martedì, Agosto 5, 2025
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La qualità della vita dopo le fratture alla cintura pelvica

Le fratture possono limitare l’indipendenza e il benessere psicologico di chi ne è colpito, anche molto significativamente. Queste conseguenze sono più studiate per quanto riguarda alcuni tipi di fratture, come quelle al femore e all’anca; altre, invece, sono poco conosciute, come quelle all’anello pelvico. Lo studio di Juliana Hack e colleghi, pubblicato su Osteoporosis International, ha indagato quanto la qualità di vita dei pazienti sia peggiorata dalle fratture della cintura pelvica.

La ricerca: scopo e metodi

Negli ultimi decenni stiamo assistendo a un aumento dell’età media della popolazione e a un cambiamento demografico. Per queste ragioni, i disturbi ossei legati all’invecchiamento stanno crescendo e sono sempre più studiati. Tra questi vi sono le fratture, che si presentano con l’avanzare dell’età a causa di vari fattori tra cui l’osteoporosi.

Le fratture della cintura pelvica sono tra le meno indagate. In particolare, sono poco studiati gli esiti dei trattamenti per quanto riguarda il benessere della persona. Juliana Hack e i suoi colleghi hanno indagato la percezione della propria qualità di vita nei pazienti post-fratture alla cintura pelvica e i fattori sottostanti.

A tale scopo, i ricercatori hanno reclutato 134 pazienti dall’ospedale universitario Giessen e Marburg GmbH tra il primo giugno 2012 e il 31 dicembre 2016. Sono stati esclusi i pazienti con fratture acetabolari isolate, traumi ad alta energia e fratture derivanti da cancro.

I pazienti, con età uguale o superiore a 60 anni (mediamente, 80) e trattati sia conservativamente sia chirurgicamente, sono stati esaminati prima della frattura (in modo retrospettivo) e poi a 6 settimane, 6 mesi e 12 mesi di distanza. Tra i fattori considerati:

  • attività quotidiane compiute in autonomia (o ADL, Activities of Daily Living), valutate mediante Barthel Index e scala IADL (Lawton Instrumental Activities of Daily Living);
  • stato di salute percepito dal paziente (tramite questionario EQ-5D).

Insieme all’analisi statistica, gli studiosi hanno estrapolato i fattori associabili a migliori o peggiori esiti delle fratture.

Qualità della vita e fratture alla cintura pelvica

I risultati della ricerca di Hack e colleghi mostrano che la maggior parte del recupero dei pazienti è avvenuto entro i 6 mesi dalla frattura all’anello pelvico. Anche il miglioramento della qualità della vita dopo la frattura è risultato concentrato in questo arco temporale. Tuttavia, non è risultato molto elevato: secondo le analisi, la frattura della cintura pelvica conduce a un deterioramento rilevante e duraturo dell’autonomia di chi ne è colpito.

A influire sull’esito risultano essere fattori quali:

  • livelli di assistenza da parte di operatori sanitari prima della frattura;
  • stato fisico, mobilità e attività antecedenti la frattura;
  • sesso del paziente.

Infatti, alti livelli di assistenza, peggiore stato fisico, mobilità limitata e sesso maschile risultano peggiorare la qualità della vita post-frattura. Queste indicazioni possono essere utili allo scopo di prevenire fratture dell’anello pelvico.

Lo studio presenta diversi limiti, tra cui una parziale disomogeneità e il ristretto numero di pazienti (solo 89 di essi hanno raggiunto la fase finale dello studio). Tuttavia, mostra risultati interessanti, che forniscono indicazioni su provvedimenti da mettere in atto in ambito clinico e su aspetti da approfondire con ulteriori ricerche.

 

Fonte:

Hack J, Buecking B, Strauch L, Lenz J, Knauf T, Ruchholtz S, Oberkircher L. Self-rated health status and activities of daily living in the first 12 months after fragility fractures of the pelvis-a prospective study on 134 patients. Osteoporos Int. 2021 Aug 31. doi: 10.1007/s00198-021-06104-0. Epub ahead of print. PMID: 34463843.

 

Il diabete aumenta il rischio di fratture ossee in pazienti sotto terapie sostitutive per patologie renali

Secondo uno studio danese pubblicato nell’agosto del 2021, il diabete aumenta il rischio di fratture ossee nei pazienti con insufficienza renale in fase terminale, in particolare in coloro che sono sotto terapie sostitutive per patologie renali (kidney replacement therapy, KRT).

Diabete, fratture ossee e insufficienza renale

Il diabete di tipo 1 e, in minore misura, il diabete di tipo 2 sono associati a un aumento nel rischio di fratture, probabilmente perché comportano indirettamente un’alterazione nel metabolismo del calcio e del rimodellamento osseo. Questo rischio risulta ancora maggiore in caso di comorbidità con problemi ai reni, dove infatti sono spesso riscontrati valori di BMD (Bone Mineral Density) inferiori al normale. Probabilmente ciò si deve al ruolo dei reni nel metabolismo osseo, di vitamina D, ormoni paratiroidei, calcio e fosfato: problemi renali comportano disturbi nella regolazione di tutti questi meccanismi fisiologici.

Lo studio

Nella popolazione danese, il diabete è presente in circa il 20% delle persone con insufficienza renale terminale. Dal momento che sia le persone con insufficienza renale sia coloro che sono colpite da diabete risultano essere a rischio di sviluppare fratture, un gruppo di ricerca danese guidato dalla nefrologa Ditte Hansen ha indagato sulla possibilità che la presenza di diabete in persone sotto KRT (dialisi e trapianto di reni) aggravi il rischio di fratture.

A questo scopo, i ricercatori hanno esaminato registri nazionali includendo i dati tra il primo gennaio del 2000 e il 31 dicembre 2011. Nello studio sono stati considerati coloro che erano sotto emodialisi o dialisi peritoneale e che avevano ricevuto un trapianto di reni. Coloro che non erano sotto KRT sono stati considerati come gruppo di riferimento. Entrambe le categorie sono poi state divise in base alla presenza di diabete. La popolazione considerata, che includeva 4.083.138 pazienti, è quindi risultata suddivisa in 4 gruppi:

  • pazienti sotto KRT senza diabete;
  • pazienti sotto KRT con diabete;
  • pazienti non sotto KRT senza diabete;
  • pazienti non sotto KRT con diabete.

Quindi, i pazienti sono stati seguiti fino a che non hanno presentato fratture oppure fino al 31 dicembre 2016 (salvo interruzioni per altre cause).

Gli hazard ratio risultati dalla comparazione tra persone con diabete e persone senza diabete sono stati i seguenti (con intervallo di confidenza del 95%):

  • 1,2 (1,0-1,3) nella popolazione sotto emodialisi;
  • 1,4 (1,1-1,7) nella popolazione sotto dialisi peritoneale;
  • 1,7 (1,4-2,2) nella popolazione che aveva ricevuto subito di reni.

Gli aggiustamenti per età, sesso, comorbidità, precedenti di fratture e trattamenti non ha cambiato in modo significativo il risultato.

Il diabete aggrava il rischio di fratture nei pazienti sotto dialisi e trapianto di reni

Dallo studio di Hauge, Abrahamsen e colleghi risulta quindi che la presenza di diabete sembra aumentare il rischio di fratture nelle persone con insufficienza renale terminale sotto KRT, e in particolare in coloro sotto emodialisi, dialisi peritoneale o con reni trapiantati. Questi dati sono da approfondire, dal momento che il tema non è molto studiato, ma potrebbero dare importanti indicazioni su prevenzione e precauzioni da considerare nei pazienti con diabete e insufficienza renale.

 

Fonti

Hauge SC, Abrahamsen B, Gislason G, Olesen JB, Hommel K, Hansen D. Diabetes increases the risk of bone fractures in patients on kidney replacement therapy: A DANISH national cohort study. Bone. 2021 Aug 27:116158. doi: 10.1016/j.bone.2021.116158. Epub ahead of print. PMID: 34461286.

Vestergaard P, Rejnmark L, Mosekilde L. Diabetes and Its Complications and Their Relationship with Risk of Fractures in Type 1 and 2 Diabetes. Calcified Tissue International. 2008 Dec 84(1), 45–55. doi:10.1007/s00223-008-9195-5.

Il neridronato intramuscolo per il trattamento domiciliare della CRPS-1

Il neridronato per via endovenosa è l’unica terapia approvata in Italia per il trattamento della sindrome dolorosa regionale complessa di tipo 1 (CRPS-1), anche conosciuta come algodistrofia, ma presenta dei limiti che potrebbero essere superati se si somministrasse per via intramuscolare. Infatti, il Sistema Sanitario Nazionale prevede che la terapia endovenosa sia eseguita negli ospedali, ma senza ospedalizzazione, con conseguenze problematiche per i pazienti fortemente debilitati. Al contrario, i farmaci usati per via intramuscolare possono essere impiegati a casa, autonomamente.

Massimo Varenna, Vania Braga e colleghi hanno indagato quindi l’efficacia del neridronato per via intramuscolare in uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo. I risultati ottenuti sono positivi e clinicamente rilevanti, anche se da approfondire con ulteriori ricerche.

Trattamento con neridronato per la CRPS-1

La CRPS-1 è una condizione dolorosa che in genere fa seguito a  una lesione a un osso (più frequentemente traumi o fratture). Tra i sintomi, oltre al dolore prolungato di entità superiore rispetto a quello che dovrebbe causare la lesione, comporta anche sudorazione, anomalie vasomotorie, debolezza, distonia, problemi di sensibilità, retrazioni articolari e disturbi a livello della cute.

Il meccanismo patogenico della malattia non è ancora del tutto noto, per cui i trattamenti disponibili spesso sono poco soddisfacenti. I bisfosfonati, come il neridronato (usato anche nell’osteogenesi imperfetta e nella malattia di Paget), si sono dimostrati tra i farmaci più efficaci per la terapia del CRPS-1, poiché hanno dato effetti positivi su funzionalità, controllo del dolore e delle infiammazioni locali. Il neridronato per via intravenosa è l’unico trattamento per il CRPS-1, approvato in Italia sin dal 2014; tuttavia può essere impiegato soltanto in regime ospedaliero. Dal momento che, nelle altre patologie per le quali ha l’indicazione, è stata dimostrata l’efficacia del neridronato somministrato anche per via intramuscolare, il gruppo di ricerca italiano guidato da Massimo Varenna ha verificato l’efficacia di neridronato intramuscolo per la terapia della CRPS-1.

La ricerca

Lo studio ha incluso 78 adulti con CRPS-1 malati da non più di 4 mesi, reclutati tramite 10 centri reumatologici italiani. I criteri di selezione per i soggetti ricalcavano quelli dello studio Varenna e colleghi del 2013, che valutava l’efficacia del neridronato per via intravenosa:

  • i pazienti rientravano nei cosidetti criteri di Budapest – i criteri diagnostici IASP (International Association for the Study of Pain) e la scintigrafia ossea era positiva;
  • non presentavano danni ai nervi, che avrebbero suggerito la presenza di CRPS-2;
  • non avevano problemi renali;
  • non avevano assunto bisfosfonati precedentemente;
  • l’intensità del dolore percepito nell’arto colpito era di almeno 50 mm (su un massimo di 100) nella scala visuo-analogica del dolore (Visual Analogue Scale, VAS);
  • è stata richiesta la sospensione di terapie (quali analgesici, anticonvulsivanti, antidepressivi e altre terapie non farmacologiche prescritte per il CRPS-1) entro i 5 giorni antecedenti l’inizio della somministrazione di neridronato. Sono state fornite compresse da 500 mg di acetaminofene (paracetamolo) come farmaco di salvataggio.

La terapia prevedeva l’iniezione intramuscolo di fiale da 2 ml di neridronato (25 mg), mentre il placebo consisteva in soluzione salina (0,9% di soluzione di cloruro di sodio). L’iniezione veniva eseguita dai pazienti, dietro consiglio di operatori sanitari, nel muscolo ventrogluteale dell’anca. Andava eseguita per 16 giorni consecutivi, preferibilmente alla stessa ora ogni giorno: il dosaggio finale era di 400 mg di neridronato, pari a quanto somministrato per via endovenosa.

Lo studio, durato dall’aprile del 2015 all’aprile del 2019, era randomizzato e in doppio cieco. Il gruppo di ricerca ha valutato dolore, presenza di sintomi clinici e qualità della vita dei pazienti nel giorno della prima iniezione, al giorno 8, al giorno 16 e a un mese dall’inizio del trattamento.

Il neridronato per via intramuscolare nel trattamento del CRPS-1

Dalla ricerca di Varenna e colleghi risulta che il neridronato dà effetti positivi clinicamente significativi nei pazienti con CRSP-1 anche se iniettato per via intramuscolare. I risultati, infatti, sono paragonabili a quelli ottenuti con la terapia iniettata endovena studiata precedentemente (400 mg per 10 giorni).

  • Il punteggio VAS è diminuito gradualmente nell’arco dei 30 giorni, dimezzandosi significativamente nel 65,9% dei pazienti sottoposti a neridronato (contro il 29.7%% tra le persone trattate con placebo).
  • La diminuzione di allodinia, iperalgesia, edema e dolore al movimento passivo è risultata significativamente superiore nei pazienti sotto neridronato.
  • I punteggi nel McGill Pain Questionnaire e del Short-Form Health Survey (per la valutazione della qualità di vita dei pazienti) sono migliorati maggiormente nelle persone sotto terapia, anche se in modo non statisticamente significativo per quanto riguardava le componenti affettive del dolore.
  • Nessun paziente ha riportato eventi avversi gravi.

Va sottolineato che l’efficacia del farmaco è legata alla durata della malattia: il trattamento deve essere impostato precocemente quando la risposta del paziente è elevata. In ogni caso, questo studio mostra l’efficacia del neridronato come terapia del CRPS-1 a prescindere dalla modalità di somministrazione e apre la strada a una nuova possibile modalità di trattamento che potrebbe essere eseguita presso il domicilio del paziente, alleviandone i problemi legati agli spostamenti e permettendogli una rapida riabilitazione.

Fonti:

Varenna M, Braga V, Gatti D, Iolascon G, Frediani B, Zucchi F, Crotti C, Nannipieri F, Rossini M. Intramuscular neridronate for the treatment of complex regional pain syndrome type 1: a randomized, double-blind, placebo-controlled study. Therapeutic Advances in Musculoskeletal Disease. 2021 Jun;13:1–12. DOI: 10.1177/1759720X211014020

Pendón G, Salas A, García M, Pereira D. Complex Regional Pain Syndrome Type 1: Analysis of 108 Patients. Reumatología Clínica (Eng Ed) 2016 Mar;13(2), 73–77. doi:10.1016/j.reumae.2016.03.010

 

Osteoporosi da morbo di Crohn: prevenirla con un programma di esercizio fisico

Il morbo di Crohn può comportare osteoporosi e, conseguentemente, maggiore incidenza di fratture ossee. È noto che gli esercizi fisici di impatto e resistenza aiutano a prevenire l’osteoporosi da malattia di Crohn. Tuttavia, non esiste molta letteratura in merito e le raccomandazioni si basano principalmente sulla popolazione generale, i cui dati potrebbero non essere generalizzabili alle persone con morbo di Crohn. Il gruppo di ricerca di Katherine Jones ha, quindi, condotto uno studio controllato randomizzato, denominato PROTECT (PROgressive resistance Training Exercise and Crohn’s disease Trial), per valutare l’efficacia di un programma di allenamento della durata di 6 mesi. Combinando esercizi di resistenza e di impatto, questo programma ha portato a un miglioramento nella densità minerale ossea (BMD) nella spina lombare dei pazienti.

Morbo di Crohn, osteoporosi ed esercizio fisico

Studi osservazionali e studi controllati randomizzati mostrano che l’attività fisica ha effetti benefici sulla massa ossea a tutte le età. Infatti, la forza esercitata dai muscoli sullo scheletro assiale stimola la formazione ossea. In particolare, risultano ottimali combinazioni di esercizi di impatto, come corsa e salto, e di resistenza, come le flessioni. Nel luglio del 2020, su Alimentary Pharmacology & Therapeutics, è stata pubblicata la prima ricerca che valuta l’efficacia di un trattamento che combina entrambe le forme di esercizio fisico sull’osteoporosi derivante da morbo di Crohn.

La malattia di Crohn, infatti, può comportare indebolimento osseo a causa di fattori quali:

Lo studio

Lo studio PROTECT di Katherine Jones e colleghi ha indagato l’effetto sulla BMD e sulla funzionalità muscolare di un programma di esercizio fisico in persone con morbo di Crohn. I pazienti, maggiori di sedici anni d’età, sono stati divisi in due gruppi:

  • 23 pazienti che seguivano il programma di allenamento oltre a essere sottoposti alle cure per la malattia di Crohn;
  • 24 pazienti sottoposti solo al trattamento per il morbo di Crohn.

Il programma di allenamento, della durata di 6 mesi, consisteva in sessioni di un’ora, 3 volte a settimana, in giorni non consecutivi, per un totale di 78 sessioni. Dodici sessioni erano supervisionate, inoltre i partecipanti ricevevano telefonate di supporto ogni mese.

Ogni sessione era suddivisa in tre parti:

  • i primi 5 minuti erano dedicati al riscaldamento, in cui i pazienti eseguivano esercizi quali camminamento sul posto, punch, squat e di stretching dinamico.
  • Per circa 50 minuti, i pazienti alternavano esercizi di impatto (salto della corda per almeno 5 minuti, 2-3 set di ripetizioni di salti quali scissor jump, squat jump, salti in lungo) ed esercizi di resistenza (2-3 set di 10-15 ripetizioni di esercizi come flessioni, squat, affondi, ponti, reverse fly, estensione dei tricipiti, sollevamenti laterali). Gli esercizi di resistenza erano eseguiti a corpo libero o con bande elastiche TheraBand® e la loro intensità era da moderata a forte, valutata secondo la Resistance Intensity Scale for Exercise.
  • Nella fase di defaticamento, della durata di circa 5 minuti, i pazienti eseguivano esercizi di stretching per i principali gruppi muscolari.

Il giorno prima dell’inizio del programma e poi a distanza di 3 e 6 mesi di tempo, i ricercatori misuravano la BMD (tramite assorbimetria a raggi X a doppia energia) e la funzionalità muscolare (valutata tramite forza e resistenza muscolare degli arti).

Esercizi di resistenza e impatto: i benefici sulle ossa nei pazienti con morbo di Crohn

Dallo studio risulta che, a 6 mesi di distanza dall’inizio dell’allenamento, i pazienti che avevano praticato l’attività fisica indicata presentavano un valore di BMD significativamente superiore a livello della spina lombare, con un effetto medio pari al 3,8%. Non si sono riscontrate differenze rilevanti a livello di grande trocantere o collo del femore, in cui il miglioramento medio era del 2,3%. Tali risultati sono comunque importanti, perché sono associati a una riduzione del 28% del rischio di frattura vertebrale e al 15-22% di riduzione del rischio di frattura dell’anca. Naturalmente, affinché l’effetto positivo sulle ossa sia duraturo occorre continuare il programma.

Occorre osservare che la BMD è responsabile di circa il 65% della resistenza meccanica dell’osso: tenere in considerazione altri parametri come la microarchitettura ossea potrebbe evidenziare ulteriori vantaggi della terapia.

Emergono inoltre altri effetti positivi, poiché gli esercizi sembrano implementare la funzionalità muscolare e diminuire l’affaticamento dei pazienti con morbo di Crohn. Tuttavia, occorrono ulteriori indagini in merito.

Fonte: Jones K, Baker K, Speight RA, Thompson NP, Tew GA. Randomised clinical trial: combined impact and resistance training in adults with stable Crohn’s disease. Aliment Pharmacol Ther. 2020 Sep;52(6):964-975. doi: 10.1111/apt.16002. Epub 2020 Jul 30. PMID: 331

L’icosapent etile mantiene la salute delle ossa in persone con sindrome metabolica?

L’icosapent etile è impiegato nel trattamento di malattie cardiovascolari e ha mostrato effetti positivi anche nei pazienti con sindrome metabolica. Un gruppo di ricerca guidato da Miller ha verificato se questo prodotto abbia effetti positivi anche sulla salute dell’osso, dal momento che la sindrome metabolica può comportare osteoporosi. Lo studio pilota ha dato risultati promettenti: i pazienti che hanno assunto icosapent etile hanno mostrato una minore riduzione di densità minerale ossea rispetto ai pazienti che assumevano placebo.

Sindrome metabolica e ossa

La sindrome metabolica, o sindrome da insulino-resistenza, colpisce circa una persona su quattro. La presenza di questo disturbo è definita quando coesistono almeno tre tra questi fattori:

Oltre a predisporre a gravi problemi cardiovascolari, la sindrome metabolica è associata a una diminuzione di grasso ginoide (l’accumulo di adipe sottocutaneo a livello di glutei, cosce e parte bassa dell’addome) e a una minore salute ossea. I pazienti con sindrome metabolica, infatti, presentano ridotta densità minerale ossea (Bone Mineral Density, BMD) e maggiore incidenza di fratture osteoporotiche.

Icosapent etile e salute delle ossa

L’icosapent etile (prodotto puro a base di grassi di omega-3, principalmente acido eicosapentaenoico) ha proprietà anti-aterogene, anti-ossidanti e anti-infiammatorie. Per queste ragioni è impiegato nel trattamento di malattie cardiovascolari, con risultati significativi anche nei pazienti ad alto rischio. Miller e il suo gruppo hanno quindi indagato l’effetto preventivo dell’icosapent etile in pazienti con sindrome metabolica, concentrandosi su due fattori correlati alla malattia: la presenza di grasso ginoide e la salute delle ossa.

I ricercatori hanno studiato 13 pazienti tra i 44 e i 77 anni, 10 donne e 3 uomini, con sindrome metabolica. Ai partecipanti è stato richiesto di mantenere per tutto il periodo dello studio, della durata di 9 mesi, il peso corporeo e le terapie in corso per sindrome metabolica. Sono stati suddivisi in modo casuale:

  • 8 pazienti hanno ricevuto la terapia (4 g di icosapent etile, in due capsule da 2 g assunte con il cibo);
  • a 5 pazienti è andato il placebo (4 g di olio di paraffina assunti in due capsule di 2 g con il cibo).

I ricercatori hanno considerato numerosi parametri prima dell’inizio e alla fine dello studio, incluse misure antropometriche, analisi biochimiche e massa grassa. Relativamente alla salute dell’osso, il gruppo di ricerca ha considerato la BMD e la BMC (Bone Mineral Content), misurate tramite assorbimetria a raggi X a doppia energia).

Conclusioni

I partecipanti che hanno ricevuto l’icosapent etile hanno mostrato diminuzioni in grasso ginoide, BMD e BMC significativamente inferiori rispetto a coloro che hanno assunto il placebo. Dalla ricerca pilota di Miller e il suo gruppo, quindi, risulta che l’assunzione di icosapent etile potrebbe aiutare a mantenere la densità minerale ossea e la distribuzione di grasso ginoide nelle persone con sindrome metabolica. Per verificare l’efficacia del trattamento sono, però, necessari ulteriori studi, longitudinali e con campioni più grandi di pazienti.

Fonti:

Miller, M., Ryan, A., Reed, R. M., Goggins, C., Sorkin, J., & Goldberg, A. P. (2020). Effect of Icosapent Ethyl on Gynoid Fat and Bone Mineral Health in the Metabolic Syndrome: a Preliminary Report. Clinical Therapeutics. DOI: 10.1016/j.clinthera.2020.09.0

Von Muhlen, D., Safii, S., Jassal, S. K., Svartberg, J., & Barrett-Connor, E. (2007). Associations between the metabolic syndrome and bone health in older men and women: the Rancho Bernardo Study. Osteoporosis International, 18(10), 1337–1344. DOI: 10.1007/s00198-007-0385-1

Nedungadi, T. P., & Clegg, D. J. (2009). Sexual Dimorphism in Body Fat Distribution and Risk for Cardiovascular Diseases. Journal of Cardiovascular Translational Research, 2(3), 321–327. DOI: 10.1007/s12265-009-9101-1

Covid-19, ossa sotto attacco

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Non si contano più gli organi e tessuti che hanno mostrato il fianco al virus SARS-CoV-2 con conseguenze anche a lungo termine. Tra questi anche le ossa, al centro di una sessione del Congresso CUEM 2021, tenutosi i primi di luglio.

Fratture vertebrali hanno impatto clinico sull’infezione

Il danno osseo è testimoniato dallo studio italiano retrospettivo apparso su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism (1) che ha messo in relazione la prevalenza di fratture vertebrali (VF) e impatto clinico del virus. Nel trial sono stati inclusi 114 pazienti sottoposti a radiografia laterale del torace all’accesso al pronto soccorso. Sono state individuate VF nel 36% dei pazienti studiati (n. 41), soggetti più frequentemente affetti da ipertensione e malattia coronarica. Le condizioni dell’88% dei pazienti con fratture ha richiesto il ricovero ospedaliero rispetto al 14% di quelli senza danni ossei anche nei decessi che hanno colpito il 22% dei soggetti con fratture rispetto al 10% di quelli senza con una mortalità più elevata nei soggetti con danni vertebrali più gravi, rispetto a quelli le cui fratture erano moderate o lievi.

Secondo Andrea Giustina, Co-Presidente del CUEM e Professor of Endocrinology Head, Institute of Endocrine and Metabolic Sciences San Raffaele Vita-Salute University and IRCCS Hospital:

Le fratture vertebrali si sono rivelate un marker semplice di fragilità e data la loro elevatissima prevalenza e il loro potere predittivo di un esito peggiore, potrebbero essere a pieno titolo inserite tra le comorbidità già noti per avere un impatto negativo sulla prognosi quali ipertensione, diabete e obesità

Fragilità delle ossa nei pazienti Covid-19

I pazienti Covid-19 ospedalizzati hanno mostrato una particolare predisposizione alla fragilità ossea con alto rischio di fratture. I fattori alla base di questa osservazione potrebbero essere molteplici tra cui gli alti livelli di citochine pro-infiammatorie, bassi livelli di calcio, età avanzata, comorbilità concomitanti come il diabete mellito e i trattamenti con glucocorticoidi associato a immobilizzazione prolungata e perdita di massa muscolare.

In questo senso è importante notare che la terapia cortisonica che si è dimostrata efficace nel migliorare l’outcome dei pazienti COVID-19 ospedalizzati ha importanti effetti collaterali osteometabolici che vanno tenuti presente soprattutto in quei pazienti che continuano ad assumere cortisone a lungo e quindi nella fase post Covid-19.

La lezione appresa dalla Sindrome di Cushing

Stefano Frara della Cattedra di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano  primo autore di una recente review sull’argomento recentemente apparsa su una prestigiosa rivista internazionale riporta che l’Ipercortisolismo endogeno aumenta le fratture particolarmente proprio a livello vertebrale principalmente tramite impatto negativo sulla qualità dell’osso. L’aumento della fragilità scheletrica è riportato nella malattia conclamata ma anche in forme lievi di Ipercortisolismo. In molti studi da noi eseguiti è emerso che la morfometria vertebrale è uno strumento utile emergente nella valutazione della salute ossea nelle forme sia endogene (ipofisarie e surrenaliche) ma anche dovuta alla terapia cortisonica.

 

La salute delle ossa – aggiunge Giustina – può migliorare dopo il controllo / cura dell’Ipercortisolismo, o con la sospensione della terapia cortisonica sebbene la normalizzazione possa verificarsi solo a lungo termine. Pertanto, la consapevolezza, diagnosi, prevenzione / trattamento dei danni ossei  da cortisolo/cortisone rappresentano un bisogno clinico e una buona pratica clinica.

Fare attenzione all’osso anche nei maschi

Un comune denominatore – conclude Giustina – tra gli studi sul COVID-19 (1) e le terapie croniche corticosteroidee (2) è che le fratture vertebrali in queste condizioni non risparmiano in nessun modo il sesso maschile che è risultato perlomeno altrettanto colpito rispetto al sesso femminile. Questo riscontro deve essere da stimolo per tutti gli addetti ai lavori ma anche per la popolazione generale di non trascurare la salute ossea nel maschio evitando di cadere in quel reverse bias di genere che vede l’osteoporosi come patologia esclusivamente femminile. Il dosaggio della vitamina D, così importante anche per il suo ruolo nel sostenere la difesa immunitaria, (3) e una valutazione MOC DEXA della massa ossea nei maschi a rischio di osteoporosi o che abbiano riportato già una frattura sono elementi importanti di buona pratica clinica che la pandemia COVID-19 ci ha ricordato e che non dovremo dimenticare.

Fonti:

  1. di Filippo L et al. Radiological Thoracic Vertebral Fractures are Highly Prevalent in COVID-19 and Predict Disease Outcomes. J Clin Endocrinol Metab. 2021 Jan 23;106(2):e602-e614.
  2. Frara S et al, Best Practice & Research Clinical Endocrinology & Metabolism Volume 35, Issue 2, March 2021, 101515 Osteopathy in mild adrenal Cushing’s syndrome and Cushing disease.
  3. Giustina A. Hypovitaminosis D and the endocrine phenotype of COVID-19. Endocrine. 2021 Apr;72(1):1-11.

COVID e malattie metaboliche: come affrontare ipocalcemia, ipovitaminosi D e fratture

La COVID-19 coinvolge diversi sistemi biologici e organi, incluse le ossa. Probabilmente, questo si deve all’espressione quasi ubiquitaria del recettore ACE2, cui SARS-CoV-2 si lega per penetrare nelle cellule. Conoscere il legame tra la malattia e il sistema endocrino consente di personalizzare il trattamento dei pazienti ai fini di prevenire esiti più gravi o l’insorgenza di disturbi endocrini provocati da SARS-CoV-2. La European Society of Endocrinology (ESE) ha indagato il “fenotipo endocrino” della COVID-19 evidenziandone le implicazioni in ambito di prevenzione e trattamento.

Problemi endocrini della COVID-19

Il diabete è la comorbidità più frequente associata a gravità e mortalità da COVID-19; inoltre, SARS-CoV-2 risulta indurre questo disturbo. L’obesità aumenta la suscettibilità al SARS-CoV-2 e il rischio di eventi avversi da COVID-19. Per queste ragioni è importante il monitoraggio di dieta, livelli di glucosio del sangue e pressione arteriosa sia nei pazienti con COVID-19 sia in queste popolazioni particolarmente suscettibili.

Anche l’insufficienza adrenale è stata riscontrata in persone con COVID-19. Le cause potrebbero includere eventi trombotici nonché degenerazione e necrosi delle cellule adrenali corticali, riscontrata nelle autopsie. Le persone con insufficienza adrenale risultano quindi a rischio di crisi adrenale in caso di infezione da SARS-CoV-2, oltre a essere maggiormente a rischio di infezione a causa della compromissione delle difese immunitarie associata alla loro condizione. Anche i pazienti con ipercortisolismo (come in caso di sindrome di Cushing), in particolare le persone sotto trattamento con glucocorticoidi, risultano più a rischio di decorso grave.

Uno studio di Frara e colleghi ha recentemente riscontrato un possibile coinvolgimento della ghiandola pituitaria nel fenotipo endocrino della COVID-19, a causa di episodi di apoplessia ipofisaria in pazienti con COVID-19 e frequenti correlazioni con patologie legate all’ipofisi. Sono risultate frequenti anche le disfunzioni tiroidee, come tiroiditi subacute “atipiche” e malattia di Graves.

Carenza di vitamina D, ipocalcemia e fratture vertebrali risultano frequenti nei ricoverati con COVID-19 e impattano negativamente sul decorso della malattia. D’altra parte, anche l’osso è interessato in caso di diabete, molto presente nei decorsi gravi di COVID-19.

Non risultano particolari controindicazioni da vaccino anti COVID-19 per pazienti endocrinologici, per cui la vaccinazione è fortemente raccomandata.

COVID-19, ipocalcemia e ipovitaminosi D

Il calcio gioca un ruolo importante nell’azione di molti virus. L’ipocalcemia, già osservata in pazienti con SARS, è stata riscontrata in oltre 500 pazienti con COVID-19 e associata a parametri correlati all’ospedalizzazione e alla mortalità. Da diversi studi emerge quindi che bassi livelli di calcio sarebbero un carattere distintivo della COVID-19, utilizzabile come predittore della sua gravità. La ESE raccomanda, quindi, di misurare regolarmente i livelli di calcio di tutti i pazienti con COVID-19. Inoltre consiglia di monitorare e trattare adeguatamente i pazienti con ipoparatiroidismo, per prevenire ipocalcemia acuta.

Il calcio è coinvolto nella funzionalità cardiaca e dei neuroni, quindi l’ipocalcemia potrebbe contribuire attivamente agli esiti letali della COVID-19. Per questo è importante considerare anche i fattori che determinano questa condizione. La carenza di vitamina D potrebbe contribuirvi in modo rilevante. In effetti, l’ipovitaminosi D è riscontrata frequentemente nelle persone con COVID-19 (in quasi la metà dei casi da Hutchings e colleghi) ed è stata associata a maggiore gravità e mortalità da COVID-19. È possibile che questo avvenga perché la vitamina D è un importante modulatore delle risposte immunitarie.

COVID-19, fratture e osteoporosi

Tra le più frequenti co-morbidità della COVID-19 ci sono le fratture vertebrali, conseguenze assidue dell’osteoporosi. Come emerge dallo studio firmato di Filippo e colleghi, la mortalità dei pazienti con fratture vertebrali risulta doppia di quella dei pazienti che non ne presentano, con una correlazione con la gravità della frattura. In effetti, le persone con fratture sono generalmente più anziane delle altre, con maggiore incidenza di malattie cardiovascolari. Tuttavia, la presenza di fratture vertebrali può influire direttamente sull’esito della malattia perché diminuisce la funzione respiratoria e aumenta il rischio di polmoniti.

Il monitoraggio della salute ossea risulta quindi importante per la cura del paziente con COVID-19 e per la profilazione della malattia. Secondo gli autori, sembra molto significativo anche il significato prognostico della presenza di fratture vertebrali. Emerge anche l’importanza di un adeguato trattamento per l’osteoporosi ove necessario.

Conclusioni: le raccomandazioni dell’ESE su come gestire il fenotipo endocrino della COVID-19

La European Society of Endocrinology evidenzia l’urgenza di vaccinare tutti gli operatori sanitari, in particolar modo quelli che si occupano di pazienti con COVID-19, e i pazienti endocrinologici, dal momento che non emergono controindicazioni specifiche per queste persone ad alta priorità.

Il report evidenzia l’importanza di seguire misure preventive e protettive, inclusi controllo del peso e cura nutrizionale per prevenire malnutrizione, ipocalcemia e ipovitaminosi D, nei pazienti diabetici, negli obesi e negli anziani. Queste popolazioni devono anche essere indirizzate prontamente a cure mediche in caso di infezioni sospette da SARS-CoV-2.

Nei malati di COVID-19 è consigliato:

  • verificare i livelli di calcio e fare radiografie toraciche all’ammissione, soprattutto in pazienti con ipoparatiroidismo e sintomi da ipocalcemia;
  • monitorare il livello di glucosio ematico in tutte le persone ospedalizzate;
  • monitorare glucosio ematico e pressione arteriosa nei pazienti diabetici;
  • monitorare le persone con ipoadrenalismo, per eventuale aggiustamento del dosaggio di glucocorticoidi.

L’ESE raccomanda, inoltre, che teleconsulto e telemedicina siano praticati e implementati.

 

Fonte: Puig-Domingo, M., Marazuela, M., Yildiz, B.O. et al. COVID-19 and endocrine and metabolic diseases. An updated statement from the European Society of Endocrinology. Endocrine 72, 301–316 (2021). DOI: 10.1007/s12020-021-02734-w

Ossa implicate nell’onda lunga dell’infezione da Covid-19

La recente pandemia ha determinato effetti anche sull’apparato endocrino, tali da far formulare agli esperti la tesi di un ‘fenotipo endocrino’. Proprio il Covid-19 è il tema attorno a cui ruota il CUEM 2021, online in questi giorni.

Vitamina D e Covid-19

“Abbiamo iniziato a pensare subito ad un fenotipo endocrino quando abbiamo ipotizzato su BMJ che la Vitamina D e la sua carenza fossero coinvolte coinvolte nell’aumento della suscettibilità all’infezione nei suoi esiti negativi nel nostro Paese. L’ipotesi si basava sul ruolo importante di questo ormone nel funzionamento del sistema immunitario e sul fatto che i pazienti ospedalizzati mostravano molto bassi livelli di vitamina D in parte perché nei Paesi mediterranei come Italia e Spagna questa carenza è endemica nella popolazione anziana e in quella che vive nelle RSA” spiega il Professor Andrea Giustina, Co-Presidente del CUEM e Professor of Endocrinology Head, Institute of Endocrine and Metabolic Sciences San Raffaele Vita-Salute University and IRCCS Hospital

“Nonostante l’origine della pandemia sia in Cina, Italia e Spagna sono infatti state rapidamente coinvolti e hanno pagato il tributo più alto in termini di decessi (circa il 4% dei decessi da Covid a livello mondiale). Oltre all’interessamento polmonare, caratteristico del virus, sono state notate alterazioni dirette o indirette di organi, tessuti e molecole endocrine”. L’osservazione ha portato ad una revisione narrativa appena pubblicata su Endocrine che è stata al centro del Congresso online.

Revisione narrativa

–> La prima evidenza è che la maggior parte dei decessi si è verificata negli over 70, con la metà dei casi tra gli 80 e gli 89 anni.

–> La seconda è che gli uomini hanno pagato il tributo maggiore: erano a più alto rischio e se infettati, mostravano una maggiore gravità dei sintomi e peggiore outcome.

–> La terza: il diabete mellito si è manifestato come una delle comorbilità più frequenti e questa relazione si è rivelata bidirezionale. Chi aveva già il diabete era a maggior rischio di ricovero e coinvolgimento polmonare più severo e chi non lo aveva prima di ammalarsi di Covid-19, lo sviluppava durante la malattia. Da notare inoltre che una glicemia cronicamente elevata ha effetti negativi sul sistema immune e si associa ad una infiammazione di basso grado che predispone ad una eccessiva reazione infiammatoria che peggiora i danni respiratori. Infine anche le cellule pancreatiche che esprimono il recettore ACE2, la ‘porta’ di ingresso del virus, possono essere bersaglio della malattia e quindi il SARS-CoV-2 può esercitare un ‘effetto diabetogeno’. Tanto che è stato realizzato CoviDIAB, un registro internazionale per raccogliere i casi.

 

Lo studio CORONADO invece ha scoperto che un mix di danno diabetico con retinopatia grave e danno renale era un predittore di mortalità precoce e ancor più interessante, che retinopatia e obesità erano direttamente correlato ad un rischio aumentato di intubazione. Ciò si spiega se pensiamo che la malattia oculare nel diabete deriva da un danno dell’endotelio dei vasi che si può supporre essere generalizzato e interessare anche l’albero respiratorio. Vasi sanguigni danneggiati portano infatti in maniera meno efficiente al polmone e agli organi nutrimento e ossigeno.

Allo stesso modo l’obesità ha aumentato la gravità dell’infezione, il rischio di ricovero, la necessità di cure intensive, l’intubazione e la mortalità. E, insieme al sovrappeso, un alto indice di massa corporea determina una resistenza all’assorbimento di Vitamina D che avrebbe invece un effetto protettivo nei confronti delle infezioni e delle infiammazioni sistemiche, migliora la risposta del sistema immunitario e protegge dall’osteoporosi e dalle fratture.

Ossa implicate nell’onda lunga dell’infezione da Covid-19

L’onda lunga dell’infezione ha interessato anche la salute delle ossa: in uno studio che ha valutato la presenza e l’impatto clinico delle fratture vertebrali in 114 pazienti Covid-19 trovandone nel 35% dei pazienti che non avevano mai ricevuto diagnosi di osteoporosi. Inoltre, il tasso di mortalità complessiva risultava raddoppiato nei soggetti con fratture vertebrali toraciche e più elevato in coloro che avevano una frattura grave rispetto a quelli con fratture lievi o moderate.

 

Ma una delle scoperte che hanno più allertato gli endocrinologi è stato rilevare una correlazione tra Covid-19 e bassi livelli di calcio “In uno studio monocentrico su oltre 500 pazienti, l’ipocalcemia è stata rilevata in tre quarti di essi, condizione che rappresenta un fattore di rischio indipendente per il ricovero in ospedale” ha dichiarato il Professor Ezio Ghigo, Co-Presidente del Congresso “Il calcio era già noto per svolgere un ruolo cruciale nel meccanismo d’azione dei virus avvolti come SARS-CoV-2, MERS e Ebola in quanto necessario per la loro replicazione”.

 

Gli effetti della soppressione del TSH sulla densità minerale ossea nelle donne in post-menopausa

Studiare il rischio di problemi alle ossa in seguito a trattamenti come la soppressione del TSH (ormone tireostimolante) è importante per poter trattare i pazienti in modo mirato. Con questo obiettivo, Donghee Kwak e colleghi hanno analizzato gli studi che monitoravano la salute delle donne che, in seguito a rimozione della tiroide a causa cancro alla tiroide, erano sottoposte a terapia per la soppressione del TSH. In particolare, hanno indagato l’eventuale presenza di correlazioni tra questo trattamento e la densità minerale ossea (BMD), indicatore impiegato per lo screening dell’osteoporosi. Alterazioni del BMD, infatti, possono indicare un rischio di sviluppare fratture.

TSH e ossa

In seguito alla tiroidectomia per cancro a questa ghiandola, generalmente viene prescritta levotiroxina, farmaco che inibisce la produzione di TSH.  Tuttavia, gli effetti della soppressione del TSH in seguito a tiroidectomia sono controversi, anche perché in alcuni casi questa terapia provoca effetti collaterali. Infatti, gli ormoni tiroidei sono importanti nella regolazione del metabolismo e hanno effetti anche sulla salute delle ossa. Da alcune ricerche risulta che tale trattamento abbia effetti negativi sulla BMD. Secondo lo studio di Bauer e colleghi del 2001, le donne che presentano un livello di TSH molto basso avevano un rischio 3 volte maggiore di fratture all’anca e 4 volte maggiore di fratture alle vertebre.

La ricerca

Donghee Kwak e colleghi hanno analizzato 16 studi caso-controllo che avevano monitorato donne post-tiroidectomia per una durata compresa tra 1 anno e 15 anni. I soggetti sono stati divisi in due categorie:

  • 426 pazienti con cancro alla tiroide che avevano subito tiroidectomia ed erano sottoposte a terapia di soppressione del TSH;
  • 701 donne sane.

Gli studiosi hanno considerato fattori quali:

  • livello di TSH nel sangue (molto basso: <0,10mIU/L; moderato: 0,10–0,49 mIU/L; leggermente basso o normale: 0,50–2,0 mIU/L);
  • durata del follow-up;
  • età delle donne all’inizio dello studio;
  • BMI all’inizio dello studio;
  • gruppo etnico di appartenenza;
  • estensione della tiroidectomia (totale o subtotale).

Conclusioni: l’effetto della carenza di TSH sulla salute delle ossa

Rispetto ai controlli, le donne del primo gruppo con TSH inferiore 0,10 mIU/L a causa di farmaci soppressivi del TSH in seguito a tiroidectomia avevano un BMD della spina lombare significativamente inferiore, anche tra gli studi con un follow-up superiore a 10 anni. Non si osservava alterazione significativa del BMD nel collo del femore. Non vi erano differenze rilevanti in nessuno dei due casi nelle pazienti con soppressione moderata del TSH (0,10-0,49 mIU/L).

Dall’articolo risulta che anche la tiroidectomia totale è correlata a effetti negativi sul BMD, in particolare sul collo del femore, mentre una tiroidectomia sub-totale non sembra presentare la stessa associazione.

Questi risultati suggeriscono che potrebbe essere necessario dosare la levotiroxina per bilanciare  gli effetti positivi di prevenzione del cancro con quelli negativi sulla salute ossea. Secondo gli scienziati, è comunque necessario eseguire ulteriori indagini, dal momento che lo studio potrebbe includere fattori confondenti. Inoltre, occorre verificare quanto la carenza di TSH influisca sul rischio di fratture.

 

 

Fonte: Kwak D, Ha J, Won Y, Kwon Y, Park S. Effects of thyroid-stimulating hormone suppression after thyroidectomy for thyroid cancer on bone mineral density in postmenopausal women: a systematic review and meta-analysis. BMJ Open. 2021 May 13;11(5):e043007. doi: 10.1136/bmjopen-2020-043007. PMID: 33986046; PMCID: PMC8126273

L’efficacia dell’attività fisica ad alta e bassa intensità per osteoporosi e fratture ossee

Tra le attività fisiche che aiutano a prevenire e affrontare osteoporosi e fratture ossee vi sono i metodi di allenamento a resistenza e impatto ad alta intensità, HiRIT, e gli esercizi a bassa intensità Buff Bones®. Lo studio di Melanie Kistler-Fischbacher e colleghi, pubblicato online (non ancora su carta), ha comparato l’efficacia di questi due metodi. Li ha valutati anche in base all’assunzione o meno di farmaci anti-osteoporotici, che riducono il rischio di fratture.

Attività fisica per osteoporosi e fratture ossee

L’esercizio fisico è incluso tra le raccomandazioni per la prevenzione secondaria dell’osteoporosi. Le attività che aiutano a contrastare l’insorgenza di questo disturbo sono molteplici.

  • Attività quotidiane, come camminare, salire le scale, sollevare le buste della spesa, fare giardinaggio.
  • Sport leggeri, come jogging, aerobica, danza, tennis.
  • Esercizi a bassa intensità come il pilates. Un esempio è Buff Bones®, che presenta una precisa serie di esercizi per rinforzare le ossa e a migliorare l’equilibrio, riducendo così i rischi di cadute, che sono importanti fattori di rischio di fratture.
  • Esercizi ad alta intensità, come sollevamento pesi, squat, salti e step. Un’attività fisica che include esercizi di questo tipo è l’allenamento ad alta densità e resistenza all’impatto (HiRIT).
    • I farmaci anti-riassorbitivi

I farmaci anti-riassorbitivi sono terapie che aumentano la resistenza delle ossa agendo sul metabolismo osseo. Ne esistono cinque classi, ognuna più o meno efficace a seconda del paziente:

Lo studio e i risultati

I ricercatori li hanno valutati da soli o in combinazione con farmaci anti-riassorbitivi, verificandone l’efficacia tramite indici del rischio di fratture ossee (tra cui: densità minerale ossea, forza muscolare e performance funzionale). In particolare, è stata indagata la densità minerale ossea (BMD) del rachide lombare e dell’anca.

Lo studio ha considerato 115 donne con bassa BMD (T-score ≤ -1.0), tra i 62 e i 64 anni, suddivise in quattro categorie:

  • quarantadue donne che hanno eseguito allenamenti HiRIT per 40 minuti due volte a settimana per otto mesi;
  • quarantaquattro che hanno seguito l’allenamento Buff Bones® per otto mesi;
  • quindici che si sottoponevano agli esercizi HiRIT e assumevano da almeno un anno farmaci anti-riassorbitivi;
  • quattordici che eseguivano gli allenamenti a bassa intensità e prendevano da almeno un anno farmaci per l’osteoporosi.

Gli eventi avversi sono stati solo sette, a fronte di miglioramenti significativi nella forza muscolare e negli indici del rischio di frattura ossea. HiRIT è risultato significativamente più efficace dell’allenamento a bassa intensità, in particolare per quanto riguarda:

  • l’aumento della BMD lombare (1,9 ± 0,3% contro lo 0,1 ± 0,4%, p < 0,001);
  • l’incremento della statura (0,2 ± 0,1 cm contro -0,0 ± 0,1 cm, p = 0,004);
  • il miglioramento della performance funzionale di gambe e schiena. I risultati sembrano essere positivamente correlati con il massimo peso sollevato.

Sembra, inoltre, che i farmaci anti-riassorbitivi possano aumentare l’efficacia degli esercizi a livello del rachide lombare e del femore prossimale.

Questi risultati sono promettenti, ma sono necessarie ulteriori indagini.

Fonti:

Kistler-Fischbacher M., Yong J.S., Weeks B.K., Beck B.R. (2021). A Comparison of Bone-Targeted Exercise With and Without Antiresorptive Bone Medication to Reduce Indices of Fracture Risk in Postmenopausal Women With Low Bone Mass: The MEDEX-OP Randomized Controlled Trial. J Bone Miner Res. 2021 May 25. DOI: 10.1002/jbmr.4334

National Institute of Aging, Four Types of Exercise Can Improve Your Health and Physical Ability

Chen J., Sambrook P. (2012). Antiresorptive therapies for osteoporosis: a clinical overview. Nat Rev Endocrinol 2012 8, 81–91. DOI: 10.1038/nrendo.2011.146