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Osteoporosi nelle malattie reumatiche

Le malattie reumatiche sono oggigiorno molto diffuse e spesso vengono trattate tramite la somministrazione di glucocorticoidi per gestire i sintomi della malattia. Questa tipologia di farmaci può avere effetti diretti o indiretti sull’osso, andando a provocare uno squilibrio che purtroppo si traduce in un aumento del rischio di insorgenza di malattia come l’osteoporosi.

In occasione del primo convegno organizzato da BoneHealth sull’approccio integrato alla salute dell’osso, Laura Rotunno, medico dell’Unità Operativa di Reumatologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, ha illustrato molto chiaramente quale sia il nesso tra questa patologia e l’utilizzo dei glucocorticoidi per il trattamento delle malattie reumatiche.

Gli effetti collaterali dell’uso dei glucocorticoidi

I glucocorticoidi, infatti, possono sia attivare gli osteoclasti, aumentandone la proliferazione e la relativa attività con un aumentato riassorbimento osseo, sia inibire la funzione degli osteoblasti, portando ad un blocco della formazione ossea.

Questi farmaci hanno anche la capacità di favorire l’apoptosi degli osteociti, provocando osteolisi che, aggiungendosi agli effetti precedentemente citati, porta ad una forte diminuzione della densità minerale ossea (bone mineral density, BMD) con conseguente aumento della fragilità dell’osso.

Tra gli effetti indiretti è importante ricordare come i glucocorticoidi possano inibire l’assorbimento di calcio a livello intestinale e il suo riassorbimento a livello renale, aumentando al contempo le concentrazioni di ormone paratiroideo (influenzando l’attività di RANKL e stimolando l’osteoclastogenesi). Anche i livelli degli ormoni sessuali vengono ridotti, peggiorando il quadro generale della densità ossea.

L’effetto negativo dei glucocorticoidi si manifesta nell’osso trabecolare molto precocemente ed è più forte nei primi 6-12 mesi. Si stima che l’incidenza delle relative fratture sia del 30-50% nei primi 5 anni di terapia con questa classe di farmaci, motivo per il quale è necessario dare inizio alla terapia farmacologica di prevenzione il prima possibile (indipendentemente dal valore di densità ossea).

A tal proposito, le linee guida della SIOMMS affermano che tale trattamento di prevenzione andrebbe somministrato soprattutto per pazienti di età superiore ai 50 anni alle quali sono stati prescritti dosi di 5 mg/die di prednisone per una durata di almeno 3 mesi.

Perché l’infiammazione nell’artrite reumatoide porta a fragilità ossea

Analizzando i dati provenienti da diversi studi di recente pubblicazione, si è visto come la prevalenza dell’osteoporosi nei soggetti affetti da artrite reumatoide (AR) si aggiri tra il 30 e il 50% dei casi. Questa percentuale può essere spiegata considerando come in queste determinate circostanze siano presenti fattori sistemici e locali che contribuiscono all’esordio dell’osteoporosi.

Tra i fattori locali possiamo ricordare l’aumentata porosità corticale e trabecolare, che porta ad una maggiore fragilità ossea e ad un maggior rischio di erosione. A livello sistemico, invece, si assiste ad una perdita di massa ossea già prima dell’esordio dell’AR, evento che aumenta il rischio di fratture dovute a fragilità ossea.

A livello molecolare, i principali protagonisti del peggioramento delle condizioni del paziente risultano essere le citochine pro-infiammatorie (come TNF-α, IL-1 e IL-6) e gli autoanticorpi anti-citrullina. Entrambi questi fattori possiedono infatti la capacità di attivare gli osteoclasti e inibire gli osteoblasti (le citochine riescono ad inibire gli osteoblasti tramite l’aumento delle concentrazioni di Dkk-1), oltre a stimolare il rilascio di proteinasi che degradano la superficie ossea.

Sebbene i glucocorticoidi peggiorino la densità ossea aumentando il rischio di frattura, è però importante ricordare che in alcuni recenti studi si è visto come un basso dosaggio di questi farmaci possa addirittura avere un effetto protettivo a livello osseo.

Altri farmaci che sembra abbiano un effetto positivo sulla BMD sono i farmaci antireumatici che cambiano la malattia (disease-modifying antirheumatic drugs, DMARDs) convenzionali, come ad esempio il metotrexato. Anche i DMARDs biologici possiedono una capacità osteoprotettiva, tra i quali ricordiamo:

  • I farmaci anti-TNF
  • I farmaci anti-IL-6 e Abatacept
  • Rituximab (anti-CD20)
  • JAK inibitori

Spondilite anchilosante e TBS: nuove prospettive diagnostiche

La prevalenza dell’osteoporosi e, in generale, dell’osteopenia nei pazienti affetti da una malattia infiammatoria come la spondilite anchilosante (SA) è molto alta. Analizzando alcuni risultati provenienti da diverse pubblicazioni, si stima che più del 50% dei pazienti con SA presenti osteopenia entro 10 anni dalla comparsa della malattia e circa il 16% riceva una diagnosi di osteoporosi nello stesso lasso di tempo.

L’infiammazione generata dalla spondilite anchilosante genera infatti una perdita di massa ossea dovuta non solo agli effetti negativi che colpiscono l’intero organismo, ma anche alla presenza di lesioni localizzate in specifici punti dello scheletro, definite Bone Marrow Edema (BME), che colpiscono solitamente a livello trabecolare.

La diagnosi della perdita di massa ossea nei soggetti con SA è resa difficile dalla formazione di nuovo tessuto osseo, rappresentato dai sindesmofiti tra i corpi vertebrali e l’anchilosi del rachide. Per ovviare a questa problematica è stato proposto un nuovo tool diagnostico, chiamato Trabecular Bone Score (TBS).

Il TBS è un punteggio calcolato da un algoritmo presente nella tecnica diagnostica della DEXA. Calcolando le diverse scale di grigio di ogni singolo pixel dell’immagine acquisita, questo algoritmo rappresenta un indice quantitativo utile a calcolare la compattezza del tessuto osseo analizzato.

Tra le terapie attualmente in uso per prevenire il danno alla BMD nei pazienti con SA ricordiamo i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), gli anti-TNF e il neridronato.

La mancanza di luce solare nel Lupus Eritematoso Sistemico e il suo contraccolpo sulle ossa

All’interno del quadro clinico del Lupus Eritematoso Sistemico (LES) ad oggi risulta ancora sottostimato il rischio di frattura legato alla fragilità ossea, sebbene questo rischio sia di circa 2-3 volte superiore a quello che si riscontra in pazienti sani.

Anche in questa patologia, lo stato infiammatorio di questi pazienti (dovuto all’azione di TNF-α, IL-1, IL-6 e IL-17) porta all’aumento dell’attività degli osteoclasti, bloccando invece quella degli osteoblasti. Inoltre, sono stati riscontrati anticorpi contro le proteine carbamilate che, al pari degli ACPA, portano alla perdita della massa ossea.

È importante tenere a mente che ai pazienti affetti da LES viene spesso consigliato di evitare l’esposizione alla luce solare intesa. Sebbene questo aiuti nella gestione della malattia, ciò porta anche ad una diminuzione dei livelli di vitamina D circolante, la qual cosa viene aggravata anche dalla nefrite lupica.

Da tenere a mente che alcuni farmaci usati normalmente nella pratica clinica per la gestione di questa patologia possono essere la causa di una diminuzione della BMD. Tra questi ricordiamo, oltre ai glucocorticoidi, anche la ciclofosfamide, per la quale recenti studi hanno comprovato il legame tra questo farmaco e un’insufficienza ovarica alla base dell’aumentato rischio di fratture.

 

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

Diabete e rischio di frattura ossea

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L’osteopatia, intesa come diminuzione della densità minerale ossea (bone mineral denisty, BMD) che comporta un elevato rischio di frattura, dovrebbe essere presa maggiormente in considerazione da parte dei clinici, fino ad includere l’osso come organo bersaglio della patologia. Il convegno di BoneHealth organizzato il 6 marzo è stato un evento importate proprio per approfondire il collegamento tra la fragilità ossea e le altre comorbidità, tra cui il diabete mellito.

Anche l’osso è un bersaglio della patologia del diabete

Maurizio Rondinelli dell’Unità di Diabetologia, Endocrinologia e Malattie Metaboliche del Centro Cardiologico Monzino IRCCS di Milano ha permesso di mettere in luce le difficoltà nella gestione di questo tipo di pazienti e contribuito a definire una corretta procedura diagnostica.

Si è visto infatti come il rischio di frattura ossea aumenta nei pazienti diabetici di tipo 2 in entrambi i sessi (si stima un rischio maggiore del 28% negli uomini e 57% nelle donne). In generale, nei pazienti con diabete mellito di tipo 1 (DMT1) il rischio relativo di frattura ossea aumenta di 6 volte rispetto alla popolazione generale e di circa 2 volte per quanto riguarda i pazienti con diabete mellito di tipo 2 (DMT2).

Il paradosso del diabete

Recenti studi mostrano inoltre come nei pazienti con DMT1 si manifesta un abbassamento della BMD che aumenta il rischio di frattura, mentre nei pazienti con DMT2 la BMD risulta essere leggermente aumentata. Nonostante ciò, i pazienti con DMT2 hanno presentano un rischio maggiore di frattura, dovuto ad una peggiore qualità della densità ossea (ad es. nella microarchitettura) prodotta probabilmente dalla sindrome metabolica innescata dall’insulino-resistenza.

Altre cause potrebbero invece derivare da una prolungata infiammazione tipica del diabete sia di tipo 1 che di tipo 2, un’alterazione del rimodellamento osseo e un aumento dell’escrezione di fosforo e calcio con le urine (spesso presente nei pazienti diabetici).

L’abc dei fattori di rischio di frattura ossea nel diabete

Nel corso dell’intervento sono state riassunte quelli che sono i fattori di rischio che espongono i pazienti diabetici ad un maggior rischio di frattura. Tra queste ricordiamo:

  • Età (age): nei pazienti con DMT1 l’età non rappresenta un fattore protettivo nei confronti delle fratture (nemmeno nei bambini). Nei pazienti con DMT2 il rischio aumenta nelle persone più giovani (soprattutto per quanto riguarda le fratture dell’anca).
  • BMD: Questo valore sottostima il reale rischio di frattura di un paziente con DMT1 o DMT2. Tuttavia, a parità di T-score ed età, un paziente con DMT2 ha un rischio maggiore di subire una frattura rispetto a quello di un paziente sano.
  • Complicazioni: La neuropatia periferica, la retinopatia diabetica e la funzionalità renale alterata sono tra le principali cause di aumentato rischio di cadute e fratture sia nei pazienti DMT1 che DMT2.
  • Durata: La durata della terapia è associata ad un maggior rischio da parte del paziente di incorrere in una frattura. Anche il numero di farmaci a cui è sottoposto influisce sul rischio (per via dell’interazione tra di essi) e si è visto come alcuni farmaci ipoglicemizzanti sono associati ad una diminuzione della massa ossea, che può portare ad una frattura da caduta.
  • Fratture: La presenza di fratture pregresse nel paziente con DMT2 aumenta del 450% il rischio di una frattura dell’anca e del 390% quello per le fratture maggiori.
  • Glicemia: I pazienti con DMT1 e valori di HbA1C > 8% hanno una probabilità di circa 1,4 volte più alta di subire una frattura non vertebrale rispetto a quelli che hanno un maggiore controllo sui livelli glicemici (con valori di HbA1C < 7%). La correlazione tra glicemia e fratture nei pazienti con DMT2 è invece ancora oggetto di dibattito.

Quali sono le attuali raccomandazioni da tener presente?

In generale, le raccomandazioni provenienti dalle più importanti società di diabetologia suggeriscono un controllo dei fattori di rischio di fratture osteoporotiche insieme a quelli specifici del diabete durante ogni visita specialistica (indipendentemente dal tipo di diabete).

Per il DMT1 l’esame densitometrico DXA rimane il gold standard e andrebbe eseguito in tutti i pazienti sopra i 50 anni di età (anche prima, se ci sono fattori di rischio specifici o celiachia) insieme all’esame morfometrico vertebrale.

Per quanto riguarda invece i pazienti con DMT2 va valutata la BMD nei pazienti con più di 50 anni ed eseguito un esame FRAX® (considerando l’alternativa per l’artrite reumatoide) insieme al TBS (trabecular bone score), oltre all’esame morfometrico vertebrale.

Il trattamento dell’osteoporosi nel paziente diabetico: tra sinergie e interferenze

Oltre ad uno stile di vita sano, caratterizzato da una dieta equilibrata studiata ad hoc per i pazienti diabetici e un’attività fisica quotidiana, l’insulina risulta avere una forte azione anabolica sull’osso nei pazienti con DMT1. Sembra infatti che tramite questo trattamento sia possibile ridurre il riassorbimento osseo e aumentare al contempo la BMD. Lo stesso discorso vale anche per la metformina.

Anche gli analoghi del GLP-1, come il liraglutide, sembrano riuscire a contrastare il declino del BMD indotto dal calo ponderale, aiutando a mantenere una buona massa ossea.

Le sulfoniluree sembrano invece provocare un aumento del rischio di fratture nei pazienti diabetici, come anche nel caso di trattamenti del diabete con tiazolinedioni (che inibiscono l’osteoblastogenesi attivando PPARγ). Per quanto riguarda invece gli SGLT-2 inibitori sono necessari ulteriori studi per comprenderne a fondo l’effetto sull’osso nei pazienti con diabete.

Sembrerebbe invece che denosumab abbia la capacità non solo di ridurre i livelli circolanti della proteina DPP4 ma di aumentare allo stesso tempo anche quelli di GLP-1, aiutando a regolare i livelli glicemici dei pazienti trattati. Risultati incoraggianti per i pazienti diabetici si sono avuti anche con il teriparatide.

 

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

Gestione clinica e trattamento dell’osteonecrosi dei mascellari farmaco-relata

Tra le complicazioni che possono insorgere nel trattamento farmacologico dell’osteoporosi, lo sviluppo dell’osteonecrosi dei mascellari collegata all’uso dei bisfosfonati (biphosphonate related osteonecrosis of the jaw, BRONJ) è sicuramente l’eventualità più difficile da gestire.

L’intervento di Francesco Grecchi, responsabile dell’UO di Chirurgia Maxillofacciale dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, durante il convegno di BoneHealth ha permesso non solo di comprendere meglio la gravità della patologia ma anche di analizzarne le prospettive terapeutiche future, in un’ottica multidisciplinare.

Una malattia più “vecchia” di quanto si creda

“Se pensate di aver scoperto una nuova malattia, probabilmente non avete studiato abbastanza approfonditamente la letteratura” – Francesco Grecchi, citando Robert Marx

La BRONJ è definita una patologia emergente che è caratterizzata dall’esposizione ossea per più di 8 settimane dovuta all’instaurarsi di determinate condizioni quali, appunto, l’assunzione di bisfosfonati orali o farmaci contro il riassorbimento osseo.

In realtà, le prime diagnosi di questa malattia si trovano nei documenti medici del 1899, dove è riportato che i minatori di fosforo e gli operai delle fabbriche di fiammiferi (dove veniva manipolato il fosforo per la loro produzione) presentavano lesioni piuttosto marcate proprio nei mascellari.

Andando più indietro nel tempo è possibile riscontrare una primissima diagnosi di osteonecrosi già nel 1845. In quest’anno, infatti, ritroviamo la documentazione relativa ad un caso di osteoperiostite dovuta alla presenza di fosforo, la cui descrizione trova molti punti in comune con quella che oggi viene comunemente definita BRONJ.

Le radici della malattia e la sua diagnosi

La localizzazione dell’osteonecrosi nei mascellari presenta una motivazione biologica poiché in questa regione, molto più che in altre parti dell’organismo, è in atto un forte turnover del tessuto osseo. Inoltre, sono presenti delle popolazioni batteriche, come ad esempio gli actinomiceti, che con la loro attività portano al peggioramento delle condizioni dell’osso. A peggiorare il quadro clinico subentra anche la perdita di densità ossea che caratterizza i pazienti affetti da osteoporosi.

La patologia presenta 4 stadi di progressione (dallo stadio 0 al 3) e nelle fasi finali è caratterizzata da osteomielite con la presenza di complicanze quali sequestri ossei, fratture dei mascellari e fistole.

La diagnosi avviene principalmente mediante risonanza magnetica, TC senza mezzo di contrasto e scintigrafia. L’esame di laboratorio da prendere come riferimento per la valutazione del rischio per il paziente in cura con bisfosfonati è la rilevazione delle quantità del telopeptide C-terminale cross-link.

La prevenzione e l’approccio conservativo come strumenti terapeutici definitivi

L’applicazione di questi criteri diagnostici risulta essere fondamentale per poter procedere con la successiva fase terapeutica, che molto spesso è tipo conservativo. Infatti, se diagnosticata in tempo, la BRONJ è una patologia che può essere tenuta sotto controllo grazie alla somministrazione di antibiotici, ozonoterapia locale, trattamenti laser mirati e strumentazione piezoelettrica.

Solo nel caso di osteonecrosi avanzata è necessario ricorrere alla chirurgia. Tuttavia, anche questa pratica non è spesso risolutiva (specialmente nei casi di pazienti in stadio 3) e costringe inoltre un soggetto fragile, come il paziente con osteoporosi, a sottoporsi ad interventi invasivi e non privi di rischi.

È quindi necessario, conclude Grecchi, agire d’anticipo e puntare sulla prevenzione tramite un percorso terapeutico che prediliga un approccio conservativo. In questo modo, diventa possibile impedire la rapida progressione della patologia e rendere più semplice l’ottenimento di risultati soddisfacenti.

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

Dieci anni al fianco delle donne

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Gedeon Richter Italia, filiale italiana di Gedeon Richter, società farmaceutica multinazionale fondata 120 anni fa con sede in Ungheria, che conta prodotti distribuiti in oltre 100 Paesi del mondo e oltre 12.000 dipendenti a livello globale, celebra ad aprile i 10 anni nel nostro Paese.

L’azienda è sempre stata al fianco delle donne, con un portfolio completo di farmaci e prodotti di alta qualità e alla portata di tutte per tutelarne salute e benessere in ogni fase della vita, dall’adolescenza all’età adulta fino alla maturità.

Quest’anno rappresenta una tappa importante della nostra storia: celebriamo 10 anni di presenza in Italia. 10 anni di sfide, di risultati e opportunità.
In questo decennio tante cose sono cambiate: ci siamo messi in gioco, abbiamo raccolto tutte le sfide di un mercato in continua evoluzione e implementato, soprattutto nell’ultimo anno, un modello di business nuovo e più flessibile in grado di superare gli ostacoli della situazione attuale – un mix tra la modalità di lavoro tradizionale e un approccio innovativo, attraverso l’uso di diversi strumenti di comunicazione digitali.  Abbiamo lanciato nuovi prodotti, rispondendo con successo alle esigenze legate alla Salute della Donna e ponendo l’attenzione su nuove aree terapeutiche come l’osteoporosi, allargando così il nostro target di riferimento.

Maria Giovanna Labbate, Managing Director di Gedeon Richter Italia

A Life of Possibilities

In occasione dell’anniversario, Gedeon Richter Italia si presenta sul mercato nazionale con un nuovo volto attraverso la campagna A Life of Possibilities” che illustra la promessa che rivolge ai pazienti e al settore sanitario: per le donne la possibilità di vivere appieno e in modo consapevole le necessità di cura e di prevenzione, la possibilità di informarsi in modo adeguato ed esaustivo e di sentirsi in buone mani. Per medici, farmacisti, tutti gli altri operatori sanitari e le istituzioni, la possibilità di affidarsi a un partner affidabile per proporre alle proprie pazienti soluzioni terapeutiche di alta qualità e accessibili a tutte,  nuove “possibilità” all’avanguardia ed efficaci, in ogni fase della loro vita.

Nuovi strumenti di comunicazione

La nuova immagine di Gedeon Richter Italia è stata veicolata attraverso nuovi strumenti di comunicazione, come la newsletter e la intranet, che si sono rivelati validi strumenti di condivisione, dialogo ed engagement per i dipendenti, rendendoli partecipi dei cambiamenti che stanno investendo il settore sanitario e l’azienda stessa.

L’ultimo nato è il nuovo sito internet www.gedeonrichter.it: online da pochi giorni, riprende l’identità e il visual della campagna “A Life of Possibilities”, utilizzando parole che parlano di possibilità. Volti di donne in situazioni e fasi diverse della vita, a testimonianza di chi ha saputo cambiare il proprio punto di vista sulla malattia aprendosi a nuove possibilità. Nell’anno della celebrazione dei 120 anni dalla fondazione di Gedeon Richter e dei 10 anni della filiale italiana, il nuovo presidio web presenta storia, attività, strategia e valori dell’azienda, con un’area riservata a medici e farmacisti per accedere a tutte le informazioni e documenti dedicati alle linee di prodotto di Gedeon Richter Italia e a contenuti extra di approfondimento sul settore.

Gedeon Richter: 120 anni di successi

La storia di Gedeon Richter Plc risale al 1901 quando il fondatore, il farmacista Gedeon Richter, acquistò la Sas Pharmacy: proprio nel laboratorio di questa farmacia ha gettato le fondamenta dell’azienda e della moderna industria farmaceutica ungherese.
Oggi Gedeon Richter vanta il Centro di ricerche farmacologiche più importante dell’Europa centro-orientale, con l’obiettivo di diventare un attore di primo piano tra le midpharma europee.
Le attività della multinazionale sono verticalmente integrate e comprendono: la produzione farmaceutica, la ricerca e lo sviluppo, le vendite e il marketing.
Il portfolio, che comprende prodotti biotecnologici oltre ai farmaci tradizionali e generici, il know-how, le infrastrutture e le capacità commerciali sono in costante evoluzione.
L’azienda concentra le proprie risorse sulle aree specialistiche in cui ha maturato maggiore competenza: i disturbi del sistema nervoso centrale nella ricerca originale, la salute della donna e lo sviluppo di prodotti biosimilari.
Nel 2021 Gedeon Richter raggiunge il traguardo dei 120 anni di attività, con lo sguardo sempre rivolto all’innovazione e l’impegno costante nella ricerca di nuovi farmaci ad alto valore aggiunto per migliorare la qualità di vita delle persone.

Fratture osteoporotiche, progetto Capture the fracture

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In uno scenario dove le fratture osteoporotiche gravano fortemente sulla qualità della vita del paziente e sul sistema sanitario nazionale, la necessità della loro corretta diagnosi ha portato alla creazione di una figura intermediaria specifica (denominata Fracture Liaison Service, FLS).

Alessandro Rossini, dirigente medico dell’Unità Operativa di Endocrinologia e Diabetologia ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ha approfondito questo tema, illustrando ai partecipanti del convegno BoneHealth tenutosi il 6 marzo scorso come il progetto “Capture the Fracture” aiuti a riempire il gap che intercorre tra la diagnosi della frattura osteoporotica e il trattamento farmacologico.

Il peso del rischio di fratture osteoporotiche nei pazienti affetti

Il carico delle fratture vertebrali è immenso – Alessandro Rossini

Alcune recenti pubblicazioni mostrano come il rischio relativo di mortalità nei pazienti che hanno subito una frattura del femore o vertebrale risulti essere aumentato di ben 9 volte rispetto alla norma. Contestualmente, anche la qualità della vita si riduce di molto, seguendo un andamento direttamente proporzionale all’età di incidenza.

È importante far notare inoltre che il rischio di una nuova frattura (che spesso si verifica nello stesso sito di quella precedente) aumenta nel corso del primo anno dall’evento ma successivamente diminuisce di molto, allineandosi a quello della popolazione generale.

Il progetto “Capture the Fracture”

Dati alla mano, è evidente come su una quota di fratture diagnosticate tramite metodica DXA, solo una minima parte riceve un trattamento farmacologico corretto prima che si verifichi la frattura.

Inoltre, nonostante ci sia stata una forte campagna di sensibilizzazione nei confronti di questa problematica, la maggior parte dei pazienti, spesso non riceve alcun tipo di terapia farmacologica che consenta di gestire adeguatamente l’evento fratturativo.

Anche se c’è una generica attività di sensibilizzazione nei confronti delle fratture, se non c’è un intervento specifico i risultati non si ottengono – Alessandro Rossini

Il progetto Capture the Fracture, come afferma Rossini, permette di avere a disposizione un indicatore che valuta l’operato della macchina organizzativa sanitaria nei confronti di questa tipologia di pazienti. Nello specifico, l’obiettivo è quello di raggiungere un indice pari o superiore all’80%, il quale ci permette di affermare che la frattura è stata diagnosticata adeguatamente e che viene trattata in modo mirato dal personale sanitario.

In questo contesto, un ruolo importante è svolto non solo dal chirurgo ortopedico ma anche dal medico di medicina generale e il radiologo. Il ruolo del radiologo nel quadro della patologia risulta essere fondamentale, in quanto di frequente la frattura è completamente asintomatica e solo un attento esame radiologico riesce a individuarla.

Un’alleanza vincente

Il rapporto tra il FLS e il radiologo ricopre quindi una funzione indispensabile. Esso si basa sulla capacità del radiologo di andare ad indagare tramite radiografia toracica-lombare la presenza di eventuali fratture vertebrali e contente di fornire al FLS anche informazioni importati sulla quantità e sulla loro posizione.

Nel quadro generale del progetto, il ruolo del clinico consiste nella ricerca attiva di una frattura vertebrale in una determinate categorie di pazienti. Ci sono infatti alcuni parametri che suggeriscono al clinico la necessità di un’attenzione maggiore nei confronti del paziente, tra questi ricordiamo:

  • L’altezza del paziente: Quando questa diminuisce di almeno 4 cm è possibile che ci si trovi in presenza di una frattura vertebrale (anche asintomatica).
  • La terapia con corticosteroidi: Questa circostanza è da tenere sotto osservazione, in quanto aumenta il rischio di frattura rispetto alla norma.
  • Storia pregressa di fratture: Il paziente che ha subito una prima frattura risulta essere molto più esposto a successive nuove fratture
  • Densitometria ed età: Un individuo con una bassa BMD e in età avanzata è più soggetto a fratture.

A livello diagnostico è utile ricordare l’importanza della tecnica della Vertebral Fracture Assessment (VFA). Questa metodica è un pratico strumento per individuare efficacemente le fratture subcliniche e fornire allo stesso tempo una valutazione basale del paziente prima del trattamento. Essendo inoltre eseguita durante la DXA, aiuta a ridurre il numero delle esposizioni alle radiazioni da parte del paziente, consentendo quindi di conciliare un grande potere diagnostico al rispetto dei criteri di sicurezza per il paziente che esegue l’esame.

Il tema del Fracture Liaison Service è stato approfondito anche in un’altra sessione del Congresso.

 

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

Fracture Liaison Service intermediario tra una corretta diagnosi e una terapia efficace

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Nei pazienti affetti da patologie che portano a fragilità ossea, come l’osteoporosi, la malattia è spesso silente e si manifesta solo tramite l’evento fratturativo. Come illustrato Sara Cassibba, specialista ambulatoriale dell’UO di Endocrinologia e Diabetologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo, durante il suo intervento al convegno di BoneHealth del 06 marzo scorso, un mancato trattamento delle fratture porta ad un peso considerevole tanto al paziente quanto al sistema sanitario nazionale.

In questo contesto, il lavoro del Fracture Liaison Service potrebbe aiutare ad individuare prontamente quei pazienti che necessitano di un trattamento specifico per la loro fragilità ossea, aiutando a migliorare la loro qualità di vita e alleggerendo il peso finanziario che comporta la gestione di questa tipologia di pazienti.

Le fratture al femore: costi umani e finanziari

Le fratture dovute a fragilità ossea sono infatti quelle che hanno un maggiore impatto tanto sulla salute del paziente, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Un paziente con osteoporosi che ha subito una frattura al femore ha infatti una maggiore mortalità nel periodo immediatamente successivo all’evento (circa il 20% in più ad un anno dalla frattura) e presenta una perdita di autonomia nella deambulazione e nelle attività quotidiane (rispettivamente del 20% e del 40%).

La consapevolezza della perdita dell’autonomia e dell’aumentata fragilità porta l’individuo ad evitare tutte quelle abitudini che erano considerate sicure prima della frattura, portando quindi ad uno sconvolgimento dal punto di vista psicologico che si traduce in una diminuzione della socialità e della qualità della vita.

Non va ignorata neanche la pressione economica che viene esercitata da questo tipo di pazienti. Oltre ai costi immediati per l’ospedalizzazione del paziente con frattura al femore e alla sua successiva riabilitazione vanno infatti considerati anche quelli indiretti dovuti alla perdita di giorni lavorativi che il caregiver dovrà utilizzare per dedicarsi alla cura del paziente con osteoporosi.

In Italia si stima che su una media di 80.000 fratture diagnosticate ogni anno

  • i costi diretti ammontino a più di 1 miliardo (tra interventi, riabilitazione e pensioni di invalidità)
  • i costi indiretti si attestino a circa 1,7 miliardi.

Il ruolo fondamentale del Fracture Liaison Service

Secondo quanto riportato nella pubblicazione OsMED sull’utilizzo dei farmaci anti-osteoporosi utilizzati in Italia, appare chiaro come ci sia un gap tra la presenza di un problema reale e persistente come quello delle fratture femorali e vertebrali dovute a fragilità ossea e l’accesso ad una corretta terapia che possa migliorare lo stato di salute di questi pazienti.

In questo contesto si inserisce la figura del Fracture Liaison Service, solitamente rappresentato da un infermiere che si pone come intermediario tra il paziente e tutte le figure del team multidisciplinare coinvolte nel percorso terapeutico e soprattutto nella prevenzione secondaria della frattura da fragilità.

Il successo portato dall’inserimento di questa figura ha portato associazioni come la Fondazione Internazionale dell’Osteoporosi (International Osteoporosis Foundation, IOF) ad elaborare un programma che possa agire efficacemente nella prevenzione delle fratture da fragilità, nel cui il FLS possa ricoprire un ruolo fondamentale. Questo progetto è chiamato Capture the Fracture e permette al FLS di avere una serie di strumenti per ottimizzare le analisi preliminari e l’implementazione dei progetti di prevenzione.

Oltre a questa iniziativa, l’IOF ha anche diffuso degli indicatori che valutano l’ottimizzazione del lavoro svolto dal FLS. Questi criteri, chiamati Best Practice Framework (BPF), prendono in considerazione diversi parametri come la valutazione del paziente e della frattura, le cause secondarie di osteoporosi, la comunicazione tra gli specialisti del team multidisciplinare, il follow-up del paziente l’archiviazione dei dati nei database competenti.

Un nuovo approccio per la prevenzione delle fratture

È indubbio che il percorso per l’ottimizzazione del lavoro svolto dal FLS sia continuo e non privo di difficoltà, dovute sia all’aspetto clinico che alla struttura organizzativa del sistema sanitario. È tuttavia chiaro che questo nuovo promettente strumento si configura come l’opportunità più valida per il miglioramento delle pratiche di prevenzione delle fratture dovute a malattie come l’osteoporosi, andando a migliorare la prospettiva di vita del paziente e ad alleggerire la pressione sul sistema sanitario nazionale nel suo complesso.

Fonte: Congresso BoneHealth 6 marzo 2021

Relazione tra i trattamenti contro il carcinoma mammario e l’osteoporosi

L’osteoporosi è una patologia che, ad oggi, riguarda più di 200 milioni di persone nel mondo e che va a indebolire la massa ossea generale, esponendo chi ne è affetto ad un rischio maggiore di fratture. Nei pazienti con carcinoma mammario, si è visto come i trattamenti oggi a disposizione possono indurre una diminuzione dei livelli di estrogeni, i quali aiutano a mantenere una buona densità ossea sia nelle donne premenopausa che in quello post-menopausa.

Nella review pubblicata dal dott. Shapiro viene analizzato nel dettaglio il rapporto che intercorre tra queste due patologie, evidenziando gli effetti dei trattamenti attualmente in uso nella pratica clinica e mettendo in risalto l’importanza della prevenzione degli effetti collaterali mediante l’integrazione con la dieta e il supporto farmacologico.

Il contraccolpo delle terapie oncologiche sull’omeostasi ossea

È stato mostrato in diversi studi come ci sia una correlazione tra i livelli di estrogeni e l’attività di diverse popolazioni cellulari presenti nel tessuto osseo, quali osteoclasti, osteoblasti e linfociti T. Questo rapporto non ancora del tutto chiarito, ma sembrerebbe che ad un incremento dei livelli di estrogeni corrisponda un aumento dell’attività degli osteoblasti, mentre una loro diminuzione conduce all’attivazione degli osteoclasti, aumentando il riassorbimento osseo.

Le terapie ad oggi efficaci nel trattamento del carcinoma mammario prevedono la somministrazione di farmaci che diminuiscono le concentrazioni ematiche degli estrogeni, esponendo il paziente alla possibile insorgenza dell’osteoporosi nel caso in cui non siano adeguatamente seguiti. Tra le diverse classi di farmaci utilizzati troviamo il Tamoxifene, appartenente alla classe dei modulatori selettivi del recettore per l’estrogeno (selective estrogen receptor modulators, SERM) il quale sembrerebbe aiutare a contrastare il riassorbimento osseo provocato dalla menopausa.

Agiscono invece in maniera diametralmente opposta tutte le altre categorie di trattamenti, quali ad esempio gli inbitori dell’aromatasi (Aromatase Inhibitors, AI), l’insufficienza ovarica indotta da chemioterapia (chemotherapy-induced ovarian failure, CIOF) e l’uso di ormoni che rilasciano gonadotropine (gonadotropin-releasing hormone, GnRH). In tutte queste si assiste ad una riduzione della massa ossea, particolarmente accentuata nel caso della CIOF o dei GnRH dove, da soli, portano alla diminuzione rispettivamente del 7% e del 7.7% nelle donne in premenopausa.

In particolare, è stato notato come l’uso di GnRH in combinazione con gli AI diminuisca ulteriormente la massa ossea (portando ad una perdita di circa l’11%) e aumenti il rischio di fratture dovute proprio a questa alterazione dell’omeostasi ossea.

 

Il ruolo dello stile di vita nei pazienti oncologici con osteoporosi

Esistono numerosi studi che hanno provato a chiarire come una dieta ricca di calcio e vitamina D possa influire positivamente sullo stato di salute delle ossa di un paziente affetto da osteoporosi. Sebbene ci si interroghi ancora sull’effettivo ruolo protettivo di questi nutrienti nei confronti nei confronti di fratture e indebolimento del tessuto osseo, appare evidente invece che l’assunzione di vitamina D da sola non porti un reale miglioramento delle condizioni dello scheletro.

La situazione cambia nel momento in cui vengono assunti regolarmente quantità aumentate di calcio e vitamina D contemporaneamente. In alcuni studi clinici è stato visto come nelle pazienti oncologiche con diminuita densità ossea (causata dalla somministrazione di AI) l’assunzione di calcio insieme a vitamina D abbia in parte mitigato di questa riduzione. Sebbene non siano stati riscontrati effetti sulla possibilità di prevenire completamente questo evento indotto dalle cure, i principali organi istituzionali (come, ad esempio, la National Osteoporosis Foundation e la National Academy of Sciences) suggeriscono di prescrivere alle donne oltre i 50 anni di età l’assunzione di 1000-1200 mg di calcio (oltre a quanto assunto con la dieta) insieme a 800-1000 UI di vitamina D3 ogni giorno.

L’importanza della scelta della giusta terapia per il paziente oncologico

Da quanto detto, appare chiaro come la scelta del percorso terapeutico per un paziente affetto da carcinoma mammario, momento già di per sé cruciale, debba essere valutato con ancora più attenzione considerando anche le conseguenze che potrebbero ricadere su altri tessuti, come quello osseo.

Per questa ragione le attuali linee guida prevedono, oltre al tipico momento diagnostico rappresentato da uno screening approfondito, anche delle indicazioni per prevenire un possibile danno alla struttura ossea, suggerendo una regolare assunzione di calcio e vitamina D3, oltre che uno stile di vita sano e un’attività fisica quotidiana.

Fonte: Shapiro CL. Osteoporosis: A Long-Term and Late-Effect of Breast Cancer Treatments. Cancers (Basel). 2020 Oct 23;12(11):3094. doi: 10.3390/cancers12113094. PMID: 33114141; PMCID: PMC7690788.

L’epigenetica nel trattamento dell’osteoporosi

L’omeostasi ossea è un fenomeno complesso che si basa sull’equilibrio tra due popolazioni cellulari diverse: gli osteoclasti e gli osteoblasti. L’incremento e la riduzione dell’una o dell’altra popolazione è finemente regolato a livello epigenetico tramite modifiche specifiche dei geni interessati.

In una recente pubblicazione apparsa su Bone, il gruppo di Filomena de Nigris dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli vengono raccolte le più recenti scoperte in questo settore, dalle quali è facile intuire come nel prossimo futuro le terapie per l’osteoporosi potranno basarsi sulla regolazione di questo tanto intricato quanto affascinante fenomeno.

I direttori di orchestra della regolazione del metabolismo osseo

L’analisi dello stato di metilazione ha permesso di identificare 100 geni all’interno dei quali la metilazione delle isole CpG sembra essere correlato all’insorgenza o meno dell’osteoporosi. Tra queste ricordiamo quelli delle fosfoglicoproteine della matrice extracellulare (matrix extracellular phosphoglycoprotein, MEPE), della sclerostina (SOST), del fattore 1 inibente WNT (WNT inhibitory factor 1, WIF1) e di Dickkopf (DDK1).

Inoltre, nei pazienti con osteoporosi, l’ipometilazione del gene di SOST sembrerebbe aumentarne l’espressione, andando a svolgere una funzione inibitoria nei confronti dell’osteogenesi. Anche il fattore di trascrizione RUNX2 ha un’importante funzione regolatoria del tessuto osseo, andando a regolare le cellule mesenchimali staminali dell’osso (bone mesenchymal stem cells, BMSCs) che sono progenitori degli osteoblasti.

L’avvento dei farmaci epigenetici per l’osteoporosi

Esistono diverse molecole che influenzano l’osteogenesi. L’azacitidina (Aza o anche AzadC), ad esempio, è un agente demetilante che influenza l’espressione delle proteine RANKL e di osteoprotegerina (OPG) e favorisce la differenziazione delle cellule staminali del midollo osseo in osteoblasti diminuendo al contempo il riassorbimento osseo.

Anche le sirtuine SIRT1 e SIRT6, appartenenti alla classe delle istone deacetilasi (HDAC), possono aiutare a modificare il metabolismo osseo. Nello specifico, si è visto come agonisti di queste proteine riescano a inibire il riassorbimento osseo deacetilando le proteine della famiglia FoxO, rendendole candidati particolarmente interessanti per il trattamento dei pazienti con osteoporosi che sono stati sottoposti a ovariectomia.

I farmaci attuali e le loro influenze sulle modifiche epigenetiche

Negli studi analizzati dalla review è stato riscontrato come anche le attuali terapie farmacologiche possano influenzare a livello epigenetico i fattori implicati nel metabolismo osseo.

I bisfosfonati, normalmente utilizzati come trattamenti di prima linea, sembrerebbero infatti aumentare i livelli di alcuni miRNA circolanti, come miR-181c-5p e miR-497-5p, che normalmente sono presenti in bassissime concentrazioni nei pazienti osteoporotici.

La stessa cosa accade nei pazienti con osteoporosi in terapia con denosumab, dove si assiste addirittura all’aumento delle concentrazioni di un set di ben 6 miRNA diversi.

Un possibile nuovo strumento diagnostico e terapeutico

Analizzando i dati riportati nella review di de Nigris, appare dunque chiaro che lo sviluppo di farmaci epigenetici (detti anche epi-farmaci), il cui ruolo principale è bersagliare i regolatori epigenetici coinvolti nei processi di osteogenesi, potrebbe portare un reale beneficio ai pazienti con osteoporosi. Ulteriori studi sono senza dubbio necessari, ma tutto fa sperare che le modifiche epigenetiche possano essere prese in esame nella valutazione della strategia farmacologica migliore per il trattamento dei pazienti con grave fragilità ossea.

 

Fonte: de Nigris F, Ruosi C, Colella G, Napoli C. Epigenetic therapies of osteoporosis. Bone. 2021 Jan;142:115680. doi: 10.1016/j.bone.2020.115680. Epub 2020 Oct 6. PMID: 33031975.

Report del convegno di BoneHealth 2021 sull’approccio integrato alla salute dell’osso

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ISCRIVITI AL CONGRESSO 2022

Nella giornata del 6 marzo 2021 ha avuto luogo il primo convegno di MakingLife sull’approccio integrato alla salute dell’osso, nel corso del quale sono state affrontate:

  • problematiche attuali riguardanti la gestione del paziente affetto da fragilità ossea e
  • prospettive future derivanti dall’approccio integrato e multidisciplinare.

Coordinato da Gregorio Guabello, specialista in endocrinologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, che in qualità di responsabile scientifico ha introdotto l’evento, il congresso ha visto l’alternarsi di importanti esponenti delle varie discipline coinvolte nel trattamento delle malattie dell’osso.

In questo modo, nel corso di quattro sessioni è stato possibile tracciare un quadro aggiornato delle potenzialità che derivano dall’approccio integrato a patologie complesse come l’osteoporosi, l’osteonecrosi mascellare farmaco-relata e altre importanti malattie ossee.

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Prima sessione

La prima sessione del convegno è stata moderata da Gregorio Guabello, Sabina Corbetta, responsabile del servizio di endocrinologia e diabetologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, e da Fabio Massimo Ulivieri, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Attori nella regolazione endocrina dell’omeostasi calcio-fosforo

Eller-Vanicher dell’UOC di Endocrinologia della Fondazione IRCCS Ca’ Granda nel corso del suo intervento ha illustrato come le concentrazioni di calcio e di fosforo siano fondamentali nella regolazione del metabolismo osseo. Quando non sono sotto controllo, le fluttuazioni dei valori normali di questi metaboliti porta a condizioni patologiche anche molto severe, motivo per il quale esistono degli appositi sensori che regolano il loro assorbimento e la loro eliminazione.

Mentre nella regolazione del calcio intervengono la vitamina D e il paratormone (PTH), per il fosforo l’attore principale della regolazione risulta essere FGF-23. Questo ormone, prodotto dagli osteoblasti e dagli osteociti, non solo inibisce le concentrazioni di vitamina D ma diminuisce anche l’assorbimento di fosforo a livello intestinale.

Il calcitriolo sembra invece intervenire sia nella regolazione del calcio che in quella del fosforo. Infatti, quando le concentrazioni di queste molecole tendono a diminuire, il calcitriolo aumenta il loro riassorbimento intestinale, aumentandone al contempo le contrazioni ematiche.

Fisiologia dell’osso: modeling e remodeling

Durante il suo contributo, Alessandro Rubinacci del dipartimento di ortopedia del San Raffaele di Milano ha approfondito la funzione del modellamento osseo e del suo rimodellamento (modeling e remodeling). È stato inoltre posto l’accento sulla necessità di differenziare il rimodellamento osseo, processo portato avanti dall’accoppiamento di osteoclasti e osteoblasti, e turnover osseo, che definisce invece la quantità di tessuto osseo rimosso e di nuova formazione.

Molto interessante è stata inoltre la spiegazione del ruolo anabolico che ricoprirebbe l’osteoclasta. In determinate circostanze, questa popolazione cellulare avrebbe la possibilità di stimolare la formazione di un nuovo tessuto osseo. Infine, nuove evidenze scientifiche porterebbero ad ipotizzare un collegamento tra gli osteoclasti e il metabolismo energetico.

Farmaci osteo-metabolitici: anti-riassorbitivi e anabolizzanti

L’intervento di Gherardo Mazziotti del dipartimento di Scienze Biomediche dell’Humanitas ha permesso invece di avere una panoramica sullo stato dell’arte dei farmaci attualmente utilizzati nella pratica clinica per la gestione dei pazienti affetti da osteoporosi, focalizzando l’attenzione su quelli antiriassorbitivi (soprattutto bisfosfonati e denosumab) e anabolici (come, ad esempio, il teriparatide e l’abaloparatide).

La discussione è poi proseguita con un elenco di ottimi spunti di riflessione per identificare il momento migliore per iniziare la terapia farmacologica, analizzando la prevenzione primaria e secondaria, e determinare quale classe di farmaco sia il più adatta a seconda delle condizioni del paziente.

Il ruolo della nutrizione nella prevenzione e terapia dell’osteoporosi post menopausale e senile

Nell’ultimo intervento della prima sessione del convegno, Hellas Cena e Valentina Braschi hanno dato il loro prezioso contributo analizzando il ruolo che la scienza della nutrizione può avere nella gestione del paziente caratterizzato da fragilità ossea.

Tesi principale della loro discussione è stata quella di considerare la valutazione dello stato nutrizionale nel suo insieme, comprendendo un’attenta analisi della storia ponderale, dell’esame antropometrico e della distribuzione adiposa. Tuttavia, l’aspetto fondamentale di questo approccio era la personalizzazione dell’approccio terapeutico, in quanto ogni paziente è sicuramente diverso da un altro per via del suo vissuto e delle sue capacità metaboliche.

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Seconda sessione

La seconda sessione del convegno è stata moderata da Fabrizio Giudici, specialista in Ortopedia e Traumatologia, e da Matteo Longhi, responsabile dell’UO di Reumatologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.

Fratture ossee da fragilità

Nel primo intervento della seconda sessione del congresso, Federico Valli, specialista in Ortopedia e Traumatologia, ha illustrato e approfondito le complicanze dovute alle fratture che coinvolgono il collo del femore (specialmente quelle sottocapitate e pertrocanterica). In questi contesti, l’approccio chirurgico deve necessariamente tenere conto di molte variabili modificabili (come la scelta dell’impianto) e non modificabili (come il tipo di frattura e la qualità dell’osso del paziente).

Altro importate punto dell’intervento è stato quello di porre l’accento sull’approccio multidisciplinare sia nella fase di prevenzione delle fratture che nella loro gestione post-chirurgica, coinvolgendo attori diversi per tutelare la qualità di vita del paziente.

Il punto di vista del bone specialist (fracture liaison services)

La sessione ha poi visto l’utile intervento di Sara Cassibba, specialista ambulatoriale dell’UO di Endocrinologia e Diabetologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo, che ha posto l’accento sulla frattura del femore e su come questa possa incrinare la qualità della vita del paziente, aumentarne la mortalità e la morbilità e, in ultima analisi, gravare pesantemente sul sistema economico sanitario. I pazienti con frattura del femore sono infatti più esposti ad altri tipi di frattura che, nel 70% dei casi, sono localizzate a livello vertebrale.

Sono stati poi analizzati i dati di questa problematica a livello nazionale, i quali confermano che l’incidenza delle fratture è un tema molto importante le cui conseguenze sono spesso sottovalutate. La figura del Fracture Liaison Service nasce proprio per colmare il gap tra l’importanza di questo problema e la sua diagnosi, cercando di sfruttare le competenze di un team multidisciplinare per prevenire l’insorgenza di fratture secondarie.

Le fratture vertebrali, il punto di vista dell’ortopedico

Grazie all’intervento di Pedro Berjano, direttore della divisione chirurgia vertebrale GSpine endocrinologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, è stato possibile approfondire il tema delle fratture vertebrali in pazienti affetti da fragilità ossea. Il sospetto della presenza di questo tipo di fratture dovrebbe nasce nel momento in cui è presente un dolore persistente, specialmente nei pazienti anziani.

Una volta diagnosticata la frattura mediante raggi X o risonanza magnetica, il trattamento dovrebbe prevedere l’utilizzo di analgesici per 2 o 6 settimane (per contenere il dolore percepito) insieme all’uso di un busto per limitare la deformità residuale.

Il punto di vista del Bone Specialist

Con Alessandro Rossini, dirigente medico dell’UO di Endocrinologia e Diabetologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo, si è potuto appurare come il problema delle fratture vertebrali sia non solo molto complesso ma anche molto pesante per il sistema sanitario nazionale, determinando anche una significativa riduzione della qualità della vita del paziente che ne è affetto.

Inoltre, le fratture portano con sé un aumento del rischio di nuove fratture nel periodo temporale subito successivo al primo evento (a un anno dalla frattura il rischio di un secondo evento è molto elevato), cosa che fortunatamente diminuisce con il passare del tempo. Cosa ancora più importante, molto spesso le fratture non vengono gestite nel modo corretto, sia al momento della diagnosi che nel corso del loro trattamento.

Capture the fracture, come ha illustrato Rossini, è un progetto che permette di correlare con successo le fratture vertebrali con quelle femorali. In questo contesto il ruolo del fracture liaison service è fondamentale, ma lo è anche quello del chirurgo ortopedico e del medico di medicina generale, in quanto hanno il compito di segnalare i pazienti a rischio.

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Terza sessione

La terza sessione del convegno ha visto come moderatori Monica Giordano, direttore dell’UOC di Oncologia dell’Ospedale Sant’Anna ASST Lariana di Como, e  Matteo Longhi, responsabile dell’UO di Reumatologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.

Osteoporosi nelle malattie reumatiche

L’importate contributo di Laura Rotunno, dell’UO di Reumatologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, ha permesso di focalizzare l’attenzione dell’evento sulle cause dell’osteoporosi dovuta a malattie reumatiche e all’utilizzo di glucocorticoidi. Questa classe di farmaci, infatti, influenza la massa ossea e ne riduce la consistenza, portando soprattutto nel primo anno di trattamento ad un rischio molto alto di fratture vertebrali.

Relativamente alle malattie reumatiche, si è visto come nei pazienti con artrite reumatoide l’osteoporosi abbia una prevalenza che arriva fino al 50% dei casi e che il rischio sembra essere correlato al grado di severità della malattia. Il nodo che unisce queste due patologie sembrerebbe essere dovuto all’azione delle citochine proinfiammatorie (TNF-α, IL-1 e IL-6) e gli anticorpi anti-citrullina (ACPA) che stimolano l’azione degli osteoclasti.

Sebbene l’uso di glucocorticoidi, attualmente in uso per il trattamento di questa patologia, possa favorire l’insorgenza dell’osteoporosi, diversi recenti studi suggerisco che un loro basso dosaggio abbia invece opposto, proteggendo il paziente dall’aumento della fragilità ossea. Situazione simile si è vista anche con il trattamento tramite altri farmaci anti-reumatoidi (DMARDs), sia convenzionali (ad esempio il metotrexato) che biologici (anticorpi monoclonali come il rituximab).

Anche nella spondilite anchilosante, prosegue Rotunno, si assiste ad una diminuzione della massa minerale ossea (BMD) la quale, se non trattata adeguatamente, porta a edema del midollo osseo (bone marrow edema, BME) con perdite di massa ossea altamente localizzate. In questi casi, l’utilizzo di neridronato e di anticorpi anti-TNF sembra possa riequilibrare l’omeostasi dell’osso, portando ad un aumento della BMD.

Nel lupus erimatoso sistemico, la marcata infiammazione tipica di questa malattia contribuisce ad aumentare la popolazione degli osteoclasti, peggiorando la BMD. È importate osservare che a questo tipo di pazienti viene spesso consigliato di non esporsi alla luce solare, provocando un abbassamento delle concentrazioni di vitamina D e compromettendo ulteriormente l’omeostasi ossea.

Osteoporosi nella malattia diabetica

L’osso è senza dubbio uno tra degli organi più colpiti dalla malattia del diabete, sia esso di tipo 1 o 2, andando ad aumentare enormemente il rischio di morte dopo una frattura dell’anca.

Come argomentato da Maurizio Rondinelli dell’Unità di Diabetologia, Endocrinologia e Malattie Metaboliche del Centro Cardiologico di Monzino di Milano, recentemente si è visto che pazienti obesi non diabetici hanno un certo grado di rischio di incorrere in fratture che non coinvolgono l’anca o le vertebre. Al contrario, pazienti non obesi ma affetti da diabete presentano un rischio molto alto di subire una frattura vertebrale o dell’anca.

Relativamente alle fratture, esistono diversi fattori di rischio che vanno valutati nel paziente diabetico. Tra questi ritroviamo il BMD, l’uso prolungato di più farmaci contemporaneamente e la durata nel quale la malattia permane senza adeguato trattamento terapeutico e il mancato controllo della concentrazione glicemica.

Una volta valutato il rischio di frattura ed effettuato uno screening mediante metodiche accreditate (come la DXA o la FRAX) la scelta del percorso terapeutico farmacologico dovrebbe ricadere sulla prescrizione di farmaci anti-riassorbitivi come l’alendronato o il denosumab, i quali hanno dimostrato recentemente di essere particolarmente efficaci in questo tipo di pazienti.

Osteoporosi nel paziente oncologico

Nel corso del convegno ha quindi preso la parola il responsabile scientifico Gregorio Guabello, che ha illustrato innanzitutto come la problematica del paziente oncologico non metastatico e affetto da osteoporosi sia molto sentita, essendo citato anche nelle linee guida ASCO 2019.

In questo documento, infatti, si raccomanda di effettuare screening accurati per questa categoria di pazienti mediante valutazione della BMD e cercare, dove possibile, di ottimizzare il quadro clinico del paziente con trattamenti non farmacologici (ad esempio, l’integrazione di calcio mediante assunzione con la dieta). Quando il trattamento farmacologico è inevitabile, si suggerisce di utilizzare bisfosfonati o denosumab.

La chemioterapia ha infatti un impatto molto pesante sull’organismo, specialmente sul metabolismo osseo (il metotrexato, ad esempio, è tossico per i precursori degli osteoblasti) e spesso la chemioterapia porta ad una diminuzione complessiva degli osteoblasti in favore degli osteoclasti.

Nella scelta della strategia di prevenzione o di adeguato trattamento terapeutico arrivano in aiuto le linee guida AIOM del 2019, nelle quali viene definita la soglia terapeutica e la prevenzione delle metastasi ossee.

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Quarta sessione

L’ultima sessione del convegno ha avuto come moderatori Antonio Carassi, direttore SC Odontostomatologia II dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano e Tiziano Testori, responsabile del reparto di Implantologia e Riabilitazione Orale della Clinica Odontoiatrica dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.

Gestione clinica e trattamento dell’osteonecrosi dei mascellari farmaco-relata

Nel corso del primo intervento dell’ultima sessione dell’evento, Francesco Grecchi, responsabile dell’UO di Chirurgia Maxillofacciale dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, ha permesso di approfondire il tema dell’osteonecrosi mascellare correlata all’uso dei bisfosfonati (biphosphonate related osteonecrosis of the jaw, BRONJ), analizzando le motivazioni alla base della particolare localizzazione di queste lesioni e la stadiazione che scandisce la sua progressione.

La presentazione ha incluso un’analisi delle procedure diagnostiche per identificare la patologia, tra le quali ricordiamo la TC senza mezzo di contrasto, la RMN dell’osso e la scintigrafia ossea, oltre alle tecniche di laboratorio volte a ricercare la presenza del telopeptide c-terminale e ovviamente a un’anamnesi attenta e approfondita.

Relativamente alla terapia da seguire, Grecchi ha spiegato che è sempre preferibile un approccio di tipo conservativo, caratterizzato dall’utilizzo di antibiotici, ozonoterapia locale, teriparatide e fattori rigenerativi. Tali trattamenti, infatti, risultano essere fondamentali per prevenire il progredire della malattia che altrimenti risulterebbe estremamente più difficile da risolvere (anche con interventi chirurgici molto più invasivi).

Gestione clinica della terapia anti-riassorbitiva: il punto di vista del Bone Specialist

Durante l’ultimo intervento della sessione, condotto da Francesco Bertoldo, responsabile U.S. delle Malattie del Metabolismo e Osteoncologia del Dipartimento di Medicina del Policlinico G.B. Rossi di Verona, sono state approfondite le dinamiche che portano alla formazione e all’aggravamento dell’osteonecrosi mascellare, suggerendo che esistano anche cause diverse dall’utilizzo dei bisfosfonati, come ad esempio la terapia con bevacizumab e sunitinib.

L’intervento è poi continuato definendo quelle che sono le raccomandazioni per gli specialisti quando hanno in cura un paziente con rischio di sviluppare osteonecrosi mascellare dovuta a farmaci, suddividendoli in due categorie di rischio e sottoponendoli a profilassi antibiotica in caso di interventi invasivi.

Per la gestione del rischio di frattura del paziente con osteoporosi e con osteonecrosi mascellare, è emerso che il trattamento con teriparatide potrebbe essere utile nel riparo delle lesioni provocate dalla malattia, come anche la successiva somministrazione di denosumab e dei bisfosfonati.

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Report realizzato grazie al sostegno non condizionante di:

Vitamine K2 e D3, la coppia perfetta per la salute delle ossa

Gli integratori alimentari per la salute delle ossa sono costituiti principalmente da calcio e vitamina D.

Il calcio è essenziale per la mineralizzazione delle ossa, viene assorbito attraverso la dieta grazie all’intervento della vitamina D. Ciò stimola anche la produzione di osteocalcina e mgp, proteine con il compito di legare il calcio e trasportarlo nelle ossa. La vitamina K2 nella sua forma menachinone 7 è fondamentale per bilanciare il calcio.

Insieme, vitamina D e vitamina K2 formano una combinazione sinergica e vincente: la coppia perfetta.