospensione dell’uso di bisfosfonati.

Adeguata assunzione di calcio e vitamina D

Un apporto sufficiente di calcio è necessario per raggiungere il picco di massa ossea e mantenimento della salute delle ossa nel corso della vita. Lo scheletro contiene il 99% delle riserve di calcio del corpo; quando l’apporto dall’esterno è inadeguato, il tessuto osseo viene riassorbito dallo scheletro per mantenere costanti i livelli di calcio sierico.

Non ci sono prove che l’assunzione di calcio in eccesso rispetto alle quantità raccomandate conferisca ulteriore benessere osseo. Tuttavia, ci sono prove che l’assunzione di calcio superiore a 1200-1500 mg/giorno può aumentare il rischio di sviluppare calcoli renali in pazienti predisposti.

La vitamina D facilita l’assorbimento del calcio necessario per la mineralizzazione delle ossa. Il BHOF consiglia un’assunzione quotidiana da 800 a 1000 unità di vitamina D per gli adulti di età pari o superiore a 50 anni. Le raccomandazioni sulla vitamina D sono basate sull’assunzione minima per mantenere i livelli di 25(OH)D sierici di 20 ng/mL; livelli leggermente più alti, intorno ai 30 ng/mL sono associati a un assorbimento ottimale del cacio.

Inibitori della pompa protonica e densità ossea negli anziani

Gli inibitori della pompa protonica (PPI) sono farmaci molto efficaci del trattamento e nella prevenzione di disturbi gastrointestinali quali ulcere peptiche, reflusso gastroesofageo ed esofagiti erosive. Sono stati introdotti nel mercato farmaceutico all’inizio degli anni 80 e da allora sono una delle classi di farmaci maggiormente prescritte per i disturbi gastrointestinali del tratto superiore, soprattutto tra gli anziani, anche grazie alla disponibilità di biosimilari e al loro acquisto senza ricetta. Purtroppo però questa facile reperibilità del prodotto fa si che tra il 50 e l’80% dei pazienti lo assuma in maniera impropria.

Effetti avversi

Proprio a causa dell’uso consistente dei PPI sono stati evidenziati numerosi effetti collaterali, sviluppati principalmente in chi fa uso cronico del medicinale e negli individui più deboli come gli anziani. In questa popolazione la soppressione cronica dell’acidità indotta dai PPI è stata associata ad un aumento del rischio di polmonite acquisita in comunità, infezioni da C. difficile e malnutrizione inclusa ipomagnesiemia. Inoltre, i PPI condividono vie metaboliche comuni con diverse classi di farmaci come i farmaci antinfiammatori, antiaggreganti non steroidei e i bifosfonati, la cui efficacia potrebbe essere ridotta dall’uso dei PPI.

I cambiamenti legati all’età nella massa ossea, nella densità minerale ossea (BMD), nella geometria e nell’architettura ossea, nello spessore dell’osso corticale e nella porosità trabecolare influiscono negativamente sulla resistenza ossea, uno dei determinanti più importanti delle fratture. Il rimodellamento osseo è più veloce e significativamente più evidente nell’osso trabecolare e, per quanto ne sappiamo, i cambiamenti nell’osso trabecolare si verificano nelle prime fasi del percorso verso l’osteoporosi conclamata. L’uso dei PPI potrebbe esacerbare le modifiche legate all’età nella densità e nella forza ossea.

Nonostante la crescente evidenza di una relazione tra PPI e fratture ossee, pochi studi hanno esplorato l’ipotesi che l’uso dei PPI possa essere associato al deterioramento della densità ossea e della geometria strutturale.

Struttura dello studio

InCHIANTI è uno studio epidemiologico sui fattori di rischio per la disabilità motoria nell’anziano, disegnato dal Laboratorio di Epidemiologia Clinica del Consiglio Italiano delle Ricerche sull’Invecchiamento (Firenze), e condotto su un campione rappresentativo di una popolazione residente in Toscana. La popolazione finale era composta da 1038 partecipanti (452 uomini e 586 donne) con dati completi su scansioni di tomografia computerizzata quantitativa periferica (pQCT), assunzioni di farmaci e altre variabili utilizzate nell’analisi qui presentata. In particolare è stata misurata la pQCT perché questa tecnica è stata dimostrata come una delle più efficaci nella valutazione dell’osteoporosi e nella previsione del rischio di fratture osteoporotiche.

Nell’analisi condotta in questo studio sono stati considerati diversi parametri ossei derivati dalle immagini pQCT. La BMD volumetrica trabecolare (vBMDt) (mg/cm3) è stata definita come la densità media dell’area ossea trabecolare rilevata nel sito del 4% della lunghezza tibiale. La BMD volumetrica corticale (vBMDc) (mg/cm3), una misura selettiva della densità volumetrica apparente dell’osso corticale e un indicatore delle proprietà del materiale osseo, è stata misurata nel sito del 38% della lunghezza tibiale. L’area della sezione trasversale ossea totale (tCSA) (mm2), misura della dimensione dell’osso, è stata definita come area all’interno della circonferenza che delimitava tutti i tessuti ossei corticali con una densità superiore a 180 mg/cm3 e misurata nel sito del 38% della lunghezza tibiale.

Sono state condotte anche delle analisi di laboratorio che sono andate a misurare i livelli nel sangue dei seguenti marcatori: 25(OH)-vitamina D, PTH, IGF-1 totale, testosterone, estradiolo (E2) e interleuchina-6 (IL-6).

Infine è stato preso in considerazione anche lo stato di salute cognitivo; la prestazione cognitiva globale è stata valutata utilizzando il Mini-Mental State Examination (MMSE) eseguito da un geriatra esperto entro una settimana dal prelievo di sangue. Il livello di attività fisica nell’anno precedente all’intervista è stato classificato su una scala ordinale basata sulle risposte ad un questionario standard modificato.

I risultati

Le caratteristiche dei partecipanti sono state presentate per l’intero campione e i partecipanti sono stati classificati in base all’utilizzo dei PPI. La prevalenza dell’uso di PPI tra gli anziani residenti nella comunità dell’InChianti è stata del 3,4%. La maggior parte delle persone assumeva PPI (70%) a causa della gastroprotezione durante il trattamento con FANS o con aspirina cronica; il restante 30% era in terapia con PPI a causa dell’ulcera peptica gastrointestinale. L’età media dell’intera popolazione era di 75,7±7,4 anni. Gli utilizzatori di PPI di sesso maschile erano più anziani rispetto ai non utilizzatori, mentre gli utilizzatori di PPI di sesso femminile erano più giovani rispetto ai non utilizzatori. Dopo l’aggiustamento per età, le utilizzatrici e le non utilizzatrici di PPI non differivano significativamente nei livelli di estradiolo e di testosterone biodisponibile. Allo stesso modo, gli utilizzatori maschi e i non utilizzatori di PPI non hanno mostrato differenze nei livelli di estradiolo e di testosterone biodisponibile.

Rispetto ai non utilizzatori, gli utilizzatori di PPI avevano una BMI significativamente più bassa (25,8±4,1 vs 27,5±4,0), livelli più bassi di testosterone biodisponibile e IGF-1, mentre i livelli di E2 erano simili nei due gruppi. Dopo l’aggiustamento per età e sesso, gli utilizzatori di PPI hanno mostrato un vBMDt significativamente inferiore rispetto ai non utilizzatori (180,2 ± 54,0 vs 207,6 ± 59,4). Non è stata osservata alcuna differenza significativa nel totale di vBMD, vBMDc, misure della dimensione ossea e marcatori di resistenza ossea tra gli utilizzatori e i non utilizzatori di PPI.

Dopo l’adeguamento per molteplici potenziali predittori di vBMDt come apporto calorico, PTH, vitamina D, assunzione di calcio, livelli di E2, IL-6, IGF-1 e Bio-T, la relazione tra uso di PPI e vBMDt è rimasta statisticamente significativa. Per distinguere i bias di indicazione abbiamo anche testato le differenze nelle misure pQCT negli utilizzatori e nei non utilizzatori di anti-H2; 12 partecipanti sono stati identificati come utilizzatori di bloccanti H2 (1,16% dell’intera popolazione). Dopo l’aggiustamento per età e sesso, non è stata riscontrata alcuna relazione significativa tra l’uso di bloccanti H2 e BMD, vBMDc o vBMDt.

Analisi dei dati

Si tratta del primo studio che va a valutare i parametri di massa e geometria ossea in relazione all’utilizzo di PPI nei pazienti anziani.

I risultati dello studio hanno escluso qualsiasi associazione significativa tra l’uso dei PPI e la geometria ossea. Questi dati non sorprendono perché i parametri della geometria ossea sono fortemente correlati alla stimolazione meccanica ossea piuttosto che ad altri modulatori farmacologici. Al contrario, è stata trovata una relazione significativa tra l’uso dei PPI e vBMDt.

È più probabile che l’area trabecolare sia sensibile a diversi fattori metabolici e farmacologici rispetto alla corticale e potrebbe essere considerata la parte “metabolicamente attiva” dell’osso. L’osso trabecolare risponde rapidamente agli stimoli meccanici, ai fattori di crescita circolanti e alle citochine, perché le sue cellule ossee primarie (situate nella superficie) sono nelle loro più strette vicinanze. Al contrario, l’osso corticale è principalmente coinvolto nel conferire resistenza ossea complessiva. Interferendo con il metabolismo minerale, i PPI conferiscono un rischio maggiore di fratture attraverso effetti dannosi sull’osso trabecolare. Questi farmaci agiscono direttamente sull’osso metabolicamente più attivo e possono peggiorarne la qualità e il metabolismo minerale senza influenzare la geometria ossea. Inoltre, i cambiamenti della qualità ossea legati all’età aumentano di per sé il rischio di fratture e morbilità.

Sono state proposte alcune ipotesi per giustificare la relazione tra PPI e fratture ossee; tuttavia, i meccanismi alla base di questa associazione non sono ancora chiari.

Le ipotesi

I PPI potrebbero esercitare un’interferenza farmacologica con i bifosfonati orali, in particolare con l’acido alendronico, il farmaco più utilizzato per l’osteoporosi nella popolazione anziana. Escludendo le persone che assumono farmaci che interferiscono con il metabolismo osseo, si esclude anche la plausibilità di tale meccanismo.

Un’altra ipotesi riguarda la correlazione tra ipocloridria e la riduzione della proteolisi gastrica da parte dei PPI. Come conseguenza dell’ipocloridria si verifica una diminuzione della biodisponibilità o un ridotto assorbimento di importanti micronutrienti e vitamine coinvolti nel metabolismo osseo come calcio, magnesio e vitamina B-12. Nonostante il potenziale legame tra uso di PPI e calcio, non è stata riscontrata alcuna differenza significativa nei livelli sierici di calcio tra gli utilizzatori e i non utilizzatori di PPI.

Inoltre, la soppressione cronica dell’acido gastrico indotta dai PPI provoca ipergastrinemia. Sia l’ipergastrinemia che la ridotta biodisponibilità del calcio potrebbero influenzare negativamente il metabolismo osseo e minerale, probabilmente attraverso l’induzione di iperplasia e ipertrofia delle ghiandole paratiroidi con conseguente aumento dei livelli di PTH. La secrezione persistentemente elevata di PTH in relazione alla concentrazione sierica di calcio può portare ad un aumento del rischio di fratture a causa della perdita di resistenza e qualità ossea, tuttavia, lo studio non evidenzia alcuna differenza significativa nei livelli di PTH tra gli utilizzatori e i non utilizzatori di PPI. Un’altra interessante ipotesi alla base della relazione negativa tra uso di PPI e fratture è stata legata alla nota interferenza di questa classe di farmaci con l’assorbimento e l’escrezione del magnesio; sono stati infatti segnalati molti casi di ipomagnesiemia sono stati osservati in pazienti in trattamento con PPI a lungo termine. Anche in questo caso però lo studio non ha evidenziato una differenza significativa nei livelli di magnesio tra gli utilizzatori di PPI e i non utilizzatori.

Denosumab: efficacia del trattamento per osteoporosi

L’osteoporosi è maggiormente comune nelle donne in postmenopausa, in quanto la mancanza di estrogeni porta ad un aumento del turnover osseo con una perdita di materiale osseo a causa del riassorbimento che supera il processo di formazione. Esistono diversi trattamenti per questa malattia, uno dei più noti è anticorpo monoclonale denosumab; questa review ha lo scopo di riassumere i dati più rilevanti tratti dagli studi su denosumab in donne in postmenopausa.

Proprietà farmacodinamiche

Denosumab lega selettivamente RANKL (receptor activator of NFkB ligand), impedendogli di interagire e attivare RANK (il suo recettore) sulla superficie degli osteoclasti e dei loro precursori. Di conseguenza la formazione, il funzionamento e la sopravvivenza degli osteoclasti è inibita, portando ad una riduzione del riassorbimento osseo.

I livelli nel siero di marker del riassorbimento osseo calano velocemente dopo una dose da 60mg di denosumab sottocutaneo in donne in postmenopausa con osteoporosi o con una bassa densità minerale ossea (BMD). Il trial clinico più grande e maggiormente riconosciuto è il FREEDOM, durante il quale il denosumab nelle condizioni precedentemente menzionate è stato comparato all’effetto placebo dopo 1, 6 e 36 mesi; è stata subito evidente la riduzione rispettivamente del 86, 72 e 72% dei livelli di collagene di tipo 1 C-telopeptide (CTX), uno dei più importanti marker del riassorbimento osseo, e del 18, 50 e 76% dei livelli di procollagene tipo 1 N-terminale (P1NP), marker della rigenerazione ossea.

I marker del turnover osseo (BTM) hanno dimostrato di diminuire per tutta la durata della terapia, che per i pazienti che hanno acconsentito a partecipare all’estensione dello studio clinico FREEDOM è stata di 10 anni. IL BTM tende a incrementare nuovamente verso la fine di ciascun intervallo di tempo che intercorre tra una somministrazione di denosumab e l’altra, probabilmente a causa della sintesi compensatoria di RANKL.

Gli studi sulla farmacodinamica non hanno evidenziato eventi avversi sulla mineralizzazione dell’osso, sulla microarchitettura o sulla formazione di osso lamellare; sul lungo termine è stato osservato che il turnover osseo rimane basso e che la microarchitettura dell’osso viene mantenuta per un periodo di 10 anni nei pazienti che hanno proseguito la terapia sino a questo punto.

Il confronto

Negli studi di confronto analizzati a 1 anno, denosumab sottocutaneo 60 mg è stato generalmente più efficace rispetto ai regimi con bifosfonati nel ridurre le misure di turnover osseo in donne PM con bassa BMD o osteoporosi. Ad esempio, denosumab ha significativamente ridotto i livelli sierici di CTX e P1NP rispetto all’alendronato orale 70 mg una volta alla settimana in tutte o nella maggior parte delle tempistiche valutate (1,2,6,9 e 12 mesi) anche nei pazienti che avevano ricevuto alendronato per più di 6 mesi.

Allo stesso modo, in un altro studio, i pazienti che ricevevano un regime di bifosfonati orali e che passavano a denosumab hanno avuto riduzioni significativamente maggiori dei livelli sierici di CTX (in tutte le tempistiche analizzate dopo il giorno 10) e di P1NP dopo un mese e dal terzo mese in avanti rispetto a coloro che sono passati all’acido zoledronico 5 mg per via endovenosa una volta all’anno.

In particolare, il denosumab (a differenza dei bifosfonati) non viene incorporato nell’osso e, di conseguenza, i suoi effetti sulle BTM, sulla BMD e sulle misure istomorfometriche sono in genere reversibili dopo la sua interruzione.

Efficacia terapeutica

La sperimentazione di fase 3 di tre anni e la sua estensione di 7 anni forniscono i dati più completi a lungo termine per il trattamento con denosumab e per questo è oggetto di questa review.

Rischio di fratture

Il denosumab è risultato efficace nel ridurre il rischio di fratture nelle donne con osteoporosi da PM; nell’arco di 3 anni, denosumab ha significativamente ridotto il rischio di nuove fratture vertebrali del 68% (endpoint primario), di fratture non vertebrali del 20% e di fratture dell’anca del 40% rispetto al placebo.

A lungo termine, il beneficio antifrattura di denosumab si è mantenuto fino a 10 anni di trattamento, secondo i dati ricavati dall’estensione di FREEDOM. Tra i pazienti originariamente randomizzati a denosumab che hanno continuato il trattamento nell’estensione, l’incidenza annuale di nuove fratture vertebrali, non vertebrali e dell’anca è rimasta bassa negli anni da 1 a 7 dell’estensione similmente a quella degli anni 1-3 dello studio principale. I risultati dello studio FREEDOM sono supportati dallo studio DIRECT, sicuramente più piccolo ma ugualmente randomizzato, a doppio cieco e in fase tre, in cui pazienti giapponesi con osteoporosi (il 95% dei quali donne in postmenopausa) hanno avuto una significativa riduzione del rischio di fratture vertebrali (del 66% all’endpoint primario) con il denosumab rispetto al placebo. Il farmaco si è rivelato inoltre più efficace nella riduzione del rischio di frattura rispetto all’alendronato.

Densità minerale ossea

La BMD, misurata con DXA, è significativamente migliorata nei tre anni di FREEDOM, nei pazienti che hanno assunto denosumab rispetto al placebo, in diverse aree dello scheletro, inclusi il bacino, il rachide lombare e il collo del femore. Inoltre, durante l’estensione dello studio, si è continuato ad osservare un progressivo incremento della BMD associato a denosumab per tutti i 10 anni di terapia, con nessuna evidenza di raggiungimento di un plateau.

È emerso che il denosumab sottocutaneo è stato più efficace rispetto ai regimi con bifosfonati nell’aumentare la BMD nelle donne in postmenopausa con bassa BMD o osteoporosi. Il denosumab ha aumentato significativamente la BMD dell’anca totale (endpoint primario), della colonna lombare (anch’esso endpoint primario), del collo del femore e/o di un terzo del radio rispetto all’alendronato orale somministrato una volta alla settimana.

Ulteriori parametri analizzati

Coerentemente con i miglioramenti della BMD osservati con denosumab, la resistenza ossea è aumentata con il farmaco in vari siti nell’arco di 3 anni nelle analisi di FREEDOM. Per esempio, in un’analisi parallela (n = 99 valutati) il farmaco ha aumentato significativamente la forza stimata dell’osso a livello dell’anca e della colonna vertebrale rispetto al placebo a 1, 2 e 3 anni, come misurato dall’analisi degli elementi finiti basata sulla QCT.

Altri parametri ossei valutati in modo simile, tra cui porosità, spessore e massa, sono anch’essi migliorati con denosumab in vari siti negli studi secondari FREEDOM; ad esempio, in 3 anni di trattamento con denosumab è significativamente aumentato lo spessore corticale e la massa del femore prossimale, e si è ridotta significativamente la porosità in tutte le regioni corticali, con quest’ultimo miglioramento correlato a una maggiore resistenza ossea.

Come è tipico delle terapie per l’osteoporosi, la qualità di vita correlata alla salute non è migliorata con denosumab nei tre anni di trattamento durante il trial FREEDOM, con cambiamenti medi rispetto al valore basale nei punteggi delle funzionalità fisiche, dello stato emotivo e del dolore alla schiena secondo il questionario di valutazione dell’osteoporosi, i cui risultati non differiscono significativamente tra i riceventi denosumab e placebo.

I risultati del questionario di preferenza e soddisfazione ha però sottolineato che la grande maggioranza dei pazienti ha preferito aderire alla terapia con le iniezioni subcutanee rispetto all’ingerimento della capsule orali dell’alendronato. La persistenza e l’aderenza al trattamento con denosumab in due diversi studi è stata dell’82% a 12 mesi e del 59% a 24 mesi,  un risultato notevolmente più favorevole rispetto ai dati di persistenza dei bifosfonati orali ottenuti da una meta-analisi (45 e 30% a 12 e 24 mesi).

Tolleranza al farmaco

Denosumab 60 mg, somministrato ogni 6 mesi tramite iniezione sottocutanea, è stato generalmente ben tollerato per un periodo fino a 10 anni in donne PM con bassa BMD o osteoporosi (incluse quelle ad alto rischio di frattura o con insufficienza renale).

Nell’arco di 3 anni in FREEDOM, denosumab non si è differenziato significativamente rispetto al placebo nella percentuale di pazienti che hanno manifestato eventi avversi (AE) emersi durante il trattamento (93 vs. 93%), eventi gravi con necessità di trattamento (TEAE) (26 vs. 25%), morte (1.8 vs. 2.3%) o interruzione del farmaco in studio a causa di TEAE (4,9 vs. 5,2%).

Tra i TEAE, eczema (3,0 vs. 1,7%) e flatulenza (2,2 vs. 1,4%) si sono verificati in un numero significativamente maggiore in denosumab rispetto al placebo, mentre il contrario per le cadute non correlate alla frattura. La tolleranza al denosumab è rimasta costante per tutta la durata del trattamento, anche quello esteso a 10 anni.

Dettaglio molto importante è la reversibilità del trattamento, ovvero che il turnover osseo e la BMD possono tornare ai livelli basali dopo l’interruzione del farmaco, facendo sorgere legittimi dubbi sul fatto che i pazienti possano incorrere in una maggior fragilità ossea dopo la sospensione, motivo per cui viene consigliata una terapia di mantenimento.

Dosaggio e somministrazione

Per il trattamento di donne PM con osteoporosi che hanno un rischio aumentato o elevato di frattura o che hanno fallito o sono intolleranti ad altre terapie per l’osteoporosi disponibili, il dosaggio raccomandato di denosumab nell’Unione Europea e negli Stati Uniti è di 60 mg somministrati ogni sei mesi attraverso una singola iniezione sottocutanea nell’addome, nella parte superiore del braccio o della coscia. I pazienti devono inoltre ricevere un’adeguata integrazione di calcio e vitamina D, particolarmente importante per i pazienti con grave insufficienza renale o in dialisi, a causa dell’aumento del rischio di ipocalcemia. Inoltre va ricordato che denosumab non va somministrato in concomitanza con altri farmaci contenenti la stessa molecola.

Conclusioni

La scelta di una terapia appropriata richiede la considerazione dell’efficacia antifratturativa, tollerabilità e del costo, anche se l’opzione di prima linea per la maggior parte dei pazienti dovrebbe essere un agente con efficacia antifratturativa ad ampio spettro, tra cui alcuni bifosfonati (alendronato, risedronato e acido zoledronico) e il denosumab. Per i pazienti che non possono assumere bifosfonati orali (per ragioni come la tollerabilità o le controindicazioni) o con il più alto rischio di fratture, la somministrazione di denosumab o acido zoledronico endovenoso sono i trattamenti da preferire.

Il denosumab riduce il turnover osseo inibendo la formazione, la funzione e la sopravvivenza degli osteoclasti prevenendo l’interazione RANKL-RANK. Nel più ampio studio su denosumab in questo contesto (FREEDOM), il farmaco ha ridotto il rischio di fratture vertebrali, non vertebrali e dell’anca, e ha aumentato la BMD in vari siti anatomici per 3 anni. Inoltre, le donne che hanno continuato il farmaco nell’estensione di ulteriori 7 anni hanno continuato a trarre benefici antifratturativi e (a differenza di altri antiriassorbitivi) hanno continuato a guadagnare in BMD fino a 10 anni di terapia.

Infine nella buona riuscita di questo grande trial FREEDOM ha un merito il metodo di somministrazione, infatti i trattamenti che vengono somministrati meno frequentemente sono generalmente considerati preferibili, dai pazienti e dai medici, rispetto alla somministrazione giornaliera del farmaco.

Trattamenti farmacologici per l’osteoporosi maschile

L’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro caratterizzata da una ridotta massa ossea e da un deterioramento microarchitettonico del tessuto osseo, che porta a un aumento della fragilità ossea e delle fratture. Queste ultime rappresentano un grave problema di salute conseguente all’osteoporosi, che comporta un aumento del rischio di mortalità, disabilità, perdita di indipendenza e aumento dei costi medici. In tutto il mondo, il 23% delle donne e il 12% degli uomini è affetto da osteoporosi, con una prevalenza che aumenta significativamente con l’età; è stato evidenziato che le fratture negli uomini sono associate a maggiori complicazioni e un maggior bisogno di cure a lungo termine.

Negli anni sono stati sviluppati diversi trattamenti farmacologici per ridurre il rischio di fratture in pazienti con osteoporosi, rivelando la loro efficacia, comprendendo però negli studi clinici principalmente donne in postmenopausa. È invece ormai accettato dalle agenzie regolatorie la concessione dell’immissione in commercio di questi farmaci anche per gli uomini affetti da osteoporosi, a seguito di alcuni studi integrativi.

In questi studi, il risultato primario non è più il rischio di frattura, ma piuttosto un aumento della densità minerale ossea (BMD) simile a quello osservato nelle donne. I requisiti per questi trial clinici di integrazione del sesso maschile includono l’uso della stessa formulazione, dose e via di somministrazione; l’inclusione della popolazione maschile con lo stesso rischio di frattura delle donne in postmenopausa prese in analisi precedentemente; cambiamenti di BMD simili alle donne in uno studio della durata di un anno.

Nonostante l’efficacia del trattamento farmacologico sugli uomini è meno studiata rispetto alle donne, alcuni studi pubblicati recentemente hanno evidenziato dei risultati simili negli uomini. L’obiettivo di questa review è quindi identificare e riportare l’efficacia degli interventi farmacologici contro l’osteoporosi negli uomini attraverso una meta-analisi.

Caratteristiche degli studi

Gli studi presi in considerazione sono stati pubblicati tra il 2003 e il 2022 e il numero di pazienti inclusi negli studi varia da 20 nello studio di Matsumoto et al. a 1199 nello studio di Boonen et al.; di 21 studi randomizzati controllati 16 erano in doppio cieco. È stata analizzata l’efficacia di 8 diversi trattamenti per osteoporosi: aledronato (=8), risedronato (=3), acido zoledronico (=3), ibandronato (=1), denosumab (=2). Teriparatide (=5), abaloparatide (=2) e romosozumab (=1); la maggioranza degli studi ha somministrato un placebo come controllo.

La durata media dei trattamenti è stata di 78 settimane e per quanto riguarda l’outcome primario tutti gli studi hanno riportato la misurazione della BMD, in particolare in 14 studi è stata analizzata la BMD del rachide lombare; l’incidenza di frattura è stata riportata in 16 studi ma soltanto 4 l’hanno considerata come outcome primario.

Effetti dei bisfosfonati versus placebo sulla BMD

Dieci studi su 2992 uomini con osteoporosi hanno comparato il trattamento con bisfosfonati rispetto al placebo, per una durata che è andata da 6 mesi a 3 anni.

Cinque studi, su 553 uomini con osteoporosi, hanno comparato l’alendronato al placebo evidenziando i seguenti risultati: l’alendronato ha significativamente aumentato la BMD del rachide lombare del 5.2%, dell’anca in toto dl 2.34% e del collo del femore del 2.53%. Due studi su 600 uomini con osteoporosi hanno analizzato i risultati del trattamento con risedronato vs placebo dopo 2 anni e il farmaco è risultato efficace su tutti i principali outcome analizzati, ad eccezione dell’incidenza di fratture. Nuovamente due studi, che hanno incluso un campione di 1707 uomini con osteoporosi trattati per due anni, hanno comparato l’acido zoledronico con il placebo. In particolare lo studio di Boonen et al. del 2012 ha riportato un significativo miglioramento della BMD del racide lombare e del collo del femore. Risultati molto simili sono stati osservati nel trattamento con ibandronato.

Effetti di altri trattamenti versus placebo sulla BMD

Due studi randomizzati controllati hanno analizzato l’efficacia del trattamento con denosumab rispetto al placebo per due anni, con iniezioni di 60mg di denosumab ogni 6 mesi. Un significativo aumento della BMD è stato osservato nel rachide lombare, con un aumento del 5.8%; significativo seppur minore nel femore in toto (2.28%) e un aumento di circa il 2% nel collo del femore.

Per quanto riguarda la teriparatide è stata paragonata al placebo in due studi su 309 uomini con osteoporosi con effetti positivi simili ai precedenti sia nella BMD del rachide lombare sia nel collo del femore.

Un solo studio è stato effettuato sull’analisi dell’efficacia del romosozumab rispetto al placebo, della durata di 12 mesi. A 163 pazienti è stata somministrata un’iniezione di 210 mg di romosozumab al mese e sono stati paragonati a 82 pazienti che hanno ricevuto il placebo; la variazione percentuale media della BMD rispetto al valore basale per il rachide lombare, il femore e il collo del femore è risultata significativamente maggiore nei pazienti che hanno ricevuto il farmaco rispetto al placebo.

Sono stati presi in analisi anche quattro studi che hanno messo a confronto due farmaci tra loro. Due di loro hanno comparato l’efficacia della teriparative versus aledronato, uno ha comparato la teriparatide al risedronato e l’ultimo ha comparato l’effetto dell’alendronato rispetto all’acido zoledronico. Nessuno di questi casi studio ha evidenziato delle differenze significative tra i vari gruppi; è stata stabilita la “non inferiorità” dell’acido zoledronico rispetto all’aledronato, ma non è stata dimostrata la sua superiorità.

Effetti sulle fratture

In 16 studi su 21 è stato riportato anche l’effetto del trattamento sull’incidenza di fratture, ma soltanto 4 di questi studi lo hanno definito il loro outcome primario. Il tasso di ogni nuova frattura vertebrale morfometrica è stato dell’1,6% nel gruppo acido zoledronico e del 4,9% nel gruppo placebo nel corso dei 24 mesi, con una riduzione del rischio del 67% con l’acido zoledronico.

Conclusioni

Questa meta-analisi sistematica fornisce le prove che alendronato, risedronato, acido zoledronico, ibandronato, denosumab, teriparatide abaloparatide e romosozumab hanno un effetto benefico sulla BMD del rachide lombare, dell’anca totale e del collo femorale di uomini affetti da osteoporosi paragonati all’effetto del placebo. Queste significative evidenze, tuttavia, riscontrano delle contraddizioni a causa del basso numero di studi inclusi nell’analisi ma soprattutto dall’eterogeneità inspiegabile osservata in alcuni confronti. È comunque sicuro affermare che l’osteoporosi maschile può essere trattata con le stesse terapie raccomandate per le donne con osteoporosi in postmenopausa.

L’osteomalacia

La mineralizzazione scheletrica avviene attraverso una serie di eventi che portano al deposito e al mantenimento di cristalli di idrossiapatite nella matrice ossea, in presenza di un pH appropriato e di specifiche strutture 3D. Oltre alle sue funzioni strutturali, la mineralizzazione ha un ruolo fondamentale nel metabolismo, regolando il microambiente delle cellule ossee e provvedendo costantemente all’apporto di minerali alla matrice extracellulare. La mineralizzazione non avviene in modo omogeneo in tutto lo scheletro dal momento che diverse tipologie di ossa mineralizzano diversamente in base alla loro funzione.

Questo complesso sistema è regolato dal sistema endocrino e paracrino e dalla disponibilità di minerali, in particolare calcio e fosforo; è un processo che inizia in fase prenatale e continua per tutta la vita dell’organismo.

Mentre l’osteomalacia è una malattia del metabolismo osseo caratterizzata da un’alterata mineralizzazione, l’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro che comporta una diminuzione della massa ossea e un’alterazione della micro- e microarchitettura ossea, con conseguente fragilità delle ossa. Entrambe le condizioni sono caratterizzate da quantità e qualità delle ossa e possono portare a una riduzione della loro resistenza, rendendole più inclini alla frattura. Quando sono combinate in un singolo paziente, concorrono indipendentemente da fragilità ossea.

L’obiettivo di questa review è quello di descrivere la patogenesi e le molteplici cause di mineralizzazione e le caratteristiche istopatologiche, cliniche e radiologiche dell’osteomalacia; saranno brevemente descritte le principali forme di osteomalacia ereditarie e acquisite e le possibilità terapeutiche odierne e future.

Fisiopatologia dei difetti di mineralizzazione e classificazione dei disordini della mineralizzazione

L’evento chiave della mineralizzazione è il deposito di cristalli di idrossiapatite nella matrice ossea. La regolazione di questo processo è a opera di fattori paracrini ed endocrini, osteoblasti, enzimi, disponibilità di substrato e, ovviamente, una bassa concentrazione degli inibitori della mineralizzazione.

I disordini della mineralizzazione sono classificati in “vitamina D – dipendenti” e “vitamina D – resistenti”, in base alla risposta del soggetto al trattamento con i metaboliti della vitamina D. Una carenza prolungata di vitamina D porta a un inadeguato apporto di calcio e fosfato, i due minerali principali presenti nel tratto intestinale che costituiscono il substrato della mineralizzazione. Questi due minerali possono venire a mancare anche in caso di disturbi da malassorbimento cronico come la malattia celiaca e la sindrome dell’intestino irritabile.

Aspetti istopatologici dell’osteomalacia

Sebbene l’osteomalacia possa essere il risultato di diversi meccanismi patogenetici, è caratterizzata da caratteristiche istologiche comuni. I segni istologici dell’osteomalacia compaiono se la causa che porta a un’alterata mineralizzazione persiste nel tempo. La sequenza di eventi formazione ossea-mineralizzazione-riassorbimento è il processo coordinato che si verifica in ogni unità di rimodellamento del tessuto scheletrico maturo, sia nei giovani che negli adulti, che richiede e fornisce i minerali dal e al compartimento extracellulare, rispettivamente. Classicamente riferita alle forme vitamina D-dipendenti, una classificazione di osteomalacia è stata attribuita all’evoluzione delle alterazioni ossee rilevate istologicamente. Nelle prime fasi del disordine del metabolismo minerale, gli attori chiave del processo di mineralizzazione, cioè ormoni ed enzimi, si adattano al fine di fornire allo scheletro una quantità sufficiente di minerali per formare e sostituire la matrice mineralizzata precedentemente riassorbita e per correggere eventuali anormalità.

Nello stadio precoce della malattia non si rilevano aberrazioni istopatologiche nello scheletro, ma possono essere presenti sintomi generali dovuti a un’anomalia metabolica sistemica (stadio I, o pre-osteomalacia). Se l’alterazione metabolica persiste e non può essere annullata da adattamenti metabolici, non si formano cristalli di idrossiapatite e la matrice non può essere mineralizzata.

L’accumulo progressivo di osteoide, insieme a una mineralizzazione residua, è tipico dello stadio II. Lo stadio III è la completa cessazione della mineralizzazione con una notevole quantità di osteoide, che corrisponde al tradizionale quadro istologico dell’osteomalacia conclamata. Dal punto di vista istomorfometrico, la formazione dell’osso è totalmente inibita, come dimostrato dall’assenza di captazione di tetraciclina, con diminuzione del volume osseo per volume di tessuto (BV/TV), aumento dello spessore, volume e superficie dell’osteoide (larghezza dei filamenti osteoidi >15 m). La quantità di osteoide è normalmente proporzionale al grado e alla durata del disordine del metabolismo minerale.

Manifestazioni cliniche e radiologiche

La definizione classica della malattia come “ammorbidimento del tessuto osseo” non rende esattamente l’idea di quella che è la malattia, poiché le deformità ossee, che si possono dedurre da questa definizione, non sono tipiche di uno scheletro osteomalacico, tranne che in alcune circostanze particolari, ma di solito rappresentano conseguenza di un rachitismo non adeguatamente trattato in un individuo in crescita. Quando le deformazioni ossee relative al rachitismo sono evidenti, la diagnosi sarà orientata verso un disordine di tipo congenito o precoce. I segni e i sintomi nella malattia lieve/precoce possono essere vaghi e non specifici, mentre l’osteomalacia conclamata è solitamente sintomatica e presenta caratteristiche muscolo-scheletriche distintive. In quest’ultimo caso, i pazienti affetti possono presentare dolore e tenerezza ossea generalizzati, portando spesso il paziente a un uso eccessivo e/o all’abuso di farmaci antinfiammatori.

Il dolore osseo diffuso dell’osteomalacia è dovuto all’idratazione della matrice non mineralizzata a livello del periostio, che attiva i nocicettori periferici. Il dolore è presente anche a riposo, ma peggiora con la postura eretta. L’aspecificità di questi segni e sintomi, che possono anche essere correlati a disturbi reumatologici (polimialgia, fibromialgia e spondilite anchilosante), può ritardare notevolmente la diagnosi e il trattamento appropriato. Poiché l’osso non mineralizzato è più fragile, possono verificarsi fratture spontanee dell’osso corticale, dette anche pseudofratture. Poiché sono il risultato clinico di una malattia sistemica, le pseudofratture appaiono come bande trasversali radiotrasparenti. Le pseudofratture sono più comuni nelle ossa portanti, come il femore prossimale e diafisario, il bacino e i metatarsi e sono spesso simmetriche e bilaterali, anche se possono verificarsi in modo asincrono nel tempo, essendo espressione di una malattia sistemica. Queste lesioni possono essere precedute da un dolore osseo localizzato. Per questi motivi, è consigliabile esaminare l’osso controlaterale quando si verifica una pseudofrattura.

Inoltre le vertebre osteomalaciche sono spesso indicate come “vertebre a merluzzo” nella radiografia della colonna vertebrale, a causa di una particolare deformità biconcava dei corpi vertebrali, che si distingue dalle classiche fratture da fragilità legate all’osteoporosi. I bordi superiori e inferiori delle vertebre osteomalaciche sono simmetricamente deformati. Data la natura metabolica della malattia, le vertebre contigue di solito mostrano forme biconcavali simili.

La scansione DXA (Dual Energy X-ray absorptiometry) dell’osso mostra di solito una diminuzione della densità minerale ossea (BMD) a causa della ridotta mineralizzazione. L’errore abituale è quello di interpretare i risultati di una bassa BMD solo come osteoporosi, che è un disturbo caratterizzato principalmente da un’alterazione della microarchitettura ossea, e può portare a una diagnosi e a un trattamento inappropriati. Al contrario, l’osteomalacia non è sempre associata a una bassa BMD, in quanto gli adulti con XLH possono mostrare valori di BMD più elevati a causa dell’entesopatia (BMD della colonna lombare) o indipendentemente da questa. La diminuzione della BMD dovuta a un difetto di mineralizzazione è almeno in parte reversibile con uno specifico trattamento di rimineralizzazione, indicando retrospettivamente la natura della malattia ossea.

Lo stato dentale dovrebbe essere scrupolosamente controllato. Sebbene l’osteomalacia non sia di per sé associata allo sviluppo di difetti dentali, una storia di carie multiple, perdita prematura dei denti o avulsioni spontanee, possono suggerire un disturbo congenito/geneticamente determinato (ipofosfatemia/ rachistismo/ osteomalacia).

Le forme più comuni dell’osteomalacia nella pratica clinica

L’osteomalacia acquisita può manifestarsi a tutte le età.

Nonostante l’uso diffuso di integratori di vitamina D, l’osteomalacia da carenza di vitamina D è ancora frequente in particolari categorie di pazienti, come ad esempio gli anziani provenienti da particolari ambienti geografici e culturali. Un ampio spettro di condizioni può essere associato a carenza di vitamina D: insufficiente esposizione alla luce solare, apporto dietetico inadeguato, abitudini culturali (uso del velo o dell’hijab), uso di creme solari, obesità patologica, sindromi da malassorbimento causate da diversi disturbi gastrointestinali e l’invecchiamento stesso con la diminuzione della produzione cutanea di vitamina D possono contribuire alla diminuzione dei livelli sierici di 25(OH)D. L’osteomalacia vitamina D-dipendente è piuttosto rara negli individui giovani provenienti da paesi industrializzati, mentre è ancora endemica in alcune regioni in base alle abitudini culturali e alla pigmentazione della pelle.

L’osteomalacia indotta da tumore (TIO) è una sindrome paraneoplastica caratterizzata da demineralizzazione grave e in rapida progressione causata da tumori mesenchimali di solito di piccole dimensioni che secernono un eccesso di FGF23, con conseguente ipofosfatemia dovuta alla perdita di fosfato. Di solito si manifesta nella quarta e quinta decade di vita e ha un decorso molto rapido che comporta una diagnosi spesso posticipata.

L’osteomalacia ereditaria è solitamente superata e preceduta da manifestazioni di rachitismo. L’ipofosfatemia/osteomalacia dominante legata all’X (XLH) è la forma più frequente di rachitismo. I segni di osteomalacia sono più evidenti negli adulti e coesistono con deformità degli arti portanti e anomalie dentali insorte però nel periodo infantile. Dolori ossei e articolari, rigidità articolare, dolore e debolezza muscolare e anomalie dell’andatura riducono la qualità della vita dei pazienti adulti.

La reale prevalenza negli adulti di questa malattia non è oggi nota, ma si suppone che sia molto sottostimata poiché questo disturbo può essere spesso interpretato erroneamente come una malattia reumatologica e non viene diagnosticato correttamente e tempestivamente.

Trattamento

Quando la carenza di vitamina D è la causa principale o contribuisce allo sviluppo dell’osteomalacia, l’integrazione con quantità adeguate di analoghi della vitamina D biologicamente inattivi (ad es. colecalciferolo, o vitamina D3) ripristinare l’omeostasi del calcio e dele del fosfato, correggere un eventuale iperparatiroidismo secondario sono le principali strategie di trattamento.

Quando l’osteomalacia è associata all’osteoporosi, la correzione del difetto di mineralizzazione deve sempre precedere la terapia antiriassorbitiva.

Nell’osteomalacia ipofosfatemica ereditaria, la pratica standard è la somministrazione di sali di fosfato insieme al calcitriolo, per evitare l’iperparatiroidismo secondario.Sebbene questo trattamento sia obbligatorio nei bambini per evitare deformità rachitiche, la somministrazione di sali di fosfato, scarsamente tollerati e associati a importanti effetti collaterali a breve e a lungo termine, è stata messa in discussione negli adulti.

Ad oggi, la diagnosi di osteomalacia è principalmente clinica; la valutazione sistematica della qualità dell’osso nell’osteomalacia, al fine di trovare modelli specifici di questa malattia, aiuterebbe a perfezionare la diagnosi radiologica. Infatti il punteggio osseo trabecolare (TBS), un indice per dedurre la microarchitettura ossea nelle immagini DXA, potrebbe aiutare a differenziare l’osteomalacia dall’osteoporosi in tempi più rapidi.

Biomarcatori più specifici delle malattie (microRNA, vescicole extracellulari) potrebbero essere studiati per trovare modelli specifici nell’osteomalacia; inoltre, gli esiti a medio e lungo termine di terapie specifiche (ad esempio burosumab e asfotasi alfa) devono ancora essere valutati in studi reali a lungo termine.

Denosumab vs Romosozumab in uno studio giapponese

Il Giappone vanta una delle aspettative di vita più alte al mondo, oltre gli 80 anni; tuttavia è necessario tenere in considerazione che superati i 70 anni la maggior parte delle persone ha bisogno di assistenza medica, e una delle malattie che condiziona maggiormente la qualità di vita delle persone anziane è l’osteoporosi e la fragilità ossea che ne consegue.

Questo studio retrospettivo è andato a valutare la densità minerale ossea (BMD) come indice per la comparazione tra l’efficacia del trattamento con denosumab e quello con romosozumab, con un aumento della BMD che sta a significare una maggior prevenzione delle fratture da fragilità ossea. 69 pazienti con osteoporosi postmenopausale sono stati trattati con denosumab (60 mg sottocutanei ogni 6 mesi) e romosozumab (210 mg sottocutanei una volta al mese) per 12 mesi, alla diagnosi presentavano una o più fratture vertebrali, del bacino o del femore e un T-score della BMD nelle suddette localizzazioni inferiore a -2.5 misurato con DXA. Inoltre ai pazienti con valori di 25OHD più bassi è stata raccomandata l’assunzione di integratori commerciali a base di vitamina D3 e calcio.

Risultati

Come esito primario è stato valutato il cambiamento rispetto alla baseline nella BMD della spina dorsale, misurandola con DXA a 6 e 12 mesi; rispettivamente è stato osservato un incremento del 6.0% ± 4.1 e del 7.2% ± 4.3 nei pazienti trattati con denosumab e un incremento del 7.4 ± 1.7 e del 12.5% ± 2.4 nel gruppo di pazienti a cui è stato somministrato romosozumab. Per quanto riguarda la BMD in particolare della zona lombare è significativamente aumentata nel gruppo romosozumab rispetto al gruppo denosumab sia a 6 che a 12 mesi.

L’esito secondario interessava il cambiamento della BMD del bacino, misurata con DXA dopo 6 e 12 mesi e paragonata al livello basale. I gruppi denosumab e romosozumab hanno mostrato rispettivamente un aumento del 2.4% e 3.4% e un aumento del 3.4% e 6.0%, similmente ai dati ottenuti nella misurazione della BDM del collo del femore. Per entrambi i trattamenti i risultati confrontati con il livello basale alla diagnosi si sono rivelati significativi, con un P value inferiore a 0.01.

Un altro fattore molto importante nella valutazione dell’osteoporosi e che è stato valutato in questo studio è la presenza dei marker di turnover osseo nel siero, in particolare P1NP e TRACP. Per quanto riguarda i livelli sierici di P1NP dei pazienti trattati con denosumab sono significativamente diminuiti già dopo 6 mesi (-63.1%) e dopo 12 mesi (-68%) se paragonai ai livelli alla diagnosi. Per quanto riguarda i pazienti trattati con romosozumab, i livelli di P1NP si sono invece alzati dopo 6 mesi (5-9%) per poi normalizzarsi nell’analisi dei 12 mesi (-5.6%). Per quanti riguarda il marker TRACP i livelli sierici si sono abbassati in entrambi i gruppi in analisi: dopo 6 e 12 mesi rispettivamente -56.0% e -60.5% rispetto ai livelli basali nei pazienti trattati con denosumab e -32.1% e -42.9% in quelli trattati con romosozumab.

Eventi avversi

Reazioni avverse nel sito di iniezione si sono verificate con maggior frequenza nella somministrazione di romosozumab, ma non sono state ritenute sufficienti per interrompere il trattamento. Due pazienti per ogni gruppo ha subito una nuova frattura vertebrale durante il trattamento, diagnosticata tramite regolare imaging con raggi X.

Conclusioni

Il presente studio ha rilevato che i tassi di aumento della BMD della colonna lombare, dell’anca totale e del collo del femore si sono rivelati significativamente più alti con romosozumab che con denosumab dopo un periodo di trattamento di 12 mesi, con pochi effetti avversi gravi per entrambi i farmaci.

Tre fattori sono coinvolti nell’aumento della BMD:

  • la chiusura iniziale dello spazio di rimodellamento osseo
  • il successivo aumento della mineralizzazione
  • il contributo costante della formazione ossea basata sulla modellazione.

Soprattutto nel rimodellamento osseo, la transizione dei marcatori del metabolismo osseo influisce sulla dimensione della finestra anabolica a causa della differenza tra i livelli dei marcatori di formazione ossea e quelli di riassorbimento osseo. Il denosumab sopprime fortemente il riassorbimento osseo, che a sua volta inibisce anche la formazione ossea. Al contrario, romosozumab promuove la formazione ossea e sopprime il riassorbimento osseo determinando una finestra anabolica più ampia e presumibilmente un effetto maggiore sull’aumento della densità ossea. In questo studio, denosumab ha ridotto sia il marcatore di formazione ossea che quello di riassorbimento osseo, mentre il marcatore di formazione ossea non è diminuito per 12 mesi e solo il marcatore di riassorbimento osseo è diminuito per romosozumab. Di conseguenza, abbiamo confermato che si fosse creata una finestra anabolica più ampia. Nel complesso, i considerevoli effetti di romosozumab sul rimodellamento e sulla modellazione ossea sembrano più efficaci per aumentare i livelli di densità ossea rispetto a denosumab, e i risultati clinici primari e secondari dello studio confermano la teoria.

Come punto degno di nota, i bassi livelli di vitamina D nella coorte non sono circostanze uniche in Giappone; infatti è noto che approssimativamente il 90% dei pazienti giapponesi soffrono di una carenza da vitamina D come complicanza dell’osteoporosi.

 

Trattamenti a lungo termine per l’osteoporosi postmenopausale

L’osteoporosi è una malattia sistemica dello scheletro caratterizzata da una bassa densità minerale ossea (BMD) e dal deterioramento dell’architettura ossea, con conseguente riduzione della resistenza delle ossa e, di conseguenza, una maggiore predisposizione alle fratture. La manifestazione clinica dell’osteoporosi è una frattura da fragilità ed è lecito dire che circa l’80% di tutte le fratture sono correlate all’osteoporosi. Poiché le fratture sono associate a una diminuzione della qualità della vita e a un aumento della mortalità prematura, della disabilità e dell’onere finanziario, è importante identificare i soggetti ad alto e altissimo rischio di frattura e fornire loro adeguate opzioni terapeutiche, cosa che purtroppo non sempre avviene nella maniera e nei tempi corretti.

Questo studio affronta il modo migliore per utilizzare le opzioni farmacologiche disponibili per l’osteoporosi postmenopausale al fine di fornire una protezione dalle fratture per tutta la vita nelle pazienti ad alto e altissimo rischio di frattura.

Pazienti ad alto rischio di frattura

Il primo passo consiste nell’identificare i pazienti ad alto o altissimo rischio di frattura. Gli strumenti prognostici, tra i quali il Fracture Risk Assessment Tool (FRAX) è il più utilizzato, sono disponibili per identificare i soggetti ad alto rischio di fratture osteoporotiche e per assistere i medici nelle decisioni sulla procedura da seguire. Esistono diverse linee guida per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale, per esempio la Società Coreana per la ricerca sulle ossa e i minerali raccomanda il trattamento in base a parametri ben definiti basati sull’età e sul livello di BMD; le linee guida nazionali per l’osteoporosi in Gran Bretagna applicano allo stesso modo dei parametri età-specifici, partendo da una soglia di intervento inferiore basata su una donna in menopausa con indice di massa corporea medio, con una precedente frattura da fragilità, nessun fattore di rischio aggiuntivo e senza conoscenza della BMD.

Pazienti ad altissimo rischio di frattura

Alcuni autori hanno suggerito di migliorare la capacità predittiva del FRAX per i pazienti a rischio di frattura molto elevato integrando caratteristiche delle fratture pregresse (numero, sede e tempo dalla precedente frattura). Poiché il numero, la localizzazione e il tempo intercorso dalla frattura precedente sono associati a un aumento del rischio di una seconda frattura, gli aggiustamenti verso l’alto del rischio di frattura in individui con fratture multiple, MOF o fratture pregresse recenti (entro 2 anni) migliorano il FRAX, mantenendo la probabilità a 10 anni come modello migliore. Sempre in Corea esiste un punteggio per identificare le donne ad altissimo rischio di frattura. In uno studio di coorte a livello nazionale con un’ampia popolazione rappresentativa di un una banca dati convalidata, i tre più importanti fattori di rischio di frattura osteoporotica erano l’età avanzata, l’anamnesi di una recente fragilità (entro 2 anni) e l’uso recente di glucocorticoidi orali (>30 giorni nell’ultimo anno). L’algoritmo, tra l’altro, è disponibile per l’autovalutazione in un calcolatore basato sul web (http://www.nhis.or.kr) senza misurazioni della BMD.

Recenti raccomandazioni terapeutiche

La Endocrine Society ha recentemente pubblicato una linea guida di pratica clinica sulla gestione farmacologica dell’osteoporosi nelle donne in postmenopausa, in cui vengono proposte le seguenti raccomandazioni:

  • Nelle donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture, si consiglia il trattamento iniziale con bifosfonati (alendronato, risedronato, acido zoledronico e ibandronato) o denosumab come trattamento iniziale alternativo, per ridurre il rischio di fratture.
  • Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad altissimo rischio di frattura, come quelle con fratture vertebrali gravi o multiple, si raccomanda la teriparatide per un massimo di 2 anni per la riduzione delle fratture vertebrali e non vertebrali.
  • Nelle donne in postmenopausa con osteoporosi ad altissimo rischio di frattura, come quelle con fratture vertebrali gravi o multiple e che presentano un T score molto basso <-2,5 si raccomanda il trattamento con romosozumab per per un periodo massimo di 1 anno per la riduzione delle fratture vertebrali, dell’anca e non vertebrali.

Studi recenti hanno documentato la superiorità degli agenti di formazione ossea (teriparatide [TPTD] o romosozumab) rispetto agli antiriassorbitivi (risedronato o alendronato) per ridurre le fratture nelle donne in postmenopausa ad altissimo rischio di frattura.

Meccanismo d’azione dei farmaci

I bisfosfonati (BP) riducono la funzionalità degli osteoclasti inibendo la farnesil pirofosfato sintasi (FPPS) impedendo così la prenilazione delle piccole proteine GTPasi. Ciò comporta l’interruzione dell’organizzazione citoscheletrica, perdita del bordo di membrana frastagliato e alterazione del traffico vescicolare. Inoltre, nonostante gli osteoclasti vadano naturalmente incontro ad apoptosi, questo processo è notevolmente accelerato negli osteoclasti esposti ai BP. I BP si legano ai minerali ossei e vengono internalizzati dagli osteoclasti maturi nei siti di riassorbimento osseo; i BP possono rimanere legati al minerale osseo anche per molti anni dopo l’interruzione della terapia, per questo motivo continuano per un certo periodo a mantenere l’azione farmacologica nonostante non vengano più somministrati. Nonostante gli osteoblasti non siano generalmente considerati un bersaglio dell’inibizione dei BP, gli esperimenti in vitro hanno dimostrato che l’inibizione di FPPS negli osteoblasti può spiegare la risposta anabolizzante dell’osso all’ormone paratiroideo (PTH), osservata dopo l’esposizione cronica all’ormone ai BP nei ratti.

Per quanto riguarda denosumab (DMAB), si tratta di un anticorpo monoclonale umano che inibisce il riassorbimento osseo neutralizzando con una forte affinità e specificità l’attivatore del recettore del ligando kB del fattore nucleare (RANKL), un mediatore chiave nella differenziazione, funzione e sopravvivenza degli osteoclasti. A differenza dei BP, il DMAb inibisce l’attività degli osteoclasti in tutti gli stadi di sviluppo (prefusione, multinucleazione e riassorbimento), facilitando l’accesso al rimodellamento osseo. Il DMAb non viene incorporato nell’osso, di conseguenza, il suo effetto sul riassorbimento osseo cessa rapidamente dopo l’interruzione del trattamento.

La durata appropriata della terapia antiriassorbitiva (BPs o DMAb) è diventata un argomento di discussione, a causa delle preoccupazioni circa il rischio di interruzione del trattamento per osteonecrosi della mascella (ONJ) e frattura atipica del femore (AFF); si è infatti cominciato a parlare di “vacanze farmacologiche” (interruzione del trattamento).

Rischi e benefici

Studi osservazionali basati su registri e rapporti post-marketing basati su milioni di pazienti sottoposti alla somministrazione clinica a lungo termine, hanno associato alcuni eventi avversi rari, precedentemente sconosciuti, all’uso di antiriassorbitivi; questi rischi rari dovrebbero sempre essere integrati in una prospettiva globale tenendo conto dei benefici della terapia farmacologica a lungo termine dell’osteoporosi. In donne in postmenopausa con osteoporosi precedentemente trattata con BP orali (alendronato per una durata media di 6-2-6,4 anni), fratture atipiche del femore (AFF) si sono verificate in una su 321 pazienti in transizione verso l’acido zoledronico (5 mg, per via endovenosa) e in due pazienti su 322 che sono passate a DMAB nell’arco di 1 anno. La transizione a un antiriassorbitivo più potente in pazienti precedentemente trattati con BP a lungo termine potrebbe impedire la clearance dei BP accumulati dalla matrice ossea e aumentare il rischio di AFF; questa possibilità dovrebbe essere valutata in una popolazione molto più ampia che passa dai BP orali all’acido zoledronico o al DMAb per via endovenosa.

Gli esperti propongono quindi una strategia “treat-to-target” in cui viene definito un obiettivo specifico per raggiungere una totale prevenzione di fratture nel lungo termine, personalizzando la terapia andando eventualmente a cambiarne le condizioni adattandosi alla risposta del paziente.

Le linee guida della Endocrine Society raccomandano che le donne in postmenopausa ad alto rischio di fratture continuino la terapia BP senza interruzione, pur rimanendo ad alto rischio di frattura dopo 3-5 anni di terapia. È stato infatti visto in diversi casi clinici che pazienti sottoposti a interruzione dei BP hanno avuto un incremento dal 20 al 40% di rischio di fratture, e raddoppiato il rischio di fratture vertebrali, indicando che queste drug holidays potrebbero non essere sicure per tutti pazienti.

Nonostante la mancanza di prove a lungo termine, bisognerebbe approcciare l’osteoporosi in modo simile alle condizioni croniche come l’ipertensione e il diabete, di cui c’è la sicurezza per un trattamento a lungo termine.

 

Chirurgia orale in pazienti medicalmente compromessi

L’aumento dell’età media aumenta la diffusione degli impianti dentali nei pazienti anziani.  L’aumento dell’aspettativa di vita comporta l’insorgenza di numerose patologie nei pazienti, che possono anche indirettamente incidere negativamente sull’esito di impianti dentali chirurgici, compromettendone la completa guarigione o influenzando la salute della zona peri-implantare.

Non è ancora chiaro quali misure preventive vadano prese nei confronti pazienti in procinto di sottoporsi ad impianto dentale con comorbilità, ma sicuramente l’identificazione dei potenziali eventi avversi e complicanze può aiutare nel processo di decisione.

In questo articolo vengono presi in considerazione i fattori di rischio più comuni e ne viene illustrato l’approccio medico in merito alle complicazioni che possono insorgere nel procedere con un impianto dentale.

Di seguito, brevemente, alcuni tra i fattori di rischio presi in analisi.

  • Fumo: è ormai noto che gli effetti della nicotina e di altri componenti del tabacco hanno effetti negativi sul metabolismo osseo, e anche sul processo di ossificazione che segue l’impianto dentale. Gli effetti della nicotina sono dose-dipendenti, ed è stato dimostrato che i forti fumatori hanno un rischio tre volte superiore di rigettare un impianto, oltre ad una significativa perdita di densità ossea che nella mascella rende ancora più difficoltosa l’operazione. Le raccomandazioni cliniche non sono definitive sull’impossibilità di procedere con l’impianto dentale, ma sicuramente è fortemente consigliata l’interruzione definitiva dell’assunzione di nicotina.
  • Diabete: caratterizzato da iperglicemia, il diabete è uno dei disturbi metabolici più comuni e in crescita ed è importante fare alcune valutazioni prima di procedere all’impianto in un paziente diabetico. Per quanto non esistano controindicazioni, l’iperglicemia induce infiammazione cronica con ripercussioni negative sull’osteointegrazione. Non è stata dimostrata una significativa differenza nella durata di un impianto tra pazienti diabetici e pazienti sani; tuttavia, è importate mantenere la glicemia sotto stretto controllo nel periodo precedente all’operazione, e i tempi di guarigione possono essere leggermente più lunghi.
  • Osteoporosi: si tratta di una condizione in cui la densità minerale ossea (BMD) è significativamente compromessa, complisce prevalentemente le donne in particolare nella condizione post-menopausale. Il successo di un impianto e dell’osteointegrazione è strettamente correlato alle condizioni di salute della mascella e della mandibola per cui la condizione di osteoporosi di un paziente non può essere sottovalutata.
  • Radioterapia: il 30-40% delle radiazioni vengono assorbite dall’osso a causa della sua grande componente di calcio; gli effetti di questo assorbimento sono un incremento dell’attività degli osteoclasti e contemporaneamente una riduzione delle funzioni degli osteoblasti. Il mancato equilibrio nel metabolismo osseo che si viene a creare è spesso causa di fratture della mascella e di aumento delle trabecole ossee. Anche in questo caso l’effetto è dose-dipendente, e la quantità di radiazioni a cui è sottoposto il paziente sembra incidere sul rischio di sviluppare osteonecrosi in seguito all’impianto.
  • Alcolismo: diversi studi sugli animali hanno valutato una significativa diminuzione del volume delle trabecole ossee, una diminuzione della mineralizzazione e della formazione della matrice ossea in ratti esposti cronicamente a sostanza alcoliche. Nell’uomo che abusa di alcol è stata dimostrata una disfunzione nell’attività degli osteoblasti primari e nella loro proliferazione, favorendo invece l’attività di riassorbimento osseo. Si rende quindi necessaria un’analisi della correlazione tra alcolismo e riassorbimento osseo pero-implantare.

L’autore dell’articolo, il Dott. Gregorio Guabello, ci spiega nel dettaglio in questo video come l’assunzione di farmaci anti-riassorbitivi possa influenzare l’esito di un impianto dentale.