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Osteoporosi e diabete: il metabolismo del glucosio nella salute delle ossa

Osteoporosi e diabete sono disturbi cronici con importanti implicazioni cliniche che spesso risultano correlati. La patofisiologia di entrambe le malattie è multifattoriale e conoscerla è fondamentale per diagnosticare e affrontare al meglio la condizione. Lo studio di Cipriani, Colangelo e colleghi ha riassunto il ruolo della perturbazione del metabolismo del glucosio nel metabolismo osseo.

Osteoporosi e diabete

La regolazione della sensibilità all’insulina, il metabolismo energetico e l’omeostasi del glucosio sono alla base della fragilità ossea nel diabete mellito di tipo 1 e in quello di tipo 2. Infatti, anomalie metaboliche influenza la salute ossea tramite diversi meccanismi, tra cui gli effetti dell’iperglicemia, la produzione di sostanze che influenzano il metabolismo osseo e l’alterazione del metabolismo di sostanze utili alla formazione delle ossa.

Osteoporosi e diabete di tipo 2: il ruolo del metabolismo del glucosio

Gli studi hanno individuato diversi meccanismi principali che spiegherebbero come il metabolismo del glucosio determina l’insorgenza di osteoporosi nel diabete di tipo 2.

  • L’aumento della massa adiposa ha un effetto tossico sul differenziamento delle cellule mesenchimali del midollo osseo, comportando perdita ossea e adipogenesi. Infatti, il tessuto adiposo produce adipochine che influenzano il metabolismo osseo, come l’adiponectina che lo e la leptina che lo promuove. Recentemente i ricercatori hanno ipotizzato che l’organismo sviluppi una resistenza all’irisina, che stimola l’uptake del glucosio nei muscoli e si pensa possa promuovere la formazione e il mantenimento del tessuto osseo.
  • La sindrome metabolica induce alterazioni nella secrezione di adipochine e citochine e aumenta i livelli di trigliceridi nel sangue. Questi meccanismi sono associati alla riduzione di marker del turnover osseo, alla diminuzione della densità minerale ossea (BMD) o all’aumento di tessuto adiposo nel midollo osseo. Inoltre, l’ipertensione arteriosa risulta ridurre la BMD in relazione all’aumento di escrezione urinaria del calcio.
  • L’iperglicemia potrebbe indurre la formazione di prodotti finali della glicazione avanzata (advanced glycation end-products, AGE), che hanno effetti negativi sulla qualità dell’osso, a causa di diversi meccanismi. Ad esempio, gli AGE aumentano l’azione degli osteoclasti e incrementano la produzione di sclerostina (che regola negativamente la formazione ossea ed è correlata negativamente con la resistenza all’insulina). Le conseguenze negative sull’osso che ne derivano non sono osservabili tramite assorbimetria a raggi X a doppia energia: questo spiegherebbe perché nel diabete di tipo 2 la BMD non risulta diminuita nonostante aumenti il rischio di fratture.
  • I pazienti diabetici presentano una regolazione alterata a livello dell’asse calcio-vitamina D-paratormone. Un controllo glicemico inadeguato è, infatti, correlato a una perdita eccessiva di calcio, portando a una secrezione cronica di PTH, che compromette la BMD.
  • La nefropatia diabetica, complicazione comune in questi pazienti, causa fragilità ossea. In particolare, comporta un disordine metabolico specifico, l’osteodistrofia renale od osteodistrofia uremica (Cronic Kidney Disease-Mineral Bone Disorder, CKD-MBD).

L’importanza dello studio del rapporto fra metabolismo del glucosio e salute delle ossa

Dagli studi emerge chiaramente che il metabolismo osseo e quello del glucosio sono legati strettamente. La comprensione dei meccanismi alla base di questa associazione consente di comprendere meglio il rischio di sviluppo di osteoporosi nei pazienti diabetici. Permette inoltre di effettuare valutazioni cliniche più proattive e di sviluppare nuovi trattamenti. Studi futuri sul legame tra metabolismo del glucosio e delle ossa e sono, quindi, raccomandabili.

 

Fonte:

Cipriani C, Colangelo L, Santori R, Renella M, Mastrantonio M, Minisola S, Pepe J. The Interplay Between Bone and Glucose Metabolism. Front Endocrinol (Lausanne). 2020 Mar 24;11:122. doi: 10.3389/fendo.2020.00122. PMID: 32265831; PMCID: PMC7105593.

Un approccio integrato nella terapia per l’iperfosfatemia

Gli scompensi che derivano dalla nefropatia cronica, come l’aumento nei livelli di fosforo, diminuiscono significativamente la qualità e la durata della vita dei pazienti. Le strategie per controllare l’iperfosfatemia, che includono sia emodialisi, sia trattamenti farmacologici, sia cambiamenti nello stile di vita, danno spesso scarsi risultati. La soluzione potrebbe risiedere in un approccio più integrato, che includa analisi più approfondite sulle condizioni della persona. Lo studio di Rastogi e colleghi riassume le ricerche sull’argomento per migliorare la terapia dell’iperfosfatemia, focalizzandosi anche sui livelli sierici di calcio e paratormone.

 

Nefropatia, iperfosfatemia e ipercalcemia

Il metabolismo del calcio e del fosforo hanno come protagonisti reni, tratto digerente e alcuni ormoni, tra cui l’ormone paratiroideo (paratormone). Il malfunzionamento renale nella nefropatia cronica porta quindi alla compromissione del metabolismo osseo (nell’osteodistrofia renale od osteodistrofia uremica, nota anche come CKD-MBD dall’inglese Cronic Kidney Disease-Mineral Bone Disorder). L’ormone paratiroideo viene prodotto in maggiori quantità come risposta adattativa, per mantenere i normali livelli di fosforo e calcio. Sul lungo termine, questo conduce all’iperparatiroidismo secondario, portando a un aumento nei livelli di fosforo nello stadio finale della nefropatia.

La terapia per l’iperfosfatemia

La terapia tradizionale per il controllo dell’iperfosfatemia prevede un iniziale intervento tramite la dieta, in cui occorre tenere in considerazione sia il contenuto totale di fosforo sia la biodisponibilità di questo minerale dell’alimento. Bisogna inoltre porre attenzione al fosforo presente negli additivi alimentari e nei farmaci, come quelli per il sistema nervoso. Al contempo, è importante badare a evitare la malnutrizione, dal momento che gli alimenti che contengono più fosforo (cereali, uova, latticini e carni) sono ricchi anche di altri nutrienti. Ad esempio, una dieta troppo povera di carni e pesce potrebbe interferire con il metabolismo del calcio.

Se la sola dieta risulta insufficiente per ridurre il problema, il medico aggiunge la dialisi al trattamento, ma questa è poco efficace. Quindi, spesso risulta necessario intervenire anche con farmaci. Le tre classi di farmaci contro l’iperfosfatemia sono chelanti del fosfato, vitamina D (attiva o analoghi) e calcimimetici.

In seguito a questa terapia, un paziente su tre non scende sotto i 5,5 mg/dL, valore superiore al massimo del range ottimale consigliato. Questo potrebbe dipendere dal fatto che i contributi della salute ossea e dei livelli di calcio e di paratormone nell’iperfosfatemia sono spesso sottovalutati, nonostante abbiano forti ripercussioni sul metabolismo del fosforo. Il nuovo approccio integrato tiene in considerazione tutti questi fattori.

Un nuovo approccio integrato all’iperfosfatemia

Le raccomandazioni KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes) del 2017 suggeriscono di:

  • abbassare i livelli di fosforo al normale range (soprattutto intorno ai 4,4 mg/dL);
  • evitare l’ipercalcemia;
  • mantenere i livelli di paratormone tra le due e le nove volte sopra il limite massimo della normale concentrazione,

tramite un approccio in cui si considerano sia i valori di fosforo sia quelli di calcio e paratormone. Gli andamenti di questi parametri andrebbero considerati periodicamente, in particolare prima di qualsiasi variazione nel trattamento.

Nell’approccio integrato proposto da Rastogi e colleghi, le 3 D (Dieta, Dialisi e Drugs, farmaci) devono essere adottate insieme per gestire i livelli di tutti i valori di laboratorio legati alla CKD-MBD (fosforo, calcio e paratormone). Secondo gli scienziati, l’uso dei farmaci dovrebbe essere congiunto perché se usati insieme potrebbero minimizzare gli effetti avversi e ottimizzare gli esiti.

Queste indicazioni e lo studio del rapporto tra fosforo, calcio e paratormone potrebbero risultare molto importanti per la salute dei pazienti con CKD-MBD.

 

Fonte:

Rastogi A, Bhatt N, Rossetti S, Beto J. Management of Hyperphosphatemia in End-Stage Renal Disease: A New Paradigm. J Ren Nutr. 2021 Jan;31(1):21-34. doi: 10.1053/j.jrn.2020.02.003. Epub 2020 May 5. PMID: 32386937.

 

Gli effetti degli antidiabetici sul metabolismo osseo

Diabete e disturbi ossei come l’osteoporosi sono spesso correlati, infatti il metabolismo del glucosio risulta influenzare la salute delle ossa. Studi sperimentali hanno indagato gli effetti dei farmaci antidiabetici sul metabolismo osseo, riscontrando effetti positivi, negativi o neutri in base alla terapia. Tuttavia, questi studi spesso sono da confermare tramite ulteriori indagini cliniche. Una meta-analisi pubblicata su Frontiers in Endocrinology, scritta da Cipriani, Colangelo e colleghi, riassume quanto riscontrato finora, evidenziando l’importanza di approfondire gli studi sull’argomento.

Antidiabetici e metabolismo osseo

Le anomalie del metabolismo del glucosio sono associate alla fragilità ossea nel diabete mellito di tipo 1 e in quello di tipo 2. Questo si espleta tramite diversi meccanismi fisiologici, per cui l’assunzione di antidiabetici può comportare alterazioni nella salute delle ossa in diversi modi.

Insulina

In uno studio del 2017 pubblicato su Scientific Reports, svolto su 58853 pazienti diabetici, è emerso che l’insulina sembra aumentare il rischio di fratture osteoporotiche nel 38% dei casi. Questo potrebbe essere dovuto all’ipoglicemia provocata dall’ormone quando presente in dosi eccessive.

Metformina e sulfaniluree

Metformina e sulfaniluree sono utilizzati nel trattamento del diabete di tipo 2. Gli studi sui loro effetti sul metabolismo osseo sono da approfondire. La metformina risulta attivare il differenziamento delle cellule staminali mesenchimali in osteoblasti, inibendo quello in osteoclasti, ma mentre alcune ricerche riportano un diminuito rischio di frattura, altri non evidenziano risultati significativi. Anche le sulfaniluree risultano stimolare la formazione ossea. Non sembrano avere effetti sulla BMD (densità minerale ossea, Bone Mineral Density) o sulle fratture, ma occorre indagare ulteriormente su questi aspetti.

Tiazolidindioni

I tiazolidindioni (tiazolidinedioni o glitazoni) aumentano la sensibilità dei tessuti all’insulina. Risultano associati a una riduzione della BMD e all’aumento dell’incidenza di fratture, in particolare nelle donne in postmenopausa, probabilmente in modo proporzionale alla durata della terapia. Sembra, infatti, che riducano i meccanismi inibitori sulla differenziazione degli osteoclasti, aumentino la produzione di sclerostina e comportino l’infiltrazione di adipociti nel midollo osseo.

Incretine

Le incretine sono ormoni che stimolano una  riduzione del glucosio nel sangue. Gli incretino-mimetici quali exenatide e liraglutide risultano prevenire la perdita ossea associata alla riduzione del peso. Inoltre, il trattamento con liraglutide e lisixenatide sembra potrebbe diminuire gli eventi di frattura. Tuttavia, gli studi sul tema non sono conclusivi.

Inibitori della DPP4

Gli inibitori della DPP-4 (dipeptidil-peptidasi IV), o gliptine, sono usati nel trattamento del diabete di tipo 2. Gli studi che hanno indagato i loro effetti sul metabolismo osseo sono contrastanti: mentre alcuni riportano una possibile diminuzione del rischio di frattura, altri mostrano che gli inibitori della DPP4 avrebbero un effetto sul rischio di frattura tanto significativo quanto l’assunzione di placebo.

Inibitori SGLT2

Gli inibitori SGLT2 (inibitori del cotrasportatore di sodio-glucosio di tipo 2) riducono la glicemia agendo a livello dei reni. Uno studio pubblicato nel 2016 ha riscontrato che questi farmaci comporterebbero un aumento del 4% nel rischio di fratture, forse agendo sull’asse calcio-vitamina D-paratormone, ma studi successivi non hanno confermato questa correlazione, supponendo che potesse derivare dalla presenza di cadute. Al momento, quindi, sembra che gli inibitori SGLT2 non abbiano effetti sul metabolismo osseo.

Conclusioni

Dagli studi emerge che i farmaci antidiabetici possono avere effetti significativi sulla salute delle ossa, con importanti implicazioni cliniche. Dato il legame che intercorre fra diabete e disturbi ossei e la diffusione di queste malattie, sono necessarie indagini cliniche randomizzate che analizzino più approfonditamente gli effetti delle terapie per il diabete sul metabolismo osseo. Questo potrebbe consentire di prevenire il rischio di sviluppo di osteoporosi nei pazienti diabetici e di eseguire valutazioni cliniche più proattive.

 

Fonte:

Cipriani C, Colangelo L, Santori R, Renella M, Mastrantonio M, Minisola S, Pepe J. The Interplay Between Bone and Glucose Metabolism. Front Endocrinol (Lausanne). 2020 Mar 24;11:122. doi: 10.3389/fendo.2020.00122. PMID: 32265831; PMCID: PMC7105593.

Una dieta ricca di grassi aumenta il rischio di osteoporosi

Si stima che il 40% circa delle donne e il 20% circa degli uomini sperimenterà una frattura da osteoporosi nella sua vita. Il problema è aggravato dallo stile di vita sedentario e dalla dieta non corretta, in particolare prima dei 30 anni d’età. In una review pubblicata in Food & Function (The Royal Society of Chemistry), Jie Qiao e colleghi hanno esaminato, in particolare, l’impatto di una dieta grassa sul rischio di osteoporosi.

 

Alimentazione e salute delle ossa

Sono molti i fattori non modificabili che possono compromettere lo stato delle ossa, come età, sesso e fattori genetici. Ma su altri fattori è possibile intervenire, in particolare, sull’attività fisica e sulla dieta.

È noto che l’alimentazione è molto importante nel mantenimento della salute dell’osso. Tra i nutrienti che si ritiene aiutino a prevenire osteoporosi e altri disturbi ossei vi sono:

Studi recenti hanno anche suggerito che alimenti ricchi di probiotici potrebbero essere di aiuto per mantenere la salute ossea. A comportare effetti negativi sulle ossa, invece, potrebbero essere diete sbilanciate, in particolare troppo ricche di grassi.

 

Dieta ricca di grassi e osteoporosi

In passato si credeva che una dieta ricca di grassi rafforzasse le ossa, perché l’aumento di peso derivante da tale alimentazione fungerebbe da carico meccanico, che aumenta la massa delle ossa. Alcuni studi (come Adami et al., 2004) hanno osservato che alti livelli di colesterolo LDL (Low Density Lipoprotein) e di trigliceridi si associano a maggiori valori di BMD (Bone Mineral Density). Tuttavia, studi recenti hanno mostrato che le diete ricche di grassi, in cui i lipidi costituiscono più del 30% dell’energia totale del pasto, inducono osteoporosi.

Una dieta troppo ricca di grassi sembra influire sulle ossa attraverso diversi meccanismi.

  • Altera la composizione del microbiota e quindi sul suo rapporto con le ossa.
  • Colesterolo e trigliceridi possono comportare infiammazioni del tratto digerente, alterando così la permeabilità intestinale. Questo potrebbe aumentare l’attività degli osteoclasti, che riducono la massa ossea.
  • Un’alimentazione ricca di lipidi aumenta lo stress ossidativo, che contribuisce all’osteoporosi.
  • Sembra che una dieta troppo ricca di grassi porti le cellule staminali mesenchimali a differenziarsi maggiormente in adipociti che in osteoblasti.
  • Le cellule adipose, che aumentano con una dieta grassa, secernono ormoni e altre sostanze che influiscono sul metabolismo osseo.
  • L’aumento della massa corporea comporta una riduzione dell’attività fisica, da cui deriva anche un peggioramento dello stato scheletrico.

In ogni caso, sembra che l’esercizio fisico (e in particolare quello aerobico) possa invertire parte di questi effetti negativi. Inoltre, una dieta troppo povera di grassi comporterebbe comunque problemi.

Stile di vita e qualità della vita

Con l’aumentare dell’età media diventa sempre più importante studiare le malattie legate all’invecchiamento. In particolare, un’alimentazione troppo ricca di lipidi contribuisce alla comparsa di molte patologie, che includono disturbi cardiovascolari, problemi metabolici, alcune forme di cancro e osteoporosi. Conoscere i meccanismi sottostanti a questi fenomeni consente di prevenirli e trattarli meglio, garantendo una migliore qualità della vita delle persone.

 

Fonti:

Qiao J, Wu Y, Ren Y. The impact of a high fat diet on bones: potential mechanisms. Food Funct. 2021 Feb 15;12(3):963-975. doi: 10.1039/d0fo02664f. PMID: 33443523.

Willems HME, van den Heuvel EGHM, Schoemaker RJW, Klein-Nulend J, Bakker AD. Diet and Exercise: a Match Made in Bone. Curr Osteoporos Rep. 2017 Dec;15(6):555-563. doi: 10.1007/s11914-017-0406-8. PMID: 29098573; PMCID: PMC5705732.

Adami S, Braga V, Zamboni M, Gatti D, Rossini M, Bakri J, Battaglia E. Relationship between lipids and bone mass in 2 cohorts of healthy women and men. Calcif Tissue Int. 2004 Feb;74(2):136-42. doi: 10.1007/s00223-003-0050-4. Epub 2003 Dec 15. PMID: 14668965.

 

Gli effetti degli interferenti endocrini sulla salute delle ossa

Gli interferenti endocrini sono definiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come sostanze esogene che compromettono il funzionamento del sistema endocrino con gravi effetti sull’essere umano e talvolta sulla sua progenie. Queste molecole hanno un impatto negativo anche sullo sviluppo e la rigenerazione delle ossa, influendo sia sul rimodellamento osseo sia sulla mineralizzazione della matrice extracellulare. Yanglova e Yaglov hanno esaminato la letteratura sull’argomento ricavandone un riassunto aggiornato.

Queste informazioni risultano utili ai fini della prevenzione; inoltre, conoscere i meccanismi alla base di queste disfunzioni può fornire indizi per elaborare nuovi trattamenti e terapie.

 

Gli interferenti endocrini

Gli ormoni regolano molte delle funzioni fisiologiche dell’organismo in modo molto fine e ognuno di essi può avere effetti diversi su organi diversi a seconda dei recettori presenti. Per queste ragioni, sostanze che interferiscono con il sistema endocrino possono avere conseguenze ad ampio spettro sull’organismo.

I distruttori endocrini, anche detti distruttori o perturbatori endocrini, possono alterare il funzionamento del sistema endocrino in diversi modi:

  • mimano l’azione di un ormone, con un effetto agonistico;
  • bloccano il recettore, con effetto antagonistico;
  • alterano la regolazione della produzione ormonale;
  • alterano il trasporto sanguigno dell’ormone.

Ne esistono molti tipi diversi, in genere di origine artificiale, e si possono trovare in ogni tipo di ambiente. Oltre alla regolazione del sistema endocrino, possono comprometterne anche lo sviluppo e comportare danni al sistema immunitario.

Interferenti endocrini e salute delle ossa

Alcuni distruttori endocrini compromettono lo sviluppo del tessuto scheletrico, portando a gravi conseguenze quali:

La sempre maggiore diffusione dei perturbatori endocrini potrebbe spiegare, in parte, l’aumento dell’incidenza di questi disturbi in tutto il mondo.

 

Come i distruttori endocrini interferiscono con lo sviluppo osseo

Lo sviluppo e la rigenerazione delle ossa sono regolati da molti ormoni:

Probabilmente, i distruttori endocrini interferiscono con i processi in cui sono coinvolti questi ormoni o nel metabolismo del calcio. In particolare, in letteratura sono presenti indagini approfondite su alcuni perturbatori endocrini.

  • I bisfenoli (come il bisfenolo A o BPA) sono impiegati nella produzione di alcuni tipi di plastiche molto diffuse. Hanno azione agonistica nei confronti degli estrogeni, antagonistica per androgeni e glucocorticoidi e disturbano la segnalazione tiroidea. In questo modo interferiscono con lo sviluppo osseo, comportando difetti scheletrici nei feti e osteoporosi nelle donne.
  • Il dietilstilbestrolo (DES) è un analogo sintetico degli estrogeni con attività biologica diverse volte superiore a quella dell’estradiolo, in passato prescritto per diversi disturbi riproduttivi e per aumentare la fertilità dei capi di bestiame. Tuttavia, questa sostanza aveva molti effetti avversi, tra cui lo sviluppo di cancro e diversi effetti sulle ossa. L’assunzione di DES comporta infatti l’accorciamento delle ossa negli uomini e l’elongazione delle ossa tubolari e la riduzione di tessuto osseo nelle donne. Questo è dovuto al suo effetto proestrogenico.
  • Il pesticida para-diclorodifeniltricloroetano o DDT e i suoi metaboliti sono molto diffusi e persistenti nell’ambiente. Il suo eccesso provoca alcune patologie, tra cui alcune forme di cancro (forse anche osseo) e l’osteoporosi. Si pensa che questo sia dovuto a suoi effetti proestrogenici, antiandrogenici e di interferenza con la produzione di ormoni tiroidei e surrenali.
  • Gli alchilfenoli sono usati nelle industrie tessili, di detergenti e plastiche. Inibiscono la secrezione di testosterone, la spermatogenesi e la produzione di osteoblasti, comportando malformazioni ossee.
  • I policlorobifenili (PCB) sono vietati in molte parti del mondo, ma in alcuni paesi sono impiegati in industrie di elettronica. Interferiscono con la produzione e il trasporto degli ormoni tiroidei, provocando problemi cognitivi e malformazioni scheletriche nei bambini.

Poco studiati e non noti, invece, sono i meccanismi che rendono distruttori endocrini altre sostanze molto diffuse, come diossine e ftalati. Le diossine, che derivano dalla conbustione dei rifiuti, si accumulano nell’ambiente e negli organismi dove hanno effetti carcinogeni, immunosoppressivi ed embriotossici, provocando anche malformazioni scheletriche. Gli ftalati, utilizzati come plastificanti, competono con androgeni ed estrogeni impattando sul sistema riproduttivo e la regolazione di molti meccanismi fisiologici.

Studiare più approfonditamente gli interferenti endocrini e i loro effetti è doppiamente importante. In primo luogo, può aiutare nella prevenzione. In secondo luogo, può far luce su meccanismi fisiologici che potrebbero consentire di individuare possibili terapie e trattamenti.

Fonte:

Yaglova NV, Yaglov VV. Endocrine Disruptors as a New Etiologic Factor of Bone Tissue Diseases (Review). Sovrem Tekhnologii Med. 2021;13(2):84-94. doi: 10.17691/stm2021.13.2.10. Epub 2021 Jan 1. PMID: 34513081; PMCID: PMC8353721.

Manoj K, Kumar SD et al, Environmental Endocrine-Disrupting Chemical Exposure: Role in Non-Communicable Diseases. Front. Public Health. 2020;8 2296-2565 549. DOI: 10.3389/fpubh.2020.553850.

 

Osteoporosi e menopausa: le raccomandazioni aggiornate della North American Menopause Society

L’osteoporosi è una condizione cronica e progressiva, che richiede una terapia a vita. Una corretta valutazione dei rischi di frattura e dei provvedimenti da mettere in atto, inclusi stile di vita e farmaci appropriati, può massimizzare la qualità della vita della persona. Dal momento che l’osteoporosi colpisce molte donne in menopausa, è importante che coloro che le hanno in cura conoscano le migliori pratiche da applicare ai casi specifici. A questo scopo, la North American Menopause Society (NAMS) ha incaricato un gruppo di medici esperti in malattie del metabolismo osseo e/o di salute della donna per aggiornare la dichiarazione di posizione del 2010. L’aggiornamento si basa su prove fornite da trial clinici e, ove questo non era possibile, sulle migliori pratiche cliniche, come valutato dal gruppo di professionisti.

Raccomandazioni per la prevenzione dell’osteoporosi nelle donne in menopausa

La prevenzione è l’arma più efficace per evitare le conseguenze più gravi dell’osteoporosi. Il NAMS raccomanda che i medici incoraggino tutte le donne in menopausa ad assumere uno stile di vita che riduca il rischio di perdita ossea:

  • avere una dieta bilanciata che consenta di assumere adeguate dosi di calcio e vitamina D. Secondo l’IOM (Institute Of Medicine), per le donne sopra i 50 anni l’assunzione giornaliera di calcio dovrebbe essere pari a 1000-1200 mg e quella di vitamina D pari a circa 400-600 IU (800 IU sopra i 70 anni). Gli integratori sono raccomandati solo laddove non è possibile raggiungere queste dosi tramite l’alimentazione;
  • svolgere attività fisica regolarmente;
  • mantenere il peso forma;
  • evitare il fumo (che incrementa il rischio di fratture del 30%) e l’assunzione eccessiva di alcol;
  • usare misure per evitare cadute, soprattutto nelle donne più anziane e con mobilità ridotta.

È importante anche la prevenzione secondaria: annualmente, il medico dovrebbe misurare altezza e peso corporeo, cifosi, dolore cronico alla schiena e rischi clinici per osteoporosi, fratture e cadute. Il professionista dovrebbe anche valutare la BMD (bone mass density) in tutte le donne che presentano almeno uno di questi fattori:

Si può valutare di misurare la BMD anche in donne molto magre (più leggere di 57,7 kg o con BMI inferiore ai 21 kg/m2), fumatrici o che assumono troppo alcol, assunzione discontinua di estrogeni con altri fattori di rischio per fratture, assunzione di farmaci che predispongono a perdita di massa ossea o con storia di fratture in famiglia.

 

Raccomandazioni per la valutazione clinica per l’osteoporosi nelle donne post-menopausa

Il NAMS indica il DXA come tecnica di indagine preferenziale. Non è raccomandato l’uso routinario di marcatori biochimici per il turnover osseo. I parametri per la diagnosi sono da individuarsi nel T-score a livello di spina lombare, collo del femore e anca:

  • T-score superiore a -1,0: normale;
  • tra -1,0 e -2,5: osteopenia (ridotta massa ossea);
  • inferiore a -2,5: osteoporosi.

Prima dei trattamenti per osteoporosi, per indagare possibili cause secondarie di osteopenia può essere utile anche eseguire esami del sangue (in particolare, conta completa delle cellule del sangue, calcio, albumina, fosfati, fosfatasi e creatinina).

Secondo il NAMS, l’imaging vertebrale è appropriato nelle donne dai 70 anni in su o in coloro che presentano una riduzione dell’altezza (HHL, historical height loss, calcolata come la differenza tra la maggiore altezza ricordata dalla paziente e quella attuale) superiore ai 3,8 cm.

Raccomandazioni per prevenzione farmacologica dell’osteoporosi nelle donne in menopausa

In ogni caso è consigliata un’attenta valutazione della storia medica della donna e l’intervento sulla dieta affinché sia corretta e fornisca la giusta dose di calcio e vitamina D. Il follow-up consentirà di rimodulare la terapia (che dovrà essere a vita) ove necessario.

Il NAMS raccomanda l’uso di farmaci per la prevenzione dell’osteoporosi in pazienti:

  • che presentano T-score inferiore a -1,0 e una rapida perdita di massa ossea (causata ad esempio da una deficienza di estrogeni o l’interruzione di terapia ormonale sostitutiva);
  • che presentano T-score inferiore a -1,0 e altri fattori di rischio (come una storia familiare di osteoporosi). In questo caso sono consigliati i bisfosfonati;
  • la cui menopausa è prematura.

Nelle donne più giovani e in salute, soprattutto in quelle che presentano sintomi vasomotori, è raccomandata una terapia di estrogeni più progesterone o più bazedoxifene (o solo estrogeni nelle donne prive di utero). Dove gli estrogeni sono controindicati, il NAMS consiglia di preferire i bisfosfonati. Il raloxifene è indicato nelle donne a rischio di sviluppare cancro al seno e con sintomi vasomotori poco frequenti.

Raccomandazioni per il trattamento dell’osteoporosi

Tutti i farmaci approvati per l’osteoporosi hanno dimostrato di ridurre il rischio di fratture. Generalmente non è raccomandato assumere più farmaci differenti allo stesso tempo, mentre in alcuni casi le terapie sequenziali possono essere di aiuto in alcuni casi.

Il NAMS raccomanda il trattamento dell’osteoporosi con farmaci nelle donne in menopausa che:

  • hanno avuto fratture all’anca o vertebrali;
  • presentano T-score inferiori a -2,5 a livello di anca, spina lombare o collo del femore;
  • hanno T-score superiori a -1,0 ma inferiori a -2,5 e una storia di fratture (esclusi a viso, piedi e mani) o un aumentato rischio di presentare fratture.

La terapia ottimale varia da caso a caso, in base a BMD e rischio di frattura. Nelle donne con rischio di frattura moderato si consiglia una terapia iniziale di bisfosfonati (soprattutto se in ottime condizioni renali) o raloxifene (soprattutto nelle donne ad alto rischio di cancro al seno e a basso rischio di frattura all’anca, ictus e tromboembolie venose). Se il rischio è alto, si raccomandano bisfosfonati o denosumab. Nelle donne ad altissimo rischio di frattura (ad esempio con fratture recenti, con molteplici fattori di rischio o con T-score inferiore a -3,0) è bene considerare terapie osteoanaboliche.

L’efficacia va sempre valutata tramite follow-up; se risulta subottimale occorre capirne i motivi. È consigliato cambiare terapia se non porta a miglioramenti entro pochi mesi o se dà effetti avversi non gestibili. Il trattamento deve essere continuato anche se il T-score supera il valore di -2,5, per cui il medico ha il compito di incoraggiare la paziente ad aderire alla terapia.

 

Fonte:

Management of osteoporosis in postmenopausal women: the 2021 position statement of The North American Menopause Society. Menopause. 2021 Sep 1;28(9):973-997. doi: 10.1097/GME.0000000000001831. PMID: 34448749.

 

Displasie scheletriche monogeniche: come scoprire e individuare nuove terapie

Le malattie genetiche a carico dell’osso, e in particolare quelle monogeniche, sono rare, ma complessivamente risultano molto rilevanti clinicamente, in quanto colpiscono circa 1 bambino su 5mila. Ciononostante, sono ancora poco conosciute e comprese. Quindi, è importante studiarle, per poterle diagnosticare e trattare e per conoscerne gli impatti. Inoltre, queste ricerche possono condurre ad avanzamenti scientifici di cui si potrebbe beneficiare anche in altre patologie ossee, ad esempio nel caso dell’osteoporosi. Il progetto GEMSTONE (GEnomics of MuscoSkeletal traits TranslatiOnal NEtwork) ha unito professionisti di diversi campi per tradurre le scoperte genetiche in applicazioni cliniche. Il gruppo 3 si è occupato di riassumere le displasie genetiche monogeniche ora conosciute e i metodi per identificarne di nuove e sviluppare nuove terapie.

Le displasie scheletriche

Attualmente conosciamo oltre 460 tipi di displasie scheletriche, che aumentano o diminuiscono la massa ossea. La maggior parte di queste patologie è monogenica: deriva da mutazioni nei geni che regolano la composizione e la funzione di proteine essenziali in:

Le displasie scheletriche possono avere diversi effetti, da un rischio di frattura leggermente aumentato fino alla morte neonatale. Per alcuni tipi di questi disturbi ancora non conosciamo la causa, per cui la diagnosi è particolarmente complessa e i trattamenti potrebbero essere migliorati. Inoltre, sembra essere necessario modificare le nostre conoscenze su malattie più note.

La displasia scheletrica più conosciuta è l’osteogenesi imperfetta, caratterizzata da una bassa massa ossea che rende le ossa della persona deformi e più propense alle fratture, e da problemi extrascheletrici (lassità della pelle e delle articolazioni, sclere bluastre, problemi dentali e deficit uditivi). A causarla sono circa 20 diversi tipi di problemi genetici che alterano quantità o qualità del collagene di tipo I, ma i meccanismi che potrebbero influenzare questa proteina risultano essere più di quelli che conosciamo, per cui potrebbero essere necessarie revisioni della classificazione di questa malattia. Inoltre, alcune forme di osteogenesi imperfetta sono poco note e potrebbero essere confuse con osteoporosi primaria

Diagnosticare le displasie genetiche monogeniche: l’anamnesi

È importante prestare molta attenzione al fenotipo a causa dello spettro di patologie della massa ossea. La diagnosi clinica, infatti, restringe molto il campo. Quindi, un’anamnesi dettagliata è essenziale: in presenza di sospette malattie ossee rare, è bene soffermarsi su:

  • crescita e sviluppo;
  • salute dentale;
  • sintomi a carico dello scheletro ed extrascheletrici;
  • malattie e trattamenti precedenti;
  • storia familiare delle patologie;
  • storia delle fratture subite dal soggetto (con età alla frattura, meccanismo, tipo e sito della frattura, trattamento e tempo necessario per la guarigione);
  • ridotta mobilità e altri fattori legati allo stile di vita.

È fondamentale anche effettuare visite mediche frequentemente, prestando attenzione a sintomi scheletrici ed extrascheletrici che potrebbero aiutare nella diagnosi di specifici tipi di malattie ossee (come i segni dell’osteogenesi imperfetta) o che potrebbero indicare la presenza di malattie secondarie (come sindrome di Cushing, disturbi tiroidei o malnutrizione).

Diagnosticare le displasie genetiche monogeniche: gli esami di laboratorio

A seconda del caso, gli esami di laboratorio dovrebbero includere analisi utili a indagare l’omeostasi calcio-fosforo ed escludere cause secondarie di osteoporosi. Possono essere utili analisi quali:

Sono di supporto anche i test di imaging (radiografie, tomografia computerizzata, risonanza magnetica, scintigrafia ossea con radionuclidi) e l’analisi della BMD con densitometria ossea, soprattutto se ripetuta nel tempo. In alcuni casi può essere utile una biopsia ossea transiliaca, ma occorre un istopatologo molto esperto di ossa per una diagnosi corretta.

In seguito a una biopsia ossea (o, dove non sia possibile, dei fibroblasti cutanei) è possibile effettuare:

  • esami istologici;
  • esami istomorfometrici;
  • back-scattering electron imaging;
  • microspettroscopia di Raman;
  • tecniche di immunoistochimica;
  • colture delle cellule mesenchimali e/o degli osteoblasti.

Diagnosticare le displasie genetiche monogeniche: le analisi genetiche

In alcuni casi è applicabile la tecnica di Sanger, altrimenti sono disponibili sempre più numerosi gene panel sequencing tool. Per interpretare correttamente i dati, i ricercatori consigliano di consultare le linee guida dell’ACMG (American College of Medical Genetics and Genomics). Il sequenziamento di tutto il genoma (WES) o di tutto l’esoma (WGS) consente di individuare nuove varianti, ma è necessario filtrarle; a questo scopo sono utili le indicazioni dell’ACMG e strumenti come SIFT e CADD. I dati potranno essere caricati su GeneMatcher. È possibile integrare le informazioni a partire dal Muscoskeletal Knowledge Portal e dall’IMPC.

Un altro metodo utile di indagine è quello dell’RNA-seq.

Diagnosticare le displasie genetiche monogeniche: le analisi in vitro e in vivo

Per ottenere buoni risultati è bene selezionare le giuste colture cellulari: la scelta deve essere individuata a seconda del singolo caso (variante genetica, modello di ereditarietà genetica, livelli di espressione genica, funzione della proteina associata). Tra i migliori modelli animali, i topi rappresentano il gold standard, ma sembra che i pesci zebra (Danio rerio) potrebbero rappresentare un’ottima alternativa. Secondo gli autori dello studio, sfruttare tecniche in vitro e in vivo contemporaneamente e in modo coordinato con altri ricercatori potrebbe accelerare la scoperta di nuovi trattamenti, applicabili non soltanto a displasie genetiche ma anche ad altre patologie più comuni.

Fonte:

Formosa MM, Bergen DJM, Gregson CL, et al. A Roadmap to Gene Discoveries and Novel Therapies in Monogenic Low and High Bone Mass Disorders. Front Endocrinol (Lausanne). 2021;12:709711. Published 2021 Aug 13. doi:10.3389/fendo.2021.709711

Alendronato effervescente: nuova formulazione per una nuova aderenza alla terapia

Recentemente è stata proposta per l’Alendronato una nuova formulazione di 70 mg in soluzione tamponata effervescente che, sulla base di recenti evidenze, sembrerebbe aiutare a contrastare gli eventi avversi delle altre forme farmaceutiche, permettendo alle donne affette da osteoporosi di portare avanti in maniera continuativa la terapia prescritta. Uno studio condotto in Italia mostrerebbe inoltre come questa nuova formulazione si accompagnerebbe anche ad un migliore bilanciamento nel rapporto costo-efficacia.

L’annoso problema dell’aderenza alla terapia con Alendronato

L’osteoporosi è caratterizzata da una bassa densità minerale ossea (Bone Mineral Density, BMD) che, secondo le ultime indicazioni provenienti dalla WHO, si riduce di circa 2,5 deviazioni standard rispetto a donne giovani e in salute. I trattamenti di questa patologia prevedono l’assunzione regolare di bisfosfonati, tra i quali troviamo l’Alendronato.

La forma farmaceutica più diffusa di questo farmaco è quella di compresse da 70 mg, che va assunta una volta alla settimana e riduce il rischio di fratture in maniera consistente. Purtroppo, gli effetti collaterali che spesso si accompagnano a questa terapia sono importanti e si localizzano a livello del tratto gastrointestinale, provocando nausea, reflusso gastrico e dolori acuti. Questa condizione porta in molti alla diminuzione dell’aderenza alla terapia da parte dei pazienti nel giro di un anno, compromettendo l’efficacia della terapia.

Cambio di rotta, Alendronato effervescente

Con l’avvento della nuova formulazione in soluzione tamponata effervescente, sembrerebbe che molti dei problemi relativi alla formulazione in compresse siano stati superati. Uno studio condotto dal gruppo di Giusti mostra come l’utilizzo di questa nuova forma farmaceutica abbia portato ad una aderenza alla terapia molto più alta rispetto alle pazienti trattate con compresse. Nel corso dello studio, circa il 91% dei partecipanti del gruppo con formulazione effervescente rispetto al 75% di quelle che hanno assunto la formulazione in compresse dopo un periodo di 6 mesi e tale differenza si è mantenuta più o meno simile fino alla fine del periodo dello studio (12 mesi).

Questo fenomeno potrebbe essere ricondotto alle caratteristiche intrinseche della nuova formulazione. La forma effervescente, infatti, aiuterebbe a minimizzare l’esposizione della mucosa alla forma solida dell’Alendronato che solitamente non supera i 30 minuti dopo l’assunzione del farmaco. Al contrario invece, la forma in capsule permette di liberare per più tempo l’Alendronato in forma libera, cosa altamente irritante per lo stomaco e che porta ad episodi acuti di reflusso esofageo.

Benefici importanti anche sul versante costo-efficacia

La mancata aderenza alla terapia con Alendronato si traduce con un aumento del rischio di fratture per le donne affette da osteoporosi, cosa che comporta anche un pesante onere per il sistema sanitario nazionale che deve gestire tutti i costi del paziente che ha subito la frattura. Si stima che nell’area di soli sei paesi europei (Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Spagna e Svezia) il costo di questa gestione ammonti a circa 37,5 miliardi di euro all’anno.

Alla luce di questo rilevamento, è stata condotta in Italia un’analisi della durata di 1 e 3 anni per determinare il rapporto costo-efficacia del trattamento delle pazienti con osteoporosi trattate con Alendronato effervescente rispetto ad altre strategie terapeutiche (Alendronato in capsule, acido zolendronico, denosumab e nessuna terapia).

I criteri adottati per la valutazione hanno mostrato come la formulazione effervescente abbiamo portato un miglioramento del rapporto costo-efficacia rispetto alle altre strategie, nonostante il costo sia maggiore rispetto alla sua controparte in capsule.

Un approccio che pone il paziente al centro della strategia terapeutica

I risultati illustrati fino a questo momento mettono in luce come in questo caso sia avvenuto un cambiamento nel paradigma del trattamento dell’osteoporosi, passando dalla mera adozione del trattamento più convenzionale all’ascolto dei bisogni del diretto interessato, ovvero il paziente. Questo cambiamento ha portato a perfezionare la forma farmaceutica per adattarla alle sue necessità, permettendogli di proseguire il suo percorso terapeutico e dimostrando così che la strategia migliore è sempre quella di rimuovere gli ostacoli, piuttosto che crearne di nuovi.

 

Fonti:

Giusti A, Bianchi G, Barone A, Black DM. A novel effervescent formulation of oral weekly alendronate (70 mg) improves persistence compared to alendronate tablets in post-menopausal women with osteoporosis. Aging Clin Exp Res. 2021 Jan 15. doi: 10.1007/s40520-020-01777-9. Epub ahead of print. PMID: 33449337.

Hiligsmann M, Maggi S, Veronese N, Sartori L, Reginster JY. Cost-effectiveness of buffered soluble alendronate 70 mg effervescent tablet for the treatment of postmenopausal women with osteoporosis in Italy. Osteoporos Int. 2021 Jan 14. doi: 10.1007/s00198-020-05802-5. Epub ahead of print. PMID: 33443610.

Artrite reumatoide: il trattamento COBRA attenuato è efficace quanto la terapia COBRA e ha effetti avversi ridotti

Tra i trattamenti per l’artrite reumatoide, la terapia COBRA è tra le più efficaci; per limitarne gli effetti avversi, negli ultimi anni è stata valutata una terapia COBRA attenuata, che prevede dosi diverse dei farmaci. La terapia COBRA light risulta trattare con efficacia l’artrite reumatoide dando meno effetti negativi rispetto alla terapia COBRA.

Trattamenti per l’artrite reumatoide

L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune cronica che può diventare disabilitante. I trattamenti sono più efficaci quanto prima vengono iniziati, per cui è importante diagnosticare la malattia precocemente. Si parla di Early RA, artrite reumatoide all’esordio, entro l’anno dall’inizio della malattia. Attualmente, i farmaci più efficaci risultano essere naproxen, prednisolone e prednisone, ma non sono esenti da effetti avversi. Quindi, la ricerca spinge per trovare soluzioni alternative, come per trattamenti anti-interleuchine e inibitori delle Jak, o per ottimizzare le terapie esistenti. Ad esempio, studi recenti hanno indagato la possibilità di attenuare il trattamento COBRA per limitare gli effetti avversi da corticosteroidi, che includono problemi gastrointestinali e osteoporosi.

Terapia COBRA e COBRA light per l’artrite reumatoide

La terapia COBRA (COmbinatietherapie Bij Reumatoide Artritis) prevede la somministrazione di 7,5 mg di metotrexato al giorno e 2 grammi di sulfasalazina al giorno e, inizialmente, 6 mg al giorno di prednisolone. Questo trattamento è efficace, poiché riduce i danni a livello articolare e migliora la performance fisica dei pazienti, tuttavia vi sono effetti avversi legati all’assunzione di elevate dosi di prednisolone e delle possibili interazioni fra sulfasalazina e metotrexato.

Gli effetti collaterali derivanti dai glucocorticoidi sono dose-dipendenti. Recentemente, quindi, è stata studiata una nuova terapia “attenuata”, detta COBRA light, in cui si somministrano 25 mg di metotrexato e, all’inizio, 30 mg al giorno di prednisolone.

La ricerca

Lo studio follow-up di quattro anni di Lucassen e colleghi, pubblicato nel gennaio del 2021 su Osteoporosis International, ha indagato la densità minerale ossea (BMD) di 155 pazienti con artrite reumatoide agli esordi che assumevano il trattamento COBRA oppure il trattamento COBRA light. Dopo un anno, il trattamento antireumatico era a discrezione del reumatologo del singolo paziente. Il gruppo di ricerca ha misurato la BMD dei pazienti all’inizio della terapia e poi a uno, due e quattro anni di distanza. A questo scopo ha sfruttato la assorbimetria a raggi X a doppia energia.

La terapia COBRA è risultata associata a un decremento nella BMD pari all’1,7% nell’anca, al 3,0% nel collo del femore e all’1% nella spina lombare. La terapia COBRA light si è associata a decrementi lievemente maggiori della BMD dell’anca (-3,3%) e del collo del femore (-3,7%), mentre è risultata inferiore la diminuzione della BMD della spina lombare (-0,5%). Questi risultati mostrano che i benefici dei due trattamenti sono paragonabili e che è possibile modulare gli effetti avversi da prednisolone regolandone le dosi.

L’efficacia del trattamento COBRA light per l’artrite reumatoide

La perdita di BMD rilevata nei pazienti che assumevano la combinazione di farmaci COBRA light è risultata simile a quella che si osserva mediamente nelle donne post-menopausa, intorno all’1-2%, mentre inizialmente i pazienti mostravano una perdita ossea superiore al 5%.

Rispetto ad altri studi sull’argomento, la perdita di BMD a livello della spina lombare è risultata inferiore. Questo si spiega con alcuni fattori legati allo studio, quali:

  • l’età della popolazione considerata (due terzi erano donne con un’età media di 52 anni);
  • la bassa incidenza di osteoporosi (solo il 6-7% dei pazienti presentava questa condizione, una percentuale più bassa di quella considerata in altri studi);
  • l’assunzione di farmaci protettivi (come i bisfosfonati).

In ogni caso, la ricerca conferma risultati precedenti secondo i quali gli effetti a lungo termine della terapia COBRA light sono favorevoli e comportano meno effetti avversi della terapia COBRA.

Fonti:

Lucassen MJJ, Ter Wee MM, den Uyl D, Konijn NPC, Nurmohamed MT, Voskuyl AE, van Schaardenburg D, Kerstens PJSM, Bultink IEM, Boers M, Lems WF. Long-term effects on bone mineral density after four years of treatment with two intensive combination strategies, including initially high-dose prednisolone, in early rheumatoid arthritis patients: the COBRA-light trial. Osteoporos Int. 2021 Jul;32(7):1441-1449. doi: 10.1007/s00198-020-05781-7. Epub 2021 Jan 19. PMID: 33464392; PMCID: PMC8192358.

Paglia MDG, Silva MT, Lopes LC, Barberato-Filho S, Mazzei LG, Abe FC, et al. (2021) Use of corticoids and non-steroidal anti-inflammatories in the treatment of rheumatoid arthritis: Systematic review and network meta-analysis. PLoS ONE 16(4): e0248866. doi:10.1371/journal.pone.0248866

Osteoporosi e sarcopenia: l’acido zoledronico può migliorare entrambi i disturbi?

Insieme all’osteoporosi, la sarcopenia (perdita di forza e massa muscolare) costituisce un importante fattore di rischio di disabilità, fratture e incidenti che possono portare anche al decesso. L’acido zoledronico è un bisfosfonato di terza generazione che, se iniettato per via intravenosa una volta l’anno, riduce notevolmente il rischio di fratture in pazienti con osteoporosi. Uno studio pubblicato in Drug Design, Development and Therapy ha indagato la possibilità che questo farmaco possa migliorare anche la riduzione di massa muscolare che, con l’avanzare dell’età, si presenta insieme alla riduzione di massa ossea.

Acido zoledronico, osteoporosi e sarcopenia

Sono diversi i trattamenti per l’osteoporosi, mentre sono ancora carenti quelli che migliorerebbero la perdita di massa muscolare che si può avere con l’invecchiamento. Alcuni studi precedenti hanno suggerito che alcuni bisfosfonati potrebbero inibire l’atrofia muscolare e promuovere la capacità rigenerativa dei muscoli tramite downregulation del SIRT3 o stimolare la formazione di miotubi. Tuttavia, il fenomeno non è mai stato indagato negli esseri umani.

L’acido zoledronico è uno dei bisfosfonati più efficaci nel trattamento dell’osteoporosi, in quanto in vitro mostra la maggiore affinità per l’idrossiapatite. Nelle donne in menopausa ha dimostrato di aumentare la massa ossea e di diminuire fortemente il rischio di fratture. Questo farmaco risulta anche aumentare la funzione e la massa muscolare in topi sotto chemioterapia proteggendo dall’indebolimento muscolare, effetto collaterale di carboplatino e cisplatino. Quindi, il gruppo di studio di Huang, Shiao e Mao ha quindi indagato se questo fosse vero anche nella specie umana.

Lo studio

Per capire se l’acido zoledronico migliorasse la sarcopenia negli umani, i ricercatori hanno eseguito uno studio di coorte retrospettivo a partire da pazienti della contea di Yilan (Taiwan) tra il maggio 2013 e l’aprile 2020. Hanno considerato, inizialmente, 1418 individui con osteoporosi (con T-score inferiore o uguale a -2,5, ottenuto dalla densità minerale ossea misurata a livello di anca, collo del femore o spina lombare). Sono stati esclusi pazienti che:

Il campione finale includeva 113 pazienti trattati con acido zoledronico (5 mg iniettati una volta l’anno per 3 anni) e 118 non trattati (gruppo di controllo). A 4 anni, i pazienti sono stati esaminati tramite DXA (dual-energy X-ray absorptiometry) per valutare:

  • la BMD (bone mineral density) della spina lombare e delle anche;
  • la ASM (massa muscolare scheletrica appendicolare);
  • l’ASMI (indice di massa scheletrica appendicolare, calcolata dividendo l’ASM per il quadrato dell’altezza).

 

Risultati e conclusioni

Inizialmente, il gruppo sotto acido zoledronico e il gruppo di controllo non presentavano differenze statisticamente significative a livello di sesso, età media, BMI, ASM, ASMI o BMD. Aggiustando il risultato per altezza, massa corporea e dati iniziali, a distanza di 3 anni il gruppo di controllo vede BMD, ASM e ASMI più bassi. Al contrario, il primo insieme di pazienti risulta essere migliorato significativamente sia dal punto di vista della BMD sia per quanto riguarda ASM (aumentata di 841 g) e ASMI (aumentata di 0,35 kg/m2). Inoltre, tali livelli di miglioramento di BMD e quelli di ASM e ASMI risultano essere positivamente correlati.

Questa ricerca è la prima che abbia indagato gli effetti dell’acido zoledronico sulla massa muscolare e presenta un’importante limitazione: non ha esaminato l’effetto sulla performance dei muscoli. Tuttavia, mostra che l’acido zoledronico potrebbe produrre non solo effetti positivi sulla massa ossea, ma anche miglioramenti clinici a livello muscolare. È quindi una ricerca molto importante, perché mostra che studi più approfonditi su questo bisfosfonato potrebbero aprire la strada a terapie efficaci per la sarcopenia.

Fonte:

Huang CF, Shiao MS, Mao TY. Retrospective Study of the Effects of Zoledronic Acid on Muscle Mass in Osteoporosis Patients. Drug Des Devel Ther. 2021;15:3711-3715 doi: 10.2147/DDDT.S328858.