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CKD-MBD: definizione ed eziopatogenesi

La CKD-MBD (Chronic Kidney Disease-Mineral and Bone Disorder) è un disturbo del metabolismo minerale in pazienti con patologia renale cronica (CKD, o nefropatia cronica). Ha trattato il tema Maurizio Gallieni, del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche, Università degli Studi di Milano, in occasione del congresso BoneHealth 2022, “Gestione integrata della salute dell’osso in specifici setting clinici”. Nel corso della prima sessione della giornata, “Patologia dell’osso nella malattia renale cronica”, ha ripercorso le principali tappe della definizione di CKD-MBD e la sua eziopatogenesi, concludendo l’intervento con gli obiettivi terapeutici.

 

Il concetto di CKD-MBD

Il nome Chronic Kidney Disease-Mineral and Bone Disorder, CKD-MBD, è stato coniato nel 2006, nello studio della KDIGO, una delle organizzazioni internazionali che delineano linee guida per i disturbi del rene. Il nuovo termine, CKD-MBD, definisce una malattia sistemica del metabolismo osseo e minerale che include uno o più dei seguenti domini:

  • Anomalie di laboratorio o bioumorali del metabolismo minerale. Queste comportano una diminuzione di calcio e calcitriolo e un aumento di fosforo, paratormone (PTH), FGF-23, fosfatasi alcalina. In studi successivi si sono aggiunti l’aumento della sclerostina e una diminuzione di klotho.
  • Osteodistrofia renale. Disturbi legati all’istopatologia ossea: in turnover osseo, mineralizzazione, volume, crescita lineare o forza dell’osso
  • Disturbi cardiovascolari, in quanto la CKD-MBD può provocare calcificazione vascolare (con conseguente irrigidimento delle arterie), dei tessuti molli o di altri tessuti.

Precedentemente era in uso il termine osteodistrofia renale, quindi si considerava soltanto un sottoinsieme delle caratteristiche della patologia.

Dal punto di vista delle manifestazioni cliniche, la CKD-MBD comporta principalmente:

  • Iperplasia della ghiandola paratiroide. L’iperparatiroidismo può comportare danno osseo e la necessità di paratiroidectomia.
  • Calcificazioni delle pareti vasali, che possono comportare malattie cardiovascolari: i pazienti con queste calcificazioni hanno un rischio di complicazioni cardiovascolari nettamente maggiore rispetto a pazienti che non hanno nefropatia cronica.
  • Disturbi ossei, che aumentano il rischio di fratture.

 

CKD-BMD e anomalie del metabolismo minerale

L’alterazione del metabolismo minerale è una risposta funzionale all’insufficienza renale; solo in una fase successiva si ha un maladattamento che determina problemi clinici. Sono diversi i meccanismi coinvolti in questo processo.

Nella malattia renale cronica (CKD) si ha una ritenzione di fosforo che determina l’aumento di FGF-23 (Fibroblast Growth Factor-23). Questo fattore di crescita:

  • Riduce la sintesi di calcitriolo, determinando un aumento di PTH, che alzerà il livello di calcio;
  • Sopprime l’assorbimento del fosforo, aumentando la fosfaturia. Quindi, aumenterà la produzione di paratormone. Livelli elevati di paratormone, soprattutto in pazienti dializzati, determinano un riassorbimento osseo così elevato che si può avere un aumento della fosforemia in presenza di danno renale che non risponde più fisiologicamente allo stimolo fosfaturico.
  • Inibisce la sintesi di vitamina D (che a sua volta comporta un’upregolazione della FGF-23);
  • Riduce l’espressione di paratormone (il quale stimola la produzione di FGF-23).

Nelle paratiroidi si ha proliferazione policlonale di cellule paratiroidee che comporta una riduzione della normale regolazione. Alcuni di questi gruppi cellulari determinano noduli che non rispondono più alla regolazione fisiologica: si riduce la concentrazione di calcium-sensing-receptor e del recettore vitamina D. Quindi, si hanno adenomi de facto, portando a un iperparatiroidismo terziario: aumenta molto la sintesi di paratormone, con determinazione di ipercalcemia.

 

Anomalie metaboliche e fasi della malattia renale

Nella progressione della malattia renale, l’aumento di FGF23 è il primo parametro a poter essere rilevato, seguito dall’aumento di paratormone, di vitamina D e calcio e dal calo progressivo del filtrato glomerulare. Molto tardivamente si ha un aumento dei livelli ematici di fosforo. La variazione non risulta ampia, ma si tratta comunque di un’alterazione fondamentale nel determinare le anomalie della patologia.

È noto da decenni che il fosforo ha un ruolo chiave nella patogenesi della CKD-MBD. Nel 1972, in un gruppo di cani Slatoposlky e colleghi ridussero progressivamente l’introito di fosforo nella dieta in proporzione alla diminuzione di filtrato glomerulare. Il team scoprì che in questo modo fosforo, calcio, e PTH restavano stabili nella malattia renale cronica. Studi successivi, come “Phosphate toxicity in CKD: the killer among us” e “Phosphate–a poison for humans?”, hanno confermato che il carico di fosforo è l’obiettivo principale nel trattamento della malattia renale cronica. Infatti, a parità di filtrato glomerulare c’è una forte dispersione che dipende dall’alimentazione. Ma la tossicità del fosforo in quantità eccessive è confermata anche in persone con filtrato renale normale: queste presentano un maggiore sviluppo di patologie dell’osso e un aumento della mortalità.

Il livello di fosforo si mantiene elevato anche durante la dialisi. In seguito a trapianto di reni, si osserva una fase di ipofosforemia, che poi si normalizza. I pazienti che hanno sia FGF-23 sia PTH a un livello normale sono circa la metà in fase II, ma si riducono significativamente già allo stadio 3 e scompaiono quasi completamente allo stadio IV.

L’ipocalcemia non risulta determinare variazioni nella mortalità, mentre l’ipercalcemia, tipica degli stadi avanzati, incide significativamente. Le ipofosforemie importanti aumentano nettamente la mortalità, soprattutto sopra 1,75 mg/dL; anche valori elevati di paratormone risultano incidere sulla mortalità. Statisticamente, nei pazienti con PTH con valore superiore a 900 pg/mL si osserva un rischio di frattura superiore al 72%.

 

CKD-BMD e disturbi ossei

“[È] importante approfondire la diagnostica in pazienti in cui gli esami ematici non sono sufficientemente chiari per inquadrare il problema.”

 

Recentemente, è emersa anche l’utilità della classificazione TMV (acronimo che riassume Turnover, Mineralizzazione e Volume) nell’osteodistrofia renale. Infatti, dalla combinazione di queste possibili alterazioni possiamo identificare la problematica, consentendo di distinguere le principali alterazioni dell’osso:

  • Osteite fibrosa, con aumento della distanza fra i due fronti di calcificazione;
  • Osteomalacia;
  • Malattia dinamica;
  • Presenza di lesioni miste.

In alcuni casi, condizioni diverse possono coesistere.

Anche altri esami sono risultati essere utili solo di recente. Le linee guida KDIGO del 2009 indicavano che la biopsia ossea andava riservata solo ai casi in cui occorreva trattare un paziente con bifosfonati. Nell’aggiornamento del 2017, questa tecnica è indicata in tutti i casi in cui si sospetta che l’esito della biopsia potrebbe migliorare la diagnosi o portare a una diversa terapia. Inoltre, nella prima versione la mineralometria ossea (MOC) non era indicata nei pazienti con patologia cronica renale, perché non c’erano evidenze a supporto del suo uso; oggi,  invece, questo esame è previsto anche in questi casi.

 

CKD-MBD: obiettivi terapeutici e potenziali esiti clinici

A oggi, non vi sono studi sufficientemente solidi per conoscere strategie precise su quanto è necessario fare in merito a un trattamento per bone and mineral disorder, rischi di frattura e sicurezza nei pazienti con CKD. Si hanno alcune indicazioni e suggestioni:

  • Ridurre assorbimento dietetico di fosforo e sovraccarico sia in fase di fosforemia normale sia quando la fosfatemia è elevata dovrebbe rallentare la progressione della malattia renale cronica, ridurre la massa ventricolare sinistra (stimolata da FGF-23) ed eventi cardiovascolari e quindi la mortalità.
  • Controllare l’iperparatiroidismo secondario, per il quale esistono buoni strumenti, riduce eventi cardiovascolari e anomalie ossee.
  • Evitare ipercalcemia, soprattutto in stadi avanzati della patologia, ridurrebbe le calcificazioni vascolari e, conseguentemente, malattie cardiovascolari.
  • Si pensa che un trattamento delle alterazioni ossee, sia qualitative sia quantitative, potrebbe ridurre il rischio di fratture, ma vi sono ancora molti dubbi.
  • Se si potesse ridurre efficacemente FGF-23, potrebbe essere possibile ridurre l’ipertrofia ventricolare sinistra, quindi eventi cardiovascolari e conseguentemente mortalità.

Fonte: congresso BoneHealth 2022

La chirurgia protesica nel trattamento dell’edema osseo

I possibili trattamenti per l’edema midollare dell’osso (bone marrow edema, BME, o edema osseo) includono anche le protesi monocompartimentali o mini impianti, che sono poco invasive, con minime complicazioni e affidabili. Michele Scelsi, Dirigente Medico presso il reparto di Chirurgia Protesica “CASCO” presso l’I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, ha riepilogato la letteratura sull’uso di mini impianti nell’edema midollare dell’osso in occasione del convegno di BoneHealth del gennaio 2022 “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche“.

Lo sviluppo delle protesi monocompartimentali

I primi mini impianti, a opera di McKeever e Macintosh, furono usati intorno agli anni Sessanta: erano rivestimenti tibiali applicati in casi di artrosi.

Sono dei design che, con le conoscenze attuali, noi definiamo ‘immaturi’: non considerano la simmetria di consumo. Noi sappiamo che quando c’è un’artrosi, tipicamente mediale, il femore è più consumato distalmente piuttosto che posteriormente; viceversa, nel ginocchio valgo: con un’artrosi esterna abbiamo un consumo prevalentemente posteriore. Questo mismatch per noi chirurghi è fondamentale correggerlo, perché dobbiamo equilibrare l’impianto durante tutta la flessoestensione.

Dato che con questi impianti tibiali non si poteva agire sui mismatch, si avevano stress meccanici sull’impianto che portavano a mobilizzazioni e fallimenti, nonché dolori per i pazienti. Negli anni Settanta, Gunston realizzò protesi più simili a quelle moderne: includeva una componente femorale metallica femorale (non anatomica) semicircolare da posizionare molto posteriormente sul condilo. Quindi, favoriva maggiormente la flessione: in estensione, sotto carico si avevano forze di taglio che comportava fallimenti. Inoltre, la controparte tibiale era una sorta di binario all’interno del quale si doveva incasellare la ruota lungo tutta la flessoestensione, dando stress, e quindi mobilizzazione e fallimento, a causa della naturale rotazione del ginocchio. Sempre negli anni Settanta, grazie a Marmor, si ebbe anche la nascita delle protesi mono moderne: femori anatomici di rivestimento e tibie in polietilene piatte (che in alcuni casi hanno metal back).

Le protesi monocompartimentali oggi

I mini impianti si sono evoluti nei materiali e nelle declinazioni. Le protesi monocompartimentali possono essere adattate a casistiche molto differenti, poiché possono essere:

  • con piatto fisso o mobile;
  • per il comparto mediale, laterale o anteriore;
  • cementato o non cementato;
  • anallergico;
  • con strumentari sofisticati che consentono di correggere tutti gli spazi finemente;
  • c’è anche la possibilità di avere una navigazione assistita, per sapere come e quanto correggere la asse della gamba.

La parte di fresatura può anche essere delegata a un robot, mentre l’umano si occuperà della cementazione. Inoltre, questi interventi possono essere eseguiti con protocolli fast track (o ERAS, Enhanced Recovery After Surgery), in regime di day surgery, salvo complicazioni che rendono necessari rientri, oppure tornando a casa entro 2 giorni di degenza con carico totale a tolleranza e con stampelle.

Chirurgia protesica ed edema osseo

In caso di bone marrow lesion complessa si predilige una protesi monocompartimentale o mini impianto. Si considera la lesione complessa quando la prognosi attesa è sub-ottimale, in base agli strumenti a disposizione.

I principali fattori generali che influenzano la prognosi post chirurgica includono:

  • L’età, che al crescere è associata a un minore potenziale rigenerativo;
  • La disponibilità dei pazienti per effettuare la convalescenza o la loro impossibilità a conciliare tempistiche incerte con la propria vita, ad esempio a causa della professione che svolgono;
  • Mancanza del necessario supporto familiare o disponibilità economica per effettuare un percorso riabilitativo impegnativo;
  • Paziente con bassa compliance;
  • Grado di cronicizzazione del dolore, che può includere una componente neuropatica che non è rimovibile, nel qual caso è necessario intervenire in modo definitivo.

I fattori locali che influenzano queste consistono in:

  • Lesioni reciproche (kissing), incompatibili con gli innesti osteocondrali;
  • Profondità, estensione, posizione della lesione, che renderebbero l’innesto instabile;
  • Lesioni associate;
  • Deviazioni assiali.

Non dimentichiamoci mai di analizzare il paziente nella sua totalità.

Protesi monocompartimentali e osteoartrosi

Numerosi studi hanno esaminato l’efficacia dei mini impianti nei casi di osteoartrosi. Ad esempio, una ricerca prospettica pubblicata su The Bone and Joint Journal che ha considerato mille impianti, ha rilevato una sopravvivenza del 91% a 15 anni (83-98%) con risultati funzionali OKS e AKSS affidabili. In passato si credeva che i mini impianti non fossero adatti nei pazienti ad alta richiesta funzionale, ma gli studi, come l’indagine del 2016 pubblicata su The Knee che ha considerato mille pazienti, hanno rilevato che non c’è una differenza statisticamente significativa tra persone con alte e basse richieste funzionali. Nel caso in cui vi fosse una differenza, sembrerebbe essere a favore dei pazienti più attivi, forse per la protezione fornita da un elevato livello calcico.

Nei pazienti normopeso, i mini impianti danno migliori risultati funzionali e in termini di sopravvivenza. Tuttavia, nei pazienti obesi si ha un maggiore miglioramento fra preoperatorio e postoperatorio: secondo gli studi, come Murray e colleghi del 2012, sono i pazienti che beneficiano maggiormente di questo trattamento.

L’efficacia della chirurgia protesica nell’osteonecrosi

Da dati retrospettivi da una review del 2006 con follow-up medio a 5 anni emerge che i mini impianti su osteonecrosi a partire dal 1985 danno risultati paragonabili a quelle effettuate per l’osteoartrosi, con buon outcome nel 100% dei casi. Ottimi risultati emergono anche da uno studio prospettico europeo multicentrico eseguito nel 2008, da Servien e colleghi. A 5 anni, i 33 pazienti con necrosi e i 35 con artrosi avevano identici risultati per dolore, articolarità oggettiva e funzionalità; quindi, l’osteonecrosi risultava beneficiare maggiormente dal punto di vista funzionale, perché prima della chirurgia i pazienti erano in condizioni peggiori delle persone con osteoartrite. I risultati di sopravvivenza erano del 92,8% per i pazienti con osteonecrosi e del 95,4% per quelli con osteoartrosi. Esiti paragonabili sono stati osservati anche nella ricerca pubblicata nel 2017 su Journal of Orthopaedics Surgery, su 23 pazienti con osteonecrosi confrontati con 235 pazienti con osteoartrosi (follow up a 5 anni).

Con follow-up più lungo, a mediamente 10,9 anni (con massimo ai 25 anni), lo studio di Heyse e colleghi del 2011 su 52 pazienti riscontrava sopravvivenza globale del 90,6% a 15 anni, concludendo che l’osteonecrosi può essere trattata con successo anche sul lungo termine. Gli esiti dei mini impianti nell’osteonecrosi sono stati analizzati più approfonditamente nell’analisi di Yoon e colleghi del 2018, che ha rilevato tassi di revisione e risultati clinico funzionali analoghi per artrosi e necrosi, anche se con tassi di significatività bassi (rispettivamente, p= 0,71 e 0,66). Inoltre, la review ha rilevato simili modalità di fallimento per mini impianti cementati, sia a piatto fisso, sia a piatto mobile, mentre per le protesi non cementate c’è maggior tasso di fallimento in caso di osteonecrosi.

Infine, lo studio retrospettivo del 2018 di Chalmers e colleghi, eseguito su 41 pazienti con osteonecrosi monocondilare (SONK) e 5 con necrosi secondaria (follow up medio di 5 anni, da 2 a 12) ha rilevato risultati affidabili e con minime complicanze a 10 anni. Tuttavia, ha riscontrato risultati peggiori in caso di necrosi secondaria: risultati peggiori a medio termine (RR 7,7 p=0,03) e minore sopravvivenza. In particolare, a 5 anni era dell’89% contro il 93% della SONK, e a 10 anni era del 76% contro il 93%. La modalità di fallimento più comune risultava essere la progressione dell’artrosi.

Conclusioni

In conclusione, la protesi mono è un’opzione affidabile, riproducibile e duratura; per me è l’indicazione principe nell’osteonecrosi.

Anche se la qualità delle evidenze è migliorabile e occorre considerare la riabilitazione, i risultati funzionali e di sopravvivenza per le protesi monocompartimentali oggi risultano analoghi per osteonecrosi e osteoartrosi anche sul lungo termine; trattano anche le lesioni associate: con la protesi è possibile trattare condropatie, lesioni lemniscali e lesioni assiali in un colpo solo. Tuttavia, i mini impianti non cementati danno risultati peggiori nei casi di osteonecrosi.

[È sempre importante tenere la mente aperta] per scegliere la terapia migliore, più efficace e più sicura per quel paziente.

Osteoporosi monogenica nel paziente giovane adulto

Caso clinico

Una donna di 45 anni si presenta in ambulatorio osteoporosi con l’esito di una MOC DEXA, richiesta dal curante a causa di fratture costali da fragilità.

La paziente è eumenorroica e presenta in anamnesi un ipotiroidismo autoimmune in terapia sostitutiva e una litiasi renale ipercalciurica/ipocitraturica su base familiare. La MOC documenta i seguenti valori densitometrici: lombare L1-L4 T-score -3,6 Z-score -2,6, FN T-score -1,9 Z-score -1,3, FT T-score -2,3 Z-score -1,8.

Gli esami del metabolismo fosfo-calcico sono tutti nella norma così come gli esami di II livello per escludere cause più rare di osteoporosi secondaria. La morfometria vertebrale documenta iniziale avvallamento della limitante somatica superiore di D9 D10 D11.

Non è presente familiarità per fratture da fragilità e non sono presenti segni extra-scheletrici di osteogenesi imperfetta.

Per escludere una causa genetica di osteoporosi, viene richiesta l’analisi mediante NGS dei geni associati alle collagenopatie: l’analisi genetica documenta una mutazione in eterozigosi del gene WNT1.

Si conclude per osteoporosi monogenica.

Inquadramento clinico-densitometrico del paziente giovane adulto con fragilità scheletrica

L’osteoporosi nel paziente giovane adulto è in genere considerata rara, ma la sua reale prevalenza non è nota e dipende dalle diverse definizioni della letteratura.

Nel 2021 su Calcified Tissue International è stata pubblicata un’interessante Review sull’argomento (1), che fornisce importanti direttive sul percorso diagnostico della fragilità scheletrica nel paziente giovane adulto.

Si può e si deve parlare di osteoporosi nel paziente giovane adulto solo in presenza di una bassa massa ossea (definita come Z-score <-2 o T-score <-2,5 alla colonna o al collo del femore) associata a una anamnesi positiva per una o più fratture da fragilità (delle ossa lunga o di sedi non comuni in questa fascia di età come femore e colonna).
In presenza di una bassa massa ossea ma in assenza di fratture da fragilità, si parla più propriamente di massa ossea inferiore al range atteso per età, condizione che non implica necessariamente un aumento della fragilità ossea ed è generalmente associata a un basso rischio di frattura, almeno nel breve termine.

In presenza di osteoporosi, il primo step è quello di identificare una causa secondaria rappresentata da una malattia osteopenizzante dello scheletro, attraverso un’anamnesi approfondita, un attento esame obiettivo e l’esecuzione di esami biochimici di I e II livello: si parla in questo caso di osteoporosi secondaria.

In assenza di una malattia cronica osteopenizzante, è necessario indagare tramite sequenziamento di nuova generazione (NGS) una condizione genetica, in particolare una forma di osteogenesi imperfetta (OI) o una forma più rara di osteoporosi monogenica.

Solo in assenza di una malattia cronica osteopenizzante e in presenza di un’indagine genetica negativa per OI e per osteoporosi monogenica, si può parlare di osteoporosi idiopatica giovanile, che è sempre quindi una diagnosi di esclusione.

Osteoporosi secondaria

Le malattie che possono impattare negativamente sul rimodellamento osseo nel paziente giovane adulto sono molteplici: la Tabella 1 le riassume in modo schematico.

Tabella 1. Forme secondarie di osteoporosi nel paziente giovane adulto

Malattie endocrine
  • Acromegalia
  • Sd di Cushing
  • DM tipo 1 e 2
  • GHD
  • Iperprolattinemia
  • Ipogonadismo
  • Deficit di aromatasi
  • Pubertà ritardata
  • Iperparatiroidismo
  • Ipertiroidismo
  • Ipopituitarismo
Malattie infiammatorie/reumatiche
  • AR
  • Sarcoidosi
  • LES
Malassorbimento/malnutrizione
  • Anoressia nervosa
  • Deficit di calcio e vitamina D
  • Celiachia
  • Chirurgia addominale
  • Chirurgia bariatrica
  • IBD
Malattie metaboliche
  • Malattia di Gaucher
  • Glicogenosi
  • Ipofosfatasia
  • Ipofosforemia
  • Omocistinuria
  • Mucopolisaccaridosi
  • Malattia di Pompe
Malattie neuro-muscolari
  • Paralisi cerebrale
  • Malattie relate alle cadute
  • Distrofia muscolare e miopatie
Trapianto
  • Trapianto di midollo osseo
  • Trapianto di organo solido
Insufficienza d’organo
  • Fibrosi cistica
  • Insufficienza epatica
  • Insufficienza renale
Malattie ematologiche
  • Emocromatosi
  • Mieloma multiplo
  • Emofilia
  • Leucemia
  • Linfoma
  • MGUS
  • Talassemia maior
  • Mastocitosi
Farmaci
  • Antiepilettici
  • Antidepressivi
  • Analogo del GnRH
  • Inibitori aromatasi
  • TAM
  • Chemioterapia
  • Sedativi
  • HAART
  • Glucocorticoidi
  • Ranitidina, IPP
  • Eparina
  • Medrossiprogesterone acetato
  • Glitazoni
  • LT4 a scopo TSH-soppressivo
Miscellanea
  • Etilismo
  • Ipercalciuria idiopatica
  • Triade delle donne atlete (ridotto introito energetico, amenorrea, bassa BMD)
  • HIV
  • Immobilizzazione
  • Gravidanza/allattamento
  • Obesità
  • BPCO/fibrosi polmonare
  • Scompenso cardiaco

 

Osteogenesi imperfetta

Sebbene rara, è la più comune malattia genetica dell’osso caratterizzata da bassa massa ossea e aumentata incidenza di fratture e spesso associata a manifestazioni cliniche extra-scheletriche (sclere blu, lassità legamentosa, dentinogenesi imperfetta, ipoacusia). È causata da un difetto genetico, quantitativo o qualitativo, del collagene di tipo 1, che in più del 90% dei casi interessa uno dei due geni (COL1A1, COL1A2) che codificano per le due catene alfa del collagene di tipo 1, mentre i rimanenti casi mostrano un background genetico molto eterogeneo e vari pattern di ereditarietà (sono identificate negli anni sempre nuove mutazioni).

Gli unici farmaci che hanno dato un vantaggio in termini di guadagno di massa ossea e riduzione delle fratture sono gli amino-bisfosfonati e l’unico registrato in Italia per il trattamento della OI è il neridronato al dosaggio di 2 mg/Kg ev ogni 3 mesi per un massimo di 3 anni. I dati relativi a denosumab e teriparatide sono limitati e i risultati non ben definiti. Dati preclinici in modelli animali hanno dimostrato un effetto positivo sulla BMD dell’inibizione della sclerostina (2).

Osteoporosi monogenica

Mutazione di LRP5

Il gene LRP5 (LDL Receptor Related Protein 5) codifica per un co-recettore che media l’azione di WNT, è quindi implicato nel processo di osteoblastogenesi; la mutazione inattivante di LRP5 determina una forma di osteoporosi a basso turn-over, coerente con un difetto del WNT-signaling.

I pazienti con mutazione “loss of function” biallelica di LRP5 (sindrome osteoporosi-pseudoglioma, autosomica recessiva) presentano un quadro clinico severo con importante fragilità scheletrica, difetto di accrescimento e deformità già in età infantile, coesiste cecità.

I pazienti con mutazione in eterozigosi di LRP5 (autosomica dominante) presentano in genere normale accrescimento senza deformità ma vanno incontro a bassa massa ossea e fratture da fragilità durante la tarda adolescenza o all’inizio dell’età adulta, in genere non è presente l’interessamento oculare o è presente un quadro di vitreoretinopatia.

La risposta al trattamento con bisfosfonati è in genere buona. Pochi i dati su teriparatide che determina in questi pazienti un’accelerazione del turn-over osseo (1).

Mutazione di WNT1

La mutazione inattivante di WNT1 determina una forma di osteoporosi a basso turn-over, coerente con un difetto dell’osteoblastogenesi.

I pazienti con mutazione “loss of function” biallelica di WNT1 (sindrome OI-like tipo 3, autosomica recessiva) presentano un quadro clinico severo con importante fragilità scheletrica (fratture delle ossa lunghe), difetto di accrescimento e deformità già in età infantile; possono coesistere difetti di sviluppo del SNC, fibrosi midollare e alterazioni cartilaginee (ernie di Schmorl, gonartrosi).

I pazienti con mutazione in eterozigosi di WNT1 (autosomica dominante) presentano in genere normale accrescimento senza deformità ma vanno incontro a bassa massa ossea e fratture da fragilità durante la tarda adolescenza o all’inizio dell’età adulta.

Dal punto di vista dei BTM, i pazienti presentano elevati valori di FGF23 mentre sclerostina e DKK1 non sono alterati rispetto ai controlli.

Il trattamento con teriparatide per due anni ha dimostrato un aumento della neoformazione ossea ma anche una tendenza a un aumento dell’adiposità midollare. Il trattamento per diversi anni con anti-riassorbitivi non ha determinato un’efficace protezione dalle fratture vertebrali. In modelli murini l’anticorpo anti-sclerostina sembra efficace nell’incrementare la massa ossea e ridurre le fratture periferiche (1).

Mutazione di PLS3

Il gene PLS3, localizzato sul cromosoma X, codifica per la plastina 3, proteina coinvolta nella funzione di meccanocettori degli osteociti e nella mineralizzazione della matrice. Le mutazioni note di PLS3 comprendono mutazioni missenso, non senso ma anche delezioni totali/parziali e duplicazioni parziali.

La malattia X-linked colpisce prevalentemente il sesso maschie mentre le femmine eterozigoti non presentano una significativa fragilità ossea o la possono sviluppare nell’età adulta.

I pazienti presentano osteoporosi severa precoce progressiva con aumentata incidenza di fratture vertebrali multiple e fratture periferiche; sono descritte fratture atipiche di femore dopo trattamento con bisfosfonati. I livelli di ALP e CTX sono normali mentre sono aumentati quelli di DKK1. La biopsia ossea dimostra un basso turn-over con aumentata matrice osteoide non mineralizzata (1).

Mutazione di SGMS2

Il gene SGMS2 codifica per la sfingomielina-sintetasi 2, enzima coinvolto nel metabolismo degli sfingolipidi di membrana; la mutazione di SGMS2 determina con meccanismo non noto un’alterazione del metabolismo osseo e della mineralizzazione della matrice. Si tratta di un disordine autosomico dominante, caratterizzato da osteoporosi ad esordio precoce (fratture vertebrali e delle ossa lunghe) associata a lesioni sclerotiche della teca cranica; coesistono sintomi neurologici in particolare paralisi transitoria del nervo faciale. I livelli di ALP sono elevati. La biopsia ossea dimostra un ridotto volume osseo, un ridotto contenuto minerale e una eterogeneità della mineralizzazione della matrice (1).

Osteoporosi idiopatica giovanile

Come detto, è sempre una diagnosi di esclusione. Si ritiene che abbia una genesi multifattoriale con possibile causa genetica sottostante. La biopsia ossea dimostra una ridotta formazione ossea in alcuni pazienti. Le fratture vertebrali sono più frequenti nel sesso maschile.

In futuro molti dei casi di osteoporosi idiopatica saranno riclassificati nelle forme monogeniche.

Bibliografia

  1. Outi Mäkitie, M Carola Zillikens. Early-Onset Osteoporosis. Calcif Tissue Int. 2022 May;110(5):546-561.
  2. Vittoria Rossi, Brendan Lee, Ronit Marom. Osteogenesis imperfecta: advancements in genetics and treatment. Curr Opin Pediatr. 2019 Dec;31(6):708-715.

Gestione del paziente con osteoporosi e malattie osteo-metaboliche

Sono aperte le iscrizioni per il primo master di II livello in Gestione del paziente con osteoporosi e malattie osteo-metaboliche organizzato da HU-Humanitas University (consulta il bando).

Formare la figura del Bone Specialist

Il master ha lo scopo di formare la figura professionale di medico specialista, il cosiddetto Bone Specialistin grado di gestire in maniera appropriata pazienti affetti da osteoporosi e malattie osteo-metaboliche e in grado di coordinare percorsi diagnostico-terapeutici multidisciplinari di gestione integrata del paziente con fragilità scheletrica.

Il master – diretto dal prof. Gherardo Mazziotti e dal prof. Andrea G. Lania – prevede l’acquisizione di 60 CFU ai quali corrisponde un impegno di 1.500 ore divise tra lezioni frontali, studio individuale, attività di simulazione su casi clinici e osservazione in ambulatorio.

Il master è riservato a laureati in medicina e chirurgia con specializzazione medica in endocrinologia, reumatologia, ginecologia, medicina interna, geriatria, ortopedia, fisiatria, nefrologia, oncologia e medicina generale.

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Programma del master

Le lezioni frontali si divideranno nei seguenti moduli e saranno svolte sia in presenza sia in modalità e-learning:

  • MODULO 1: Fondamenti di osteologia ed epidemiologia
  • MODULO 2: Diagnostica della fragilità scheletrica
  • MODULO 3: Osteoporosi secondarie
  • MODULO 4: Osteopatie rare
  • MODULO 5: Nutrizione ed osteoporosi
  • MODULO 6: Terapia farmacologica
  • MODULO 7: Terapia chirurgica
  • MODULO 8: Terapia riabilitativa
  • MODULO 9: Comunicazione medico-paziente. Legislazione.  Aspetti organizzativi
  • MODULO 10: La ricerca in ambito osteometabolico

Una metodologia didattica all’avanguardia

Nell’ambito di un processo formativo innovativo, il master si avvale dell’utilizzo di casi clinici che consentiranno l’applicazione pratica delle nozioni apprese durante le lezioni frontali. Tale metodologia formativa, che rappresenta un punto di forza del master, è stata resa possibile e applicabile grazie al supporto del Mario Luzzatto Simulation Center, una struttura di Humanitas University unica in Italia per i suoi metodi didattici innovativi e strutture formative altamente realistiche, che consente una efficace traduzione nella pratica clinica delle conoscenze specialistiche nell’ambito di vari setting tra i quali quello delle malattie osteo-metaboliche.

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L’ossigenoterapia iperbarica nel trattamento dell’edema midollare dell’osso

L’ossigenoterapia iperbarica è un trattamento che migliora l’apporto di ossigeno molecolare ai tessuti, consentendone il corretto funzionamento. È indicata anche per alcune condizioni dell’osso, come l’edema midollare dell’osso (anche edema osseo o bone marrow edema, BME). In occasione del convegno di BoneHealth del gennaio 2022 “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche“, ne ha parlato, riassumendo la letteratura sul tema, Andrea Giovanniello, anestesista e responsabile del Servizio di Medicina Iperbarica presso la Casa di Cura I Cedri di Fara Novarese e anestesista presso lo studio Cinzia Torchio.

 

Cos’è l’ossigenoterapia iperbarica?

L’ossigeno molecolare è fondamentale per il corretto funzionamento dei tessuti. L’ossigenoterapia iperbarica è definita come la respirazione intermittente con ossigeno molecolare a concentrazione al 100% in camere iperbariche, ovvero ambienti pressurizzati a oltre 1,4 atmosfere assolute (ATA), in genere 2 o 3. Normalmente, una seduta di ossigenoterapia iperbarica ha una durata di 1-2 ore e ha prescrizione quotidiana, salvo che in alcuni casi, in cui si può arrivare a ripetere la terapia 3 volte al giorno.

Non esistono linee guida stringenti sulla quantità di sedute da effettuare, nemmeno in regime di emergenza. Dalla letteratura si hanno alcuni riscontri: ad esempio, sembra che non sia efficace superare i 2 cicli (50 terapie circa) per l’edema del ginocchio, mentre può essere utile nella testa femorale e in forme più avanzate di malattia (70 trattamenti). Tuttavia, ogni caso è a sé: è bene effettuare risonanze di controllo a metà della terapia, per studiare la situazione.

L’ossigenoterapia iperbarica migliora l’ossigenazione, per cui è indicata nelle patologie in cui un tessuto emerge essere ipossico. L’ossigenazione del tessuto scheletrico è fondamentale per il corretto metabolismo e il corretto turnover osseo, infatti si osserva che in condizioni di ipossia prevale l’attività degli osteoclasti. In Italia rientra nei livelli essenziali di assistenza e sono riconosciute solo camere iperbariche multiposto.

 

Effetti dell’ossigenoterapia iperbarica

Si crea, in questo modo, una vera e propria via alternativa al trasporto dell’ossigeno molecolare ai tessuti.

L’ossigeno molecolare ha la funzione di un farmaco e la camera iperbarica quella di un dosatore. Infatti, la respirazione in ambiente iperbarico, grazie alla legge di Henry, comporta il discioglimento dell’ossigeno molecolare in grande quantità all’interno del plasma sanguigno, così che può ossigenare anche organi che si sospettano essere in ipossia. Non aumenta l’ossigeno combinato con l’emoglobina, mentre la pressione arteriosa parziale risulta aumentare linearmente con l’ossigeno disciolto nel plasma:

  • 1 ATA: 1,7 ml (PaO2 = 600 mmHg);
  • 2 ATA: 3,7 ml (PaO2 = 1218 mmHg);
  • 3 ATA: 5,6 ml (PaO2 = 1864 mmHg).

Questo trattamento comporta la liberazione di grandi quantità di ROS (radicali liberi dell’ossigeno), che sono sfruttati a livello cellulare: l’aumento nel rilascio di scavenger nei ROS è responsabile di gran parte dell’azione positiva dell’ossigenoterapia iperbarica. Un’alimentazione equilibrata consente di bilanciare gli eventuali effetti negativi.

 

Camera iperbarica ed edema osseo

La SIMSI, società nazionale di settore, inquadra le patologie in cui è indicato l’uso dell’ossigenoterapia iperbarica. Tra queste sono incluse le forme iniziali di osteonecrosi avascolare asettica e delle sindromi algodistrofiche, spesso caratterizzate dalla presenza di edema subcondrale. La letteratura che indaga il legame tra uso di camera iperbarica, e conseguente rilascio di ROS, ed edema midollare dell’osso è approfondita, con un rilevante contributo anche da parte dell’Italia.

L’ossigenoterapia iperbarica emerge agire in diversi modi.

  • Sul sistema RANK/RANKL/OPG (osteoprotegerina), coinvolto nell’equilibrio fra attività osteoclastica e osteoblastica, promuovendo l’osteogenesi e l’azione degli osteoblasti. Il lavoro italo-statunitense Vezzani e colleghi del 2017 ha indagato pazienti con osteonecrosi avascolare asettica di testa femorale in stadio iniziale, in cui l’uso di ossigenoterapia iperbarica è risultato in un aumento statisticamente significativo dei valori sierici di osteoprotegerina (mentre i valori del ligando RANKL non risultavano cambiati).
  • L’ossigenoterapia iperbarica ha un effetto di vasocostrizione sia a livello arteriolare sia venulare, per cui riduce l’edema lesionale e perilesionale.
  • Questa terapia mostra un effetto antinfiammatorio: emerge ridurre le citochine (TNF-α, interleuchina-6), migliorando l’edema dell’osso subcondrale.

Nel 2018, Bosco, Vezzani e colleghi hanno pubblicato una ricerca retrospettiva in 37 pazienti con osteonecrosi femorale asettica di condilofemorale idiopatica in stadi iniziali (staging di Aglietti I e II), sottoposti a sedute in camera iperbarica a 2,5 ATM per un’ora al giorno per 5 giorni a settimana, in diverse sedute intervallate da sospensioni. I ricercatori hanno misurato lo score Oxford Knee di base e dopo ogni seduta di ossigenoterapia, osservando miglioramenti funzionali statisticamente significativi, in particolare dopo il secondo ciclo, mentre non ne risultano tra il secondo e il terzo. Con lo staging di Aglietti hanno rilevato una riduzione statisticamente significativa (rispetto al tempo zero) delle dimensioni del focolaio osteonecrotico e l’estensione dell’edema osseo entro un anno e a 7 anni di distanza dal trattamento, di entità paragonabili.

 

Limiti e vantaggi dell’ossigenoterapia iperbarica

L’ossigenoterapia iperbarica è una terapia sicura, che non presenta particolari effetti collaterali. Le controindicazioni includono essenzialmente pneumotorace spontaneo non drenato, anamnesi positiva per pazienti con problematiche epilettiformi e casi gravi di claustrofobia, in cui la persona non sopporta il trattamento nemmeno sotto sedazione. Più spesso, può comportare disagi a chi vi si sottopone:

  • è un trattamento che risulta noioso;
  • spesso è di lunga durata;
  • i centri di ossigenoterapia iperbarica sono relativamente pochi, per cui spesso il trasferimento per i pazienti è impegnativo in termini di tempo, in particolare nei trattamenti di più lunga durata.

In ogni caso, l’ossigenoterapia iperbarica è una terapia conservativa efficace e sicura, da sfruttare nel trattamento del bone marrow edema del ginocchio e dell’osteonecrosi avascolare asettica di condilo femorale nelle sue fasi iniziali, preferibilmente con un approccio multidisciplinare perché i pazienti abbiano il miglior esito possibile.

L’ossigenoterapia iperbarica deve rappresentare una strategia terapeutica conservativa di tipo alternativo o integrativo ad altre strategie terapeutiche conservative per il trattamento dell’edema osseo del ginocchio e per le forme iniziali di osteonecrosi avascolare asettica di condilo femorale.

 

Fonte: convegno BoneHealth 22 gennaio 2022

 

Dalla SONK al BME: nuove strategie terapeutiche. La stimolazione biofisica

La stimolazione biofisica (da non confondersi con la magnetoterapia) sta emergendo come terapia efficace contro l’edema osseo, poiché ne favorisce il riassorbimento e riduce lo stato infiammatorio delle articolazioni. In occasione del convegno di BoneHealth “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche”, tenutosi il 22 gennaio 2022, ne ha parlato il dottor Giulio Maria Marcheggiani Muccioli, Ortopedico nell’ambito di Traumatologia dello Sport e di Chirurgia Articolare ricostruttiva e protesica (di ginocchio, anca e spalla), che attualmente svolge le sue attività di chirurgo e di ricerca presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli (Bologna).

La stimolazione biofisica

La stimolazione biofisica (o PEMF, da Pulsed ElectroMagnetic Fields therapy) consiste nello sfruttare un campo elettromagnetico che possiede determinate caratteristiche per una specifica quantità di tempo per ottenere effetti clinici in vivo, con efficacia a livello osseo e di infiammazione articolare:

  • intensità di 1,5 mT (milliTesla);
  • frequenza di 75 Hz;
  • forma d’onda di tipo quadrato;
  • applicazione per minimo 4 ore al giorno.

I protocolli di trattamento prevedono un uso della stimolazione biofisica fino a guarigione, per circa:

  • 30-45 giorni per l’edema osseo;
  • 45-60 giorni per l’algodistrofia;
  • 60-90 giorni per l’osteonecrosi.

È l’ampiezza dell’onda che determina il tipo di effetto biofisico. È come se io volessi colpire qualcosa che ha una determinata dimensione: devo utilizzare un proiettile che ha la stessa dimensione.

Meccanismi d’azione della stimolazione biofisica

Studi sia in vitro sia in vivo hanno dimostrato che la stimolazione biofisica comporta:

  • l’attivazione dell’attività osteogenetica e l’inibizione dell’osteoclastogenesi, per mezzo delle BMP (Proteine Morfogenetiche Ossee). Quindi, sul lungo termine agisce sull’edema osseo subcondrale, favorendone il riassorbimento, e sull’osteopenia e l’osteoporosi localizzata, grazie all’effetto anabolico sugli osteoblasti e la riduzione dell’attività osteoclastica.
  • Il controllo del processo infiammatorio a livello articolare. Infatti, questo trattamento stimola i recettori A2A a produrre una cascata di citochine che portano alla riduzione di molecole proinfiammatorie a livello dell’articolazione. Per queste ragioni è efficace sul breve termine per il controllo dell’infiammazione e la riduzione di gonfiore e dolore.

Indicazioni ed efficacia della PEMF: trattamenti conservativi

L’efficacia della stimolazione biofisica è stata indagata in primo luogo nel trattamento conservativo nell’osteonecrosi della testa del femore. Negli stadi I e II dell’osteonecrosi dell’anca, questa terapia in 6 mesi per 8 ore al giorno (data la profondità della parte coinvolta) ha interrotto la progressione della patologia in circa il 90% dei casi. Dopo il follow-up di 26 mesi, il gruppo di ricerca ha rilevato che l’88% dei pazienti non aveva dolore né necessità di una protesi d’anca.

A livello della SONK (osteonecrosi spontanea del ginocchio, anche se questa dicitura risulta ormai inappropriata), una ricerca del 2013 ha esaminato l’efficacia della PEMF negli stadi iniziali (I e II di Koshino). Applicando la terapia per 4 ore al giorno per 90 giorni, a 24 mesi di follow-up l’86% dei pazienti non necessitava di protesi di ginocchio e il 75% risultava avere una completa risoluzione del dolore. In effetti, a 6 mesi dal termine del trattamento i pazienti avevano una riduzione statisticamente significativa della gravità dell’osteonecrosi del ginocchio (valutata tramite score WORMS, importante nella diagnosi e il monitoraggio dei pazienti perché consente di prevedere se il paziente necessiterà di protesi). È importante, però, calare la terapia in base alla gravità della patologia: oltre lo stadio III di Koshino, invece, è necessario togliere il carico e procedere con terapia con camera iperbarica.

Stimolazione biofisica nell’edema midollare osseo

Gli studi su PEMF ed edema midollare osseo sono essenzialmente preliminari o case report; si sono focalizzati a livello della caviglia e del piede, del polso e della mano. In effetti, una monografia della SICM (Società Italiana di Chirurgia della Mano) e le linee guida della Regione Toscana indicano la stimolazione biofisica come trattamento conservativo di prima linea per ridurre gonfiore, dolore e osteoporosi localizzata in caso di CRPS dopo chirurgia della mano.

Uno studio in corso riguarda l’uso di questa terapia per ridurre sintomatologia dolorosa e recuperare nel postoperatorio nei pazienti con lesione e ricostruzione di crociato anteriore che presentavano edema midollare dell’osso di grande entità.

Stimolazione biofisica in post-chirurgia

Quasi il 20% dei pazienti riporta dolori persistenti a oltre un anno dall’operazione di protesi totale del ginocchio. Il controllo dell’infiammazione postoperatoria porta a una riduzione di questo problema e migliora il recupero funzionale del ginocchio e la funzionalità globale dei pazienti. È stato riscontrato in diversi studi, come quello di Moretti e colleghi del 2012, che una terapia con campi elettromagnetici pulsati comporta miglioramenti importanti a 1 anno di follow-up.

E’ una stimolazione che funziona come un farmaco. Come esiste la farmacodinamica, esiste anche la fisicodinamica.

Conclusioni

La stimolazione biofisica è una metodica che nel post-chirurgico è utile per trattare infiammazioni ed edemi postoperatori, grazie al suo effetto antinfiammatorio nel breve termine. L’uso della PEMF come metodica conservativa cardine nel trattamento di edema osseo e osteonecrosi nei primi stadi deriva, invece, dagli effetti a lungo termine positivi sull’osteogenesi e quelli condroprotettivi sulla cartilagine articolare.

Fonte: convegno BoneHealth 22 gennaio 2022

 

L’applicazione dei prodotti ortobiologici nell’edema osseo

Studi recenti hanno avanzato la possibilità che i prodotti ortobiologici potrebbero ripristinare l’omeostasi articolare, prevenendo la degenerazione dell’artrosi. Laura Mangiavini, Ortopedico presso l’Équipe Universitaria di Ortopedia Rigenerativa e Ricostruttiva all’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi e collaboratrice dell’Istituto Clinico San Siro, in occasione del convegno di BoneHealth del gennaio 2022 “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche” ha riepilogato la letteratura scientifica che indaga l’applicazione dei prodotti ortobiologici nell’edema osseo.

I prodotti ortobiologici

I prodotti ortobiologici sono trattamenti recenti, poco standardizzabili e con risultati variabili, ma che potrebbero essere promettenti. In particolare, nell’edema osseo possono essere usati in persone con artrosi moderate; in futuro potrebbe essere possibile sfruttare queste terapie in pazienti in stadi iniziali per bloccare la degenerazione. I prodotti ortobiologici si suddividono in derivati piastrinici e terapie cellulari (o prodotti contenenti cellule).

Derivati piastrinici

I derivati piastrinici (come platelet rich plasma, PRP, autologous conditioned plasma, ACP, plasma rich in growth factors, PRGF, e altri) contengono un alto numero di piastrine (fino a 7 volte la normale concentrazione) e di fattori di crescita. Ne esiste un’enorme varietà, dipendente da durata, velocità e tipo di centrifugazione, da volume iniziale e finale del sangue e altri fattori. Ognuno di essi può avere diverse funzioni:

  • Rigenerativa, perché inducono la chemotassi e la proliferazione di cellule staminali, con stimolazione di matrice extracellulare e sostituzione dei tessuti danneggiati;
  • Antinfiammatoria, tramite la stimolazione di citochine antinfiammatorie e il blocco della secrezione di citochine infiammatorie;
  • Angiogenica, poiché favoriscono la neovascolarizzazione nei tessuti fibrotici o danneggiati;
  • Analgesica, laddove inducono una risposta endocannabinoide cellulo-mediata;
  • Antibatterica, riducendo la crescita dei batteri.

Prodotti cellulari

I prodotti contenenti cellule (BMAC, SVF, sospensione amniotica allogenica, grasso micro-frammentato…) contengono cellule staminali mesenchimali, capaci di aderire alla plastica, proliferare esprimendo determinati marker e di dare diversi tipi cellulari; oggi, però, il concetto si è esteso alle mesenchimal signalling cell, cellule chiamate periciti che si legano ai vasi e, una volta attivate, liberano fattori con effetti immunomodulatori e antimicrobici, ripristinando l’omeostasi del microambiente. Quindi, non occorre che la cellula multipotente si differenzi. A oggi, i prodotti cellulari utilizzati derivano da midollo osseo (BMSC) e tessuto adiposo (ASC). Fonti che potranno essere sfruttate e sembrano essere molto promettenti sono cellule da tessuti fetali quali fluido amniotico (AF-MSC) e il cordone ombelicale (WJ-MSC). Altre sedi, come il liquido sinoviale, sono ancora in fase di studio.

I derivati da midollo osseo contengono MSC, cellule staminali emopoietiche (HSC), piastrine e leucociti. Si può sfruttare l’aspirato midollare puro (BMA, da bone marrow aspirate) oppure il suo centrifugato (BMAC, ovvero BMA concentrate, 2-5x o 4-10x) per concentrare i fattori che contiene. Questo facilita l’azione delle MSC perché le piastrine le supportano, in quanto ne promuovono la chemotassi nel sito di lesione e forniscono siti di adesione. Le HSC supportano la vascolarizzazione dando cellule emopoietiche e mantenendo un contatto cellulare con le MSC. Quindi, nelle ossa favoriscono l’osteogenesi.

Relativamente, invece, ai prodotti cellulari derivati da tessuto adiposo adulto (in genere addominale), nella pratica clinica non si usano le MSC purificate, ma quelle all’interno di un microambiente costituito da preadipociti, adipociti, cellule staminali emopoietiche, matrice extracellulare e strutture microvascolari. Si sfruttano il tessuto adiposo microframmentato, ovvero frammentato meccanicamente dopo il prelievo e iniettato mantenendo questo microambiente, o la SVF (stromal vascular fraction), in cui il tessuto adiposo è trattato enzimaticamente o meccanicamente e poi centrifugato. In vitro, la SVF ha le stesse funzioni di omeostasi del tessuto adiposo microframmentato.

Attualmente, si preferisce il prelievo di tessuto adiposo a quella di midollo osseo perché:

  • la procedura è poco invasiva rispetto al prelievo da midollo osseo, anche se la tecnica deve essere appropriata, eseguita da specialisti (poco invasiva per ridurre la componente ematica, bilaterale per una migliore qualità);
  • il tessuto adiposo contiene 50-500 volte più MSC del midollo osseo;
  • la capacità immunomodulatoria dei prodotti cellulari derivati da tessuto adiposo hanno capacità immunomodulatoria superiore;
  • la qualità del tessuto adiposo presenta variabilità (ad esempio il tessuto adiposo delle persone obese è infiammato, inficiando sulle sue capacità rigenerative), ma non dall’età.

Prodotti ortobiologici ed edema osseo

Le infiltrazioni intra-ossee a livello delle bone marrow lesion risultano avere un’azione antinfiammatoria, stimolare il rimodellamento osseo e ripristinare l’omeostasi ossea, ma non sono trattamenti definitivi poiché la patologia di base è degenerativa. Anche se riduce i sintomi, migliorando la qualità della vita della persona, non consente di risolvere il problema. Peraltro, sono ancora pochi gli studi che ne hanno valutato l’efficacia.

Le opzioni terapeutiche per le iniezioni intraossee sono derivati piastrinici e derivati cellulari, ma da una metanalisi pubblicata su Cartilage nel 2021 risulta che i trial clinici che hanno indagato questa terapia sono soltanto 5 (3 sulle iniezioni intraossee di PRP, con varietà di tipi e quantità di derivati piastrinici; 2 su quelle di BMAC e 0 su quelle da derivati cellulari da tessuto adiposo). Sembra, inoltre, che il miglioramento degli outcome clinici sarebbero emersi indipendentemente dal tipo di iniezione intraossea.

Derivati piastrinici ed edema osseo

Si tratta delle terapie più indagate, anche se data la loro varietà occorreranno molti studi per individuare delle linee guida. Su e colleghi hanno indagato le iniezioni intraossee di PRP in 86 pazienti affetti da gonartrosi di II e III grado, divisi in 3 gruppi:

  • il gruppo A, sottoposto a iniezione intrarticolare e intraossea di 2 ml intrarticolari, 2 ml nel condilo femorale mediale e 2 ml nel piatto tibiale con 2 iniezioni a distanza di 2 settimane;
  • il gruppo B, sottoposto solo a intrarticolare di PRP (6 ml intrarticolare per 2 iniezioni a distanza di 2 settimane);
  • il gruppo C, sottoposto a iniezioni di acido ialuronico (2 ml intrarticolari con 5 iniezioni a cadenza settimanale).

A distanza di 18 mesi, i pazienti presentavano significativo miglioramento dei parametri clinici, ma non venivano valutati altri parametri. Invece, lo studio di Lychagin e colleghi del 2021, effettuato su 17 pazienti con gonartrosi sottoposti a iniezioni intraossee di 5 mL di PRP a livello della bone marrow lesion, ha considerato sia gli outcome clinici (VAS, WOMAC, KOOS), sia quelli sierologici (COMP), sia quelli radiologici (MRI a 12 mesi). Tutte le indagini hanno rivelato un miglioramento; il COMP risultava più alto, e gli autori consideravano che il suo aumento potrebbe essere un segno positivo di turnover cartilagineo.

Il più recente studio che indaga derivati piastrinici ed edema osseo, di Barman e colleghi, ha confrontato iniezione intrarticolare (8 mL PRP) e intrarticolare più intraossea (8 mL intrarticolare e 10 mL intraosseo) su 40 pazienti. Gli outcome clinici sono migliorati significativamente, ma senza differenze fra i campioni.

Prodotti cellulari ed edema osseo

Per quanto riguarda i prodotti contenenti cellule, lo studio di Centeno e colleghi ha confrontato un gruppo di 40 pazienti con iniezione intrarticolare e intraossea con uno di 47 pazienti sottoposti solo a infiltrazione intrarticolare, con un protocollo che prevedeva:

  • infiltrazione intrarticolare 2-5 giorni prima della procedura;
  • iniezione intrarticolare di 4-5 mL di BMC (75%), PL (12,5%) e PRP (12,5%) nel gruppo di studio;
  • iniezione intraossea di 2-3 mL di questo mix a entrambi i gruppi;
  • a distanza di 4 giorni dalla procedura, iniezione intrarticolare (4 mL di PRP concentrato 25%, PL concentrato 25%, doxiciclina 25%, 25% dexametasone).

I ricercatori hanno individuato un miglioramento significativo degli outcome clinici in entrambi i gruppi, anche se è difficile riprodurre e commentare un protocollo così articolato.

I prodotti cellulari da tessuto adiposo sono potenzialmente i più efficaci, anche se difficili da applicare in pazienti sportivi. Su questo tipo di prodotti ortobiologici nell’edema osseo, la Professoressa Mangiavini inizierà uno studio randomizzato controllato con l’obiettivo di valutare l’efficacia dei trattamenti rigenerativi e se esistono fattori predittivi nella risposta. Considerando diversi outcome e marker, confronterà gruppi sottoposti a:

  • infiltrazione intraossea e intrarticolare di BMAC;
  • infiltrazione intraossea e intrarticolare di SVF derivato da tessuto adiposo;
  • due gruppi di controllo con iniezioni intrarticolari di BMAC o di SVF.

Sappiamo che l’edema osseo è spesso presente nella gonoartrosi e si correla alla gravità e alla progressione. Le iniezioni intraossee sono promettenti, ma ci sono ancora pochissime evidenze scientifiche e manca una standardizzazione nella procedura. Per esempio, andrebbe valutato qual è l’effetto dell’iniezione intraossea di per sé, perché già andando a bucare l’osso a livello della lesione probabilmente stimoliamo un processo di rimodellamento osseo. Inoltre, manca negli studi più recenti la valutazione di outcome radiologici e anche di marker specifici, per esempio artrosici, di prodotti di degradazione del collagene o della matrice cartilaginea in generale.

 

Fonte: convegno BoneHealth 22 gennaio 2022

 

Il razionale dell’innesto osteocondrale

L’edema midollare dell’osso (anche edema osseo o bone marrow edema, BME) può condurre a diverse condizioni terminali che richiedono trattamenti. In occasione del convegno di BoneHealth del gennaio 2022 “Edema osseo del ginocchio: strategie terapeutiche“, Giacomo Stefani ha riassunto vantaggi e limiti dell’innesto osteocondrale, focalizzandosi in particolare sugli innesti di tessuto osteocondrale induttivo.

Giacomo Stefani è Responsabile dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia (Sezione II) dell’Istituto Clinico Città di Brescia e Dirigente Teaching Center nazionale SIAGASCOT per la chirurgia del ginocchio.

Trattamento degli esiti dell’edema osseo

Le condizioni terminali delle articolazioni con edema osseo si hanno, in genere, in pazienti che spesso hanno dolore a riposo ma soprattutto con carico e talvolta possono sviluppare osteonecrosi, con esiti molto negativi per la persona. Occorre quindi intervenire; i possibili trattamenti includono:

  • Rigenerazione tissutale;
  • Ricostruzione biologica;
  • Subcondroplastica;
  • Terapia protesica.

Per scegliere la terapia ottimale, occorre considerare diversi aspetti:

  • In primis, età del paziente: se più giovane, si propenderà per terapie riparative, mentre nell’anziano saranno preferibili le protesi;
  • Dimensione della zona necrotica;
  • Eventuali patologie associate, ad esempio in caso di artrosi che coinvolge tutto il ginocchio sarà più indicata una terapia sostitutiva;
  • Eventuale necessità di tempo di risoluzione dell’edema, in caso di trattamenti ricostruttivi.

 

Tipi di innesto osteocondrale

L’innesto osteocondrale ha come obiettivo quello di sostituire il tessuto danneggiato con materiali con caratteristiche strutturali e biologiche il più simili possibile a quelle fisiologiche. Nella zona danneggiata sono presenti cartilagine e osso, con profondità diversa, quindi si potranno usare:

  • Innesti osteocondrali autologi (o autograft);
  • Tecnica allograft (innesti di tessuti da donatore);
  • Innesto di tessuto osteocondrale induttivo, un materiale che ha la capacità di indurre la produzione di tessuto osteocondrale (opzione esistente da circa 13 anni).

 

Innesto osteocondrale autologo

L’innesto osteocondrale autologo, che consiste nel prelevare un innesto dal paziente stesso e trasferirlo in un’altra zona, era l’unico disponibile negli anni Novanta. La mosaicoplastica non consentiva di riempire adeguatamente le zone osteonecrotiche; quindi, si iniziò a prelevare un innesto osteocondrale dalla voluta posteriore del condilo per trasferirla anteriormente. Interventi complessi, anche perché occorreva muovere il paziente e fissare con fili di Kirschner, e che davano risultati poco efficaci.

 

Innesti allograft

Gli innesti allograft sono efficaci, ma si hanno 3 importanti problemi:

  • Il riassorbimento dei tessuti;
  • Trasmissione di alcune malattie;
  • Bassa disponibilità di questi sistemi.

Innesto di tessuto osteocondrale induttivo

Il tessuto osteocondrale induttivo, il MaioRegen, è un materiale modellabile per coprire la zona danneggiata, composto da 3 strati:

  • Quello superiore, il livello condrale, è costituito da collagene;
  • Quello intermedio, il tide-mark, è composto dal 60% di collagene e dal 40% di idrossiapatite;
  • Quello inferiore, la componente ossea (bone gradient), è al 30% collagene e al 70% idrossiapatite.

Quindi, presenta caratteristiche biologiche e strutturali simili a quelle di ossa e cartilagini del complesso osteocondrale. Inoltre, favorisce e guida una rigenerazione progressiva, portando a ricostituire una normale fisiologia dell’articolazione.

In fase chirurgica, si prepara un alloggiamento quadrangolare con profondità di 9 mm: occorre delicatezza per non danneggiare le strutture cartilaginee adiacenti ed è fondamentale che la profondità sia omogenea perché l’operazione riesca al meglio. Quindi, si ritaglia e si impianta MaioRegen, ad appoggiarsi sul tessuto spugnoso sfruttando una colla di fibrina per favorirne l’adesione e poi per fissarlo. Si adatta MaioRegen alla conformazione del sito per ripristinare la continuità anatomica, assicurandosi che lo scaffold sia irrorato, e con gli strumenti si effettuano delle verifiche per assicurarsi che non si dislochi.

 Abbiamo spesso una pastiglia osteocondrale, che magari è già distaccata oppure possiamo distaccare, che dà l’idea della perdita di sostanza, della profondità della lesione, di come dovremo andare a trattare la perdita.

Il tessuto spugnoso a contatto con lo scaffold fa passare all’interno del materiale cellule mesenchimali, portando alla ricolonizzazione della matrice ossea e di quella cartilaginea. Così, si hanno riassorbimento e rimodellamento.

Quando usare il tessuto osteocondrale induttivo?

L’innesto MaioRegen è ideale, perché presenta poche problematiche, ma solo in alcuni casi specifici è possibile sfruttare MaioRegen:

  • Il paziente dev’essere molto giovane, sotto i 55-60 anni;
  • L’edema osseo dev’essere risolto, perché è incompatibile con l’efficacia dello scaffold.

Quasi sempre, i pazienti sono anziani, con patologie associate che rendono gli esiti scarsi. Il gruppo del Dottor Stefani ha trattato 7 pazienti in 13 anni, con buoni esiti a distanza di 5 anni dall’operazione in 3 pazienti. I risultati sono brillanti nell’osteocondrite giovanile e nelle forme traumatiche, ma difficilmente in altri casi, soprattutto dove sono presenti edema osseo o patologie associate.

Da 5 anni non utilizziamo più questa tecnica perché ritengo che abbia molte limitazioni, quindi se capita un paziente con questo tipo di problematica dobbiamo risolverla in un altro modo.

Fonte: convegno BoneHealth 22 gennaio 2022

Un algoritmo per l’ipofosfatasia

L’Ipofosfatasia è una rara malattia metabolica caratterizzata dalla bassa attività dell’enzima fosfatasi alcalina tessuto non-specifico (TNSALP). Questa deficienza porta all’accumulo extracellulare dei suoi substrati pirofosfato inorganico (PPi), piridossal-5′-fosfato (PLP) e fosfoetanolammina (PEA) e di conseguenza a una carente mineralizzazione di ossa e denti.

Si tratta di una malattia sotto diagnosticata: è dovuta a un difetto nel gene ALPL che codifica per l’enzima TNSALP, ma spesso l’accumulo di fosfatasi alcalina (ALP) oltre i livelli soglia non viene investigato da un punto di vista clinico, anche perché non sempre è possibile eseguire test genetici.

Lo studio condotto da Tornero et al. e pubblicato sul Orphanet Journal of Rare Diseases propone un algoritmo che includa nei criteri diagnostici, oltre ai livelli di ALP, anche i livelli dei substrati di TNSALP siero piridossal-5′-fosfato-PLP e urinario fosfoetanolamina-PEA.

 

Lo studio

Lo studio ha coinvolto 77 pazienti con ipofosfatemia persistente, di cui 40 con singole varianti eterozigoti che causano malattie in ALPL (+GT), mentre 37 non presentavano queste varianti (-GT). Inoltre, nel gruppo +GT i livelli di ALP (IU/L) erano significativamente più bassi al basale e substrati (PLP e PEA), costantemente più alti rispetto al gruppo -GT, condizione che si è mantenuta invariata nel corso dello studio.

Per lo sviluppo predittivo del modello sono stati poi utilizzati i livelli mediani durante tutte le visite effettuate. Dallo studio è emerso che la soglia ottimale per l’ALP è di 25 UI/L; per PLP, 180 nmol/L e per PEA, 30 µmol/g di creatinina.

È stato osservato anche che in pazienti con varianti ALPL è presente maggiormente dolore cronico muscoloscheletrico e anormalità dentarie e che questi si associavano di frequente con livelli di ALP minori di 25 IU/L.

Inoltre, pazienti con mutazione ALPL presentavano livelli più bassi di ALP ma livelli più alti dei substrati biochimici presi in esame.

L’inclusione di tali substrati nell’algoritmo aumenta l’accuratezza di predizione della presenza di mutazioni. Di contro, aggiunta di sintomi clinici non migliora la prestazione dell’algoritmo.

Conclusioni

Tra i principali punti di forza da evidenziare di questo studio c’è il suo essere uno studio longitudinale prospettico, cosa che ha permesso di creare un algoritmo biochimico basato su dati più coerenti. Inoltre, esclude, per quanto possibile, cause secondarie di livelli di ALP persistentemente bassi e/o gli effetti dei multivitaminici integratori, che potrebbero alterare le misurazioni biochimiche. Sono state infine utilizzate tecniche di apprendimento automatico complementari ai metodi statistici standard.

Fra i limiti dello studio, invece, troviamo la piccola dimensione del campione, sebbene significativo per una malattia rara, i severi criteri di selezione che hanno escluso dal campione una larga fetta di popolazione e la necessità di una convalida su un numero di pazienti più elevato. È inoltre necessario creare un’adeguata fiducia in un modello tramite una valutazione esterna, prima che possa essere estrapolato ad altre popolazioni.

Tornero C, Navarro-Compán V, Buño A, Heath KE, Díaz-Almirón M, Balsa A, Tenorio JA, Quer J, Aguado P. Biochemical algorithm to identify individuals with ALPL variants among subjects with persistent hypophosphatasaemia. Orphanet J Rare Dis. 2022 Mar 3;17(1):98.

Perdita ossea dopo trapianto di rene

Dopo un trapianto di rene, la perdita ossea e in generale i disordini nel metabolismo osseo sono spesso causa di morbidità o anche di morte. Le malattie ossee post trapianto sono caratterizzate dal cambiamento nella densità ossea, cambiamento nella qualità ossea, cambiamento nel metabolismo dei minerali e in generale in una eziologia multifattoriale.

Il rischio di frattura risulta essere 4,8 volte più alto dopo il trapianto e il 30% più alto nei primi 3 anni. Da un precedente studio si è evinta una riduzione di attività ossea dopo 2 e 5 anni, cosa che suggerisce una riduzione della quantità ossea stessa.

Lo studio

Lo studio portoghese ha lo scopo di andare a valutare la correlazione fra risultati istomorfometrici di biopsie ossee di pazienti sottoposti a trapianto di rene e alcuni biomarcatori che recentemente sono stati associati in letteratura a disordini nel metabolismo osseo post-trapianto (CKD-MBD).

Studi effettuati su pazienti con malattie renali croniche hanno evidenziato una possibile correlazione fra CKD-MBD e biomarcatori facilmente misurabili nel plasma sanguigno. Uno di questi è la sclerostina, una glicoproteina espressa negli osteociti che promuove l’apoptosi degli osteoblasti tramite un meccanismo di inibizione del metabolismo cellulare. Il livello della concentrazione di questa proteina aumenta nei pazienti con malattie renali croniche e in pazienti dializzati e potrebbe essere un possibile indicatore di perdita ossea. La proteina Dickkopf-correlata 1 svolge una funzione centrale nello sviluppo e nella salute delle ossa e l’aumento della concentrazione sembra corrispondere a un aumento della massa trabecolare e corticale, secondo studi in vivo. Si sono inoltre seguiti come biomarcatori l’attivatore del recettore del fattore nucleare kappa- ligando Β (RANKL) e l’osteoprotegerina (OPG), la cui correlazione con l’istomorfometria ossea non è ancora ben compreso.

I risultati

Secondo lo studio, la concentrazione di sclerostina nei primi 12 mesi dopo il trapianto è diminuita, per poi aumentare nuovamente dopo 18 mesi.  Di contro la Dkk-1 si riduce dopo 18 mesi dal trapianto per poi rimanere stabile. Anche fra RANK e OPG è risultata esserci una relazione, con la prima che ha avuto un aumento significativo della concentrazione a 12, 18 e 24 mesi dopo il trapianto, mentre la seconda si riduce significativamente dopo 12 mesi dal trapianto. L’aumento della sclerostina nel plasma suggerisce l’inibizione della formazione di nuovo tessuto osseo e la diminuzione della concentrazione nei primi mesi potrebbe essere spiegata dall’aumento delle funzioni renali dovute al trapianto, per poi tornare ad aumentare per effetto engrafment. Altre ipotesi che sono state avanzate sono la presenza di disfunzione tubolare o il trattamento con glucocorticoidi. La contemporanea diminuzione dopo 18 mesi di Dkk-1 suggerisce un meccanismo compensatorio per cui l’inibizione di Dkk-1 aumenta la produzione di sclerostina e viceversa. Anche studi recenti sembrano andare verso la direzione di questo meccanismo. I dati suggeriscono inoltre che un aumento significativo dei livelli plasmatici del ligando RANK, accompagnato dalla significativa diminuzione della concentrazione del suo recettore esca OPG, un maggiore riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti, meccanismo mediato proprio dal ligando.

Fonte: Magalhães J, et al. J. Clin. Med. 2022