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Il rischio di osteoartrosi è correlato alla carenza di vitamina D e alla densità minerale ossea?

Hansaem Park e Clara Yongjoo Park hanno recentemente pubblicato uno studio in cui hanno analizzato il rischio di sviluppare osteoartrosi in relazione al livello sierico di vitamina D e alla densità minerale ossea (BMD). A questo scopo hanno attinto a dati trasversali di una banca dati statunitense, la NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey).

I ricercatori hanno classificato la salute ossea della popolazione studiata in base al T-score, la densitometria ossea. Il rischio di osteoartrite è stato valutato tramite regressione logistica. Dai risultati è emerso che il rischio di osteoartrite non era correlato alla BMD, mentre risultava più basso negli uomini con livelli insufficienti di vitamina D nel sangue. Non sono state riscontrate correlazioni tra il livello di vitamina D sierica e osteoartrosi nelle donne. Questi risultati, parzialmente in contrasto con studi precedenti, aprono interessanti interrogativi.

Osteoartrosi e vitamina D

La vitamina D3 (colecalciferolo o calcitriolo, nella sua forma biologicamente attiva) tra le sue azioni fisiologiche include la regolazione del metabolismo osseo. Per questo diversi studi, come quello di Felson e colleghi del 2007, hanno indagato l’associazione tra la sua carenza e l’insorgenza dell’osteoartrosi, un disturbo che consiste nella perdita di cartilagine e di osso sottostante (l’osso subcondrale). I risultati sono stati contrastanti.

Hansaem e Clara Y. Park hanno analizzato i dati del NHAMES raccolti sugli ultraquarantenni tra il 2007 e il 2010. Il campione includeva 2934 persone. Hanno considerato il livello sierico della forma attiva di vitamina D, il calcitriolo (25-idrossivitamina D o 25-OH-D3), dividendo la popolazione studiata in:

  • livello di 25-OH-D3 inferiore a 20 ng/mL, che mostra un’insufficienza;
  • livello di 25-OH-D3 uguale o superiore a 20 ng/mL.

I partecipanti della prima categoria risultavano avere un rischio più basso del 37% di osteoartrosi (con un intervallo di confidenza del 95%). Stratificando secondo il sesso, il rischio relativo (odds ratio) per gli uomini era 0,35, mentre per le donne non vi erano correlazioni statisticamente significative. Da questo studio, il rischio di sviluppare osteoartrosi risulta minore per gli uomini con carenza di calcitriolo. Il risultato, in contrasto con studi precedenti, mostra che potrebbe non esservi un legame tra l’assunzione di vitamina D e l’insorgenza di osteoartrosi.

Osteoartrosi e densità minerale ossea

Per indagare la possibilità che la BMD possa essere usata come predittore dell’insorgenza di osteoartrosi, gli studiosi hanno analizzato i dati di 5949 statunitensi raccolti dal NHANES tra il 2005 e il 2010 e tra il 2010 e il 2013. Hanno suddiviso la popolazione studiata per terzile di BMD e per mezzo del T-score, in base al quale li hanno distinti in tre categorie:

  • stato normale (T-score superiore a -1);
  • osteopenia (T-score compreso fra -1 e -2,5);
  • osteoporosi (T-score inferiore a -2,5).

Il rischio di osteoartrite non è risultato diverso a seconda del metodo di valutazione usato (terzile o T-score). In entrambi i casi la densità minerale ossea non è risultata correlata al rischio di osteoartrosi tra gli adulti statunitensi indagati. Anche questo risultato è in contrasto con studi precedenti, dai quali risulta che una BMD più alta sarebbe associata a una maggiore insorgenza di osteoartrosi.

 

Fonti

Park H, Park CY. Risk of Osteoarthritis is Positively Associated with Vitamin D Status, but Not Bone Mineral Density, in Older Adults in the United States. J Am Coll Nutr. 2021 May 25:1-9. doi: 10.1080/07315724.2020.1787907. Epub ahead of print. PMID: 34032559.

Hardcastle, S. A., Dieppe, P., Gregson, C. L., Davey Smith, G., & Tobias, J. H. (2015). Osteoarthritis and bone mineral density: are strong bones bad for joints?. BoneKEy reports, 4, 624. https://doi.org/10.1038/bonekey.2014.119

 

Osteoporosi e microbiota: il ruolo dei microRNA

Attraverso il microbiota potrebbe essere possibile controllare i microRNA (miRNA), che sono coinvolti nello sviluppo dell’osteoporosi. Negli ultimi anni, infatti, i miRNA sono emersi come biomarcatori per alcune patologie e da recenti ricerche sembra che potrebbero esserlo anche per l’osteoporosi. Indagare sul loro rapporto con la flora batterica e il rimodellamento osseo può essere importante per la prevenzione e il monitoraggio della malattia.

Osteoporosi, sistema immunitario e microbiota

Dal momento che l’osso è un tessuto plastico, soggetto a continuo rimodellamento, uno squilibrio nella sua regolazione porta a patologie. L’osteoporosi è dovuta a un eccessivo riassorbimento del tessuto osseo, a cui consegue una bassa densità minerale. Il sistema immunitario ha un ruolo fondamentale in questo processo, al punto che si parla di “osteoimmunologia” in riferimento al rapporto tra questo sistema e il rimodellamento osseo.

  • Le citochine infiammatorie, in particolare IL-1, IL-7 e TNFalfa, aumentano l’attività, l’attivazione e la sopravvivenza degli osteoclasti.
  • Le cellule T regolatorie riducono l’attività degli osteoclasti e controllano la produzione delle citochine.
  • Le cellule T helper 17 sono correlate alla perdita di densità ossea in menopausa.

Nel 2015, Ohlsson e Sjörgen hanno coniato anche il termine “osteomicrobiologia” per definire il rapporto funzionale tra ossa e microbiota, i migliaia di miliardi di microrganismi con cui abbiamo un rapporto di simbiosi mutualistica. In effetti, l’alterazione della composizione della flora batterica, soprattutto a livello intestinale, è correlata a diversi disturbi. Tra questi vi è l’osteoporosi, poiché il microbiota regola anche il rimodellamento osseo, tramite diversi meccanismi:

  • migliora l’assorbimento del calcio a livello intestinale;
  • aumenta la biodisponibilità di estrogeni;
  • favorisce l’azione della vitamina D;
  • modula le risposte immunitarie e il metabolismo osseo influendo sull’espressione dei miRNA.

Il ruolo dei microRNA nell’osteoporosi

I microRNA (o miRNA) sono sequenze lunghe 18-25 nucleotidi di RNA non codificante che regolano l’espressione genica. Legandosi a un mRNA target, infatti, ne provocano la repressione e/o la degradazione. Sono coinvolti in diverse patologie, come alcuni tipi di cancro, in cui potrebbero essere utilizzate come biomarcatori.

Nella crescita ossea i microRNA hanno un ruolo essenziale, poiché agiscono su geni coinvolti nel metabolismo osseo e in particolare in:

  • riassorbimento osseo;
  • mineralizzazione della matrice ossea;
  • metabolismo dello ione calcio;
  • differenziamento del tessuto osseo.

Per questo, come dimostrano numerosi studi sperimentali, i miRNA sono coinvolti anche nell’insorgenza dell’osteoporosi. La capacità del microbiota intestinale di intervenire nell’espressione dei miRNA sembra avere un ruolo in questo meccanismo. Alcuni esempi:

  • i batteri del genere Firmicutes, che aumentano significativamente nei pazienti con osteoporosi, da alcuni studi risultano modificare l’espressione di miRNA associati alla patologia, come miR-21;
  • la somministrazione di Klebsiella pneumoniae sembra comportare un aumento della produzione di miR-223/142, presente anche in alcuni soggetti con osteoporosi;
  • i generi Escherichia e Shigella possono modificare miRNA coinvolti nell’insorgenza di osteoporosi e sono più abbondanti in persone con osteopenia;
  • Lactobacillus acidophilus e Bifidobacterium bifidum influenzano l’espressione di alcuni miRNA associati all’insorgenza di osteoporosi in modelli animali.

In letteratura sono presenti anche studi contrastanti con questi risultati, dunque sarebbe bene approfondire le indagini.

Conclusioni

Grazie a questi risultati si aprono due prospettive interessanti.

  • Come riportato in alcune ricerche, i miRNA potrebbero essere usati come marcatori prognostici o diagnostici per l’osteoporosi. Risultano essere potenziali biomarcatori già per altre patologie, ad esempio alcuni tipi di cancro.
  • Poiché il microbiota influenza l’espressione di miRNA coinvolti nello sviluppo di osteoporosi, agire sulla flora batterica potrebbe costituire un’ottima prospettiva per il trattamento di questa malattia. Ad esempio, la cura dell’alimentazione, l’uso di probiotici e una maggiore cautela nell’uso di antibiotici potrebbero costituire un approccio a basso costo e più semplice di quanto sarebbe agire direttamente sulla regolazione dell’espressione genica, ad esempio attraverso i farmaci epigenetici.

Fonte: De Martinis M, Ginaldi L, Allegra A, Sirufo MM, Pioggia G, Tonacci A, Gangemi S. The Osteoporosis/Microbiota Linkage: The Role of miRNA. Int. J. Mol. Sci. 2020 Oct 21(23), 8887. doi: 10.3390/ijms21238887.

 

Agli over 60 interessa la salute delle proprio apparato muscolo-scheletrico

Una vera fonte di ispirazione per tutti: energici, pieni di vita e desiderosi di fare progetti. A oltre un anno dall’inizio di una pandemia che li ha visti al centro dell’attenzione, gli italiani over 60 si dimostrano resilienti, soddisfatti per la vita vissuta ma anche con tanta voglia di realizzare nuovi sogni. Per gli over 60 l’attuale fase della vita è ancora ricca di possibilità e foriera di gratificazioni: ​4 intervistati su 5 dichiarano di avere intenzione di vivere la propria vita appieno, e per più di metà si presenta l’occasione di fare quello che non si ha ancora avuto la possibilità di fare o di stabilire nuovi progetti e obiettivi per il futuro. Con una mente dinamica e piena di ottimismo sono comunque consapevoli della necessità di prestare più cura al proprio stato fisico e quindi a muscoli e articolazioni che risultano essere le aree maggiormente problematiche, anche e soprattutto attraverso il movimento fisico e l’uso di integratori alimentari per “ricaricarsi” di energia.

Questi, alcuni dei risultati della ricerca realizzata da Doxa Pharma per Nutricia Fortifit che ha voluto tratteggiare il profilo dell’universo 60+ e dei segmenti che lo compongono, rispetto a variabili sociodemografiche, comportamentali e di atteggiamento.

Una vita intensa e con solidi punti di riferimento quella dei “silver italiani” che ritrovano nelle relazioni familiari (per il 62%) e di coppia (per il 49%) gli aspetti portanti del percorso di vita, sia in termini di impegno dedicato, sia in termini di soddisfazione generata. La percentuale aumenta tra chi si prende cura dei nipoti (sale all’82% per le relazioni familiari). Complessivamente, 3 persone su 4 si dichiarano soddisfatte del proprio percorso di vita.​ Il passare degli anni viene vissuto con una attitudine positiva: per larga parte del campione con il passare degli anni si apprezza di più tutto ciò che si ha (83%) e si abbandonano i pensieri negativi per concentrarsi sugli aspetti positivi e gratificanti della vita (81%).

In questa fase della vita, 8 senior su 10 dichiarano di aver voglia di godersi la vita al massimo delle proprie possibilità e il 52% si dice pronto ad aprirsi a nuove esperienze.

Le aree in cui si concentra progettualità sono la salute e i viaggi, ambiti da riconsiderare o riscoprire, ​le le relazioni familiari / di coppia, verso le quali preservare l’impegno già profuso in passato.​

Ben il 71% del campione dichiara di pensare ai progetti da realizzare in futuro. La percentuale aumenta tra chi è soddisfatto del proprio stato di salute.  Un tema molto attenzionato risulta essere quello della prevenzione dello stato di salute che viene ricondotto soprattutto alla volontà di mantenersi “attivi e dinamici” e quindi alla consapevolezza dell’importanza del movimento che cresce con l’aumentare dell’età.

Nel complesso 2 ultrasessantenni su 3 si dichiarano in “buona salute” con una percezione che varia soprattutto in funzione dell’età.

Lo stato mentale è l’aspetto della salute più soddisfacente per gli intervistati, ben l’85% dei rispondenti ritiene di avere ottima memoria e concentrazione. ​Chi gode di buona salute tende a mantenere il proprio benessere, oltre che attraverso controlli regolari (56%), con attività fisica e alimentazione (52%). Le aree più “problematiche” risultano essere quelle fisiche con una concentrazione più alta per muscoli (51%) e articolazioni (49%)

I rimedi più utilizzati per far fronte ai problemi di salute vissuti di recente sono integratori e farmaci.  I farmaci sono utilizzati maggiormente per i sintomi fisici (per il 33% del campione), come i dolori osteo-articolari, gli integratori rispondono invece meglio al bisogno di ricaricarsi o anche a problematiche muscolari (36% del campione).

“La fisiologica perdita di massa muscolare correlata all’età può avere un impatto sulla qualità della vita portando a minore agilità nei movimenti, maggiore stanchezza fisica, ma anche un maggior rischio di cadute e conseguenti fratture. Per favorire un invecchiamento qualitativamente migliore abbiamo sviluppato 3 prodotti che rispondono a specifiche esigenze/aree di disagio individuate: FortiFit muscoli e articolazioni (agilità di movimento), FortiFit muscoli ed energia (stanchezza fisica), FortiFit muscoli e ossa (rischio di cadute correlate ad instabilità posturale e debolezza muscolare). Tutti e tre i prodotti contengono sieroproteine che vantano caratteristiche specifiche rispetto alle altre fonti proteiche. Le sieroproteine sono a rapido assorbimento quindi subito disponibili per la sintesi proteica. Inoltre, apportano aminoacidi essenziali e ramificati fra cui la leucina. Gli aminoacidi essenziali non possono essere sintetizzati dal nostro organismo e quindi è importante averne un adeguato apporto con la dieta. Fra gli aminoacidi ramificati è in particolare la leucina a contribuire al mantenimento e alla crescita della massa muscolare” spiega Fabio Battaini, Medical&Scientific Affairs Director Danone Nutricia S.p.A. Società Benefit

L’atteggiamento positivo e ricco di progettualità che i senior manifestano si riflette anche sulla convinzione di poter fare ancora molto per mantenere o migliorare il proprio stato di salute, riscontrata in quasi 2/3 dei casi.​

“Attraverso una lettura di questi risultati è possibile percepire come, nel tempo, sia cambiato il concetto di “terza età”. Oggi parliamo di “healthy aging”, un concetto molto ampio che parte da un’attitudine a curare la propria salute, molto più che in passato, anche attraverso la prevenzione. Mai come adesso ci siamo resi conto che è fondamentale poter e saper invecchiare bene. Non solo è importante ma è anche un obiettivo raggiungibile con la giusta dose di consapevolezza e determinazione” conclude Andrea Parachini, Client Director di Doxapharma.

 

Quanto si sa sull’osteonecrosi dei mascellari legata ai bisfosfonati?

L’osteonecrosi dei mascellari legata a terapie che prevedono la somministrazione di bisfosfonati per via orale o intravenosa (medication-related osteonecrosis of jaws, MRONJ) è un evento avverso caratterizzato dall’esposizione delle ossa dovuta a deterioramento della regione maxillofacciale. Sebbene la sua incidenza sia tutto sommato non elevata, i pazienti colpiti da questa condizione soffrono di un peggioramento della qualità della vita piuttosto considerevole.

Uno studio condotto dal gruppo di El-Ma’aita ha permesso di focalizzare l’attenzione sulla reale conoscenza di questa malattia da parte dei pazienti e degli specialisti coinvolti nel team multidisciplinare, svelando come le conoscenze dei partecipanti fossero sorprendentemente alquanto limitate.

Le domande giuste su osteonecrosi e bisfosfonati

Per capire quale fosse il grado di conoscenza sui i temi che ruotano intorno alla MRONJ, il gruppo di ricerca ha stilato un questionario per valutare non soltanto la loro consapevolezza sulla possibilità di sviluppare la malattia ma anche per capire se avessero avuto un appropriato esame odontoiatrico prima di sottoporsi alla terapia con bisfosfonati.

I pazienti che hanno accettato di sottoporsi al questionario sono stati 110, tra cui 84 donne e 26 uomini con un’età compresa tra i 40 e i 78 anni.

Una patologia molto temuta ma che pochi conoscono

L’analisi dei risultati del test ha mostrato come solo il 12,4% (ovvero 15 intervistati) era effettivamente consapevole del rischio di incorrere in una patologia come la MRONJ.

La cosa più sorprendente risiede nel fatto che soltanto 5 di loro (ovvero il 33%) ha ricevuto informazioni dettagliate dal proprio medico curante. La restante parte, infatti, ha affermato di aver recuperato informazioni per conto proprio (6,7%) o tramite altre fonti di informazione (20%) oppure tramite un colloquio con il proprio dentista (40%).

Da notare come solo 6 pazienti (il 5% degli intervistati) è stato indirizzato verso un esame odontoiatrico prima di iniziare il trattamento con bisfosfonati.

Poca informazione legata ad una bassa cooperazione

Lo studio condotto dal gruppo di El-Ma’aita dimostra quindi come siano poco diffuse le conoscenze sulle conseguenze che possono avere le terapie con bisfosfonati (quali ad esempio l’osteonecrosi del mascellari), con solo una piccola parte degli intervistati che afferma di conoscere la patologia.

Ancora più allarmante è invece la percentuale di quelli che è venuto a conoscenza della malattia tramite un confronto con lo specialista (circa un terzo degli intervistati) che denota non solo una scarsa qualità del rapporto medico-paziente ma anche una migliore preparazione del dentista per quanto riguarda questo ambito.

Da studi precedenti emerge infatti che in molti Paesi, la maggior parte dei medici non è consapevole del rischio di MRONJ a cui va incontro il paziente quando viene sottoposto a bisfosfonati (siano essi orali o intravenosi) ed è stato dimostrato come la mancata informazione dei pazienti derivi in realtà da una mancata informazione del medico in prima istanza.

Alla luce di questi dati, appare dunque chiaro come sia ancora più importate porre l’accento sulla cooperazione tra le varie figure del team multidisciplinare (specialista e dentista in primo luogo) per migliorare il risultato del percorso terapeutico del paziente in cura, indirizzandolo verso un trattamento preventivo del cavo orale che riduca o annulli del tutto il rischio di incorrere in malattie come la MRONJ, che spesso impattano pesantemente sulla qualità della vita quando sono in cura con bisfosfonati.

Fonte: El-Ma’aita A, Da’as N, Al-Hattab M, Hassona Y, Al-Rabab’ah M, Al-Kayed MA. Awareness of the risk of developing medication-related osteonecrosis of the jaw among bisphosphonate users. J Int Med Res. 2020 Sep;48(9):300060520955066. doi: 10.1177/0300060520955066. PMID: 32924697; PMCID: PMC7493245.

 

Celiachia e osteoporosi

Un gruppo di ricercatori guidato da D.R. Duerksen ha condotto uno studio che ha messo in luce la correlazione tra l’incidenza di fratture per osteoporosi e la presenza di una malattia debilitante come la celiachia, cercando di capire allo stesso tempo se tale rischio potesse essere previsto dalla metodica FRAX.

La celiachia è una malattia che coinvolge il tratto intestinale, inducendo una risposta infiammatoria molto grave che nel tempo porta all’insorgenza di malassorbimento. In questo contesto, molti nutrienti fondamentali per la salute dell’osso, come la vitamina D e il calcio, possono venire a mancare e compromettere l’omeostasi ossea.

Uno studio statistico sulla popolazione canadese

Nel corso dello studio, che ha esaminato i dati di persone la cui età fosse di almeno 40 anni e che fossero stati registrati all’interno del Manitoba Bone Mineral Density Database, sono stati seguiti 693 pazienti positivi allo screening per la celiachia per circa 7 anni e sono stati poi confrontati con i dati ricavati dalla popolazione generale (quasi settantamila individui non celiaci).

Su entrambi i gruppi è stata applicata la metodica FRAX per calcolare il rischio di frattura dell’anca, che si è rivelata essere molto utile per prevedere l’incidenza dell’evento fratturativo.

Il rischio di frattura per osteoporosi è aumentato nei pazienti celiaci

Nel corso dell’analisi statistica dei dati calcolati tramite l’algoritmo FRAX, la presenza della celiachia è stata associata ad un aumentato rischio di subire un evento fratturativo (1,11–1,86 con HR a 1,43, IC 95%).

L’individuazione di questi dati risulta essere molto importante nella pratica clinica. Le ultime linee guide nel campo dell’osteoporosi suggeriscono di utilizzare il punteggio FRAX per stimare il rischio di frattura nei pazienti affetti da fragilità ossea mediante l’integrazione di diversi criteri, tra i quali non viene però ancora considerata la celiachia.

Un nuovo criterio per la FRAX

Alla luce di questo studio, uno dei primi nel suo genere, è evidente come l’inclusione della celiachia nella metodica FRAX, insieme anche ad altri fattori (quali ad esempio il BMD), risulterebbe essere un passo avanti molto importante nella prevenzione delle fratture di tipo osteoporotico.

La sua integrazione permetterebbe infatti di effettuare una stratificazione dei pazienti molto più accurata e, di conseguenza, aumenterebbe in maniera considerevole la già acclarata utilità di questo utile strumento diagnostico.

Fonte: Duerksen DR, Lix LM, Johansson H, McCloskey EV, Harvey NC, Kanis JA, Leslie WD. Fracture risk assessment in celiac disease: a registry-based cohort study. Osteoporos Int. 2021 Jan;32(1):93-99. doi: 10.1007/s00198-020-05579-7. Epub 2020 Aug 3. PMID: 32748311.

La salute dell’osso e l’equilibrio tra modeling e remodeling

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La fisiologia del modeling e del remodeling osseo, per via della sua complessità e per l’importanza che ricopre nel metabolismo osseo, è una tematica che ancora oggi viene studiata e approfondita da molti centri di ricerca sparsi nel mondo.

Alessandro Rubinacci, medico del dipartimento di ortopedia del San Raffaele di Milano, nel suo intervento avvenuto durante il convegno organizzato da BoneHealth ha evidenziato in maniera molto dettagliata le funzioni degli osteoblasti e degli osteoclasti, illustrando nuovi e interessanti spunti di riflessione sui ruoli ricoperti da questi e altri protagonisti del turnover osseo.

Le differenze tra il modeling e il remodeling

Modeling e remodeling osseo si differenziano non solo nei meccanismi molecolari ma anche nelle funzioni che ricoprono. Mentre il modeling ha come obiettivo quello di adattare la struttura delle ossa alle sollecitazioni meccaniche indotte dall’età e dalla crescita dell’organismo, il remodeling permette di sostituire il tessuto osseo danneggiato o invecchiato con uno nuovo, senza che venga cambiata la superfice interessata.

Alla base del modeling osseo abbiamo un processo definito “drift”, il quale permette di ripristinare la forma delle ossa grazie a un “movimento” dell’osso stesso, anche quando sono state sollecitate da una forza importante. Il meccanismo di remodeling, al contrario, necessita della formazione di una struttura, chiamata “cutting cone”, nella quale diversi tipi cellulari devono attivare determinati meccanismi molecolari in un tempo e uno spazio ben determinato.

Molte sono le differenze che distinguono il modeling dal remodeling (ad esempio il sito di azione e la tipologia della superfice interessata) ma la più importante riguarda l’attività che contraddistingue i due processi. Infatti, mentre il modeling è definito come un processo continuo e diminuisce nel corso della vita (tranne che in determinate circostanze, come ad esempio in caso di fratture) il remodeling è un processo sporadico e asincronico.

Remodeling: tra coupling e balance

Quando si parla di remodeling osseo è importante fare riferimento a due meccanismi fondamentali del processo. Il primo è il “coupling”, nel quale i prodotti del riassorbimento, insieme agli osteoclasti e ad altre cellule, possono influenzare il reclutamento degli osteoblasti e favorire la loro maturazione (formando così nuovo tessuto osseo).

L’altro meccanismo è il “balance”, termine con il quale ci si riferisce alla quantità di tessuto riassorbito e sintetizzato nel sito interessato. Questo “bilancio” può essere neutrale (nessuna perdita di tessuto osseo) oppure negativa, poiché è avvenuta una perdita di tessuto osseo dovuta all’azione degli osteoclasti coinvolti nel processo.

Alla luce di quanto detto, è bene ricordare che il rimodellamento non deve essere confuso con il turnover. Il primo rappresenta un processo nel quale osteoclasti e osteoblasti lavorano in simultanea sulla medesima superficie ossea, il secondo è invece l’evento derivato dalla quantità di tessuto rimosso o sintetizzato nelle frazioni interessate dal rimodellamento (che determina quindi la perdita o il mantenimento della quantità di osso).

Il regolatore cardine del rimodellamento osseo: l’osteocita

L’osteocita presente nel tessuto osseo ha la capacità di rilasciare una certa quantità di molecole utili alla regolazione del remodeling. Tra questi ritroviamo OPG, il quale possiede una forte affinità per RANKL e impedisce l’attivazione degli osteoclasti, oltre a SOST e DDK1, che permettono l’attivazione del pathway di WNT e garantiscono la maturazione degli osteoblasti.

Recentemente si è visto come il verificarsi di microfratture stimolino segnali diversi che regolano finemente il meccanismo di remodeling. L’apoptosi dell’osteocita dopo microfrattura è una tappa fondamentale in questo processo, in quanto permette il rilascio di ATP che, dopo aver interagito con il recettore P2Y2 presente sugli altri osteociti limitrofi, induce in queste cellule la produzione di RANKL e la conseguente attivazione degli osteoclasti.

Da ricordare come in questo contesto vengono anche prodotti i fattori angiogenici, come VEGF e bFGF, e tutta una serie di molecole che pro-infiammatorie (TNF-α, IL-6 e IL-1) che aumentano ulteriormente la produzione di RANKL e richiamano i monociti. In questo microambiente ricco di RANKL, essi possono differenziarsi in osteoclasti e contribuire alla formazione di una architettura complessa.

Le Bone Remodeling Compartment, un santuario del remodeling

Queste strutture sono composte da osteoclasti e osteoblasti che regolano il riassorbimento e la neoformazione ossea e che oggi sono state definite meglio col nome di Bone Remodeling Compartment (BRC).

In questo ambiente altamente vascolarizzato, contornato dalle Bone Lining Cells (BLCs), osteoclasti e osteoblasti comunicano tra loro (direttamente o indirettamente) per completare la rimozione e la sintesi di nuovo tessuto osseo.

Mentre gli osteoclasti derivano dalla differenziazione dei monociti, gli osteoblasti derivano dai periciti che si trovano nel midollo osseo. Essi possiedono un potenziale osteogenico e possono muoversi verso la sede della frattura e agire da protagonisti nel processo del remodeling.

Un’altra zona di origine degli osteoblasti è rappresentata dalle cellule della calotta (in inglese “canopy”). Queste strutture, costituite da BLCs, se interessate dall’azione degli osteoclasti possono differenziarsi in osteoblasti oppure in cellule di inversione (reversal cells, RvCs) e andare a costituire la superficie di inversione (reversal surface) prima di differenziarsi in osteoblasti se le condizioni lo consentono.

È importante far notare come l’alterazione di queste condizioni possa favorire o impedire la formazione degli osteoblasti, provocando uno squilibrio nel remodeling. Si è visto come l’uso di particolari farmaci (ad esempio l’uso di glucocorticoidi o di alendronato) o specifiche condizioni cliniche (mieloma oppure osteoporosi post menopausa) possano influenzare negativamente le cellule della calotta, impendendo il differenziamento delle BLCs o delle RvCs in osteoblasti.

Anche la matrice extracellulare dell’osso partecipa alla formazione di osteoblasti. È stato infatti dimostrato come le cellule stromali del midollo osseo (bone marrow stromal cells, BMSCs) possano sintetizzare una piccola quantità di TGF-β1 in forma inattiva nella matrice extracellulare. Questo fattore viene poi convertito nella sua forma attiva grazie all’azione della catepsina e delle metalloproteasi degli osteoclasti e indirizzare altre cellule BMSC verso il sito di riassorbimento, dove maturerà in un osteoblasto grazie alla presenza di fattori come IGF-1 e Wnt1.

Il “nuovo” ruolo anabolico dell’osteoclasta

Nel corso degli anni, alcune condizioni patologiche e studi mirati hanno suggerito un ruolo anabolico importante ricoperto dall’osteoclasta, tanto che oggigiorno si parta sempre di più di osteoclasti anabolici.

In effetti, in particolari condizioni, l’osteoclasta possiede la capacità di “impacchettare” le proteine RANK e fare in modo che esse si leghino ai loro ligandi (RANKL) in determinate posizioni sugli osteoblasti, favorendone il potere osteogenico e consentendo la neoformazione ossea. Ulteriori studi sono tuttavia necessari per approfondire e definire meglio questo interessante processo.

 

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

Osteoporosi nel paziente oncologico

Il paziente oncologico, a causa dei trattamenti a cui è sottoposto, è molte volte interessato anche da complicanze dovute all’insorgenza di una spiccata fragilità ossea. Durante il convegno di BoneHealth, il responsabile scientifico Gregorio Guabello, specialista in endocrinologia dell’Unità Operativa di Endocrinologia e Diabetologia dell’Ospedale San Raffaele e medico dell’Unità Operativa di Reumatologia dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, ha voluto prendere la parola per focalizzare l’attenzione su questo particolare contesto, il quale sta interessando sempre più pazienti oncologici non metastatici.

Gregorio Guabello
Gregorio Guabello

Osteoporosi nel paziente oncologico: Linee Guida ASCO

Nelle ultime Linee Guida ASCO viene specificato come i pazienti non metastatici abbiano delle problematiche legate all’osteoporosi. È necessario quindi fare attenzione al tipo di cure che vengono somministrate (soprattutto nel caso in cui abbassino i livelli ormonali) in quanto è stato visto come queste accentuino il rischio di insorgenza della patologia.

Dalle analisi fatte in diversi studi, si è notato come i pazienti più a rischio di incorrere in questa complicazione risultino essere:

  • Donne (anche giovani) che si sottopongono ad un trattamento per il carcinoma ovarico
  • Pazienti trattati con farmaci inibitori dell’aromatasi
  • Pazienti che hanno subito un trapianto di midollo osseo
  • Pazienti trattati con farmaci che diminuiscono i livelli di ormoni androgenici
  • Pazienti trattati con agonisti di GnRH

Nel primo e nell’ultimo caso si è visto che la diminuzione del BMD risulta essere particolarmente marcata, fino ad arrivare a più del 7% entro il primo anno dall’inizio della terapia. Questa condizione si verifica per via di un aumento dell’attività degli osteoclasti, dovuta principalmente all’aumento di RANKL legato alla diminuzione degli estrogeni.

I motivi dietro il peggioramento della densità ossea

La chemioterapia ha un effetto tossico sulle cellule ossee, in quanto farmaci come il metotrexato, la doxorubicina e il cisplatino riducono i livelli dei precursori degli osteoblasti nell’organismo, mentre i farmaci steroidei (come il cortisone) solitamente associati alla chemioterapia aumentano i livelli degli osteoclasti. Inoltre, i farmaci alchilanti (ad es. la ciclofosfamide) spesso inducono una diminuzione della funzionalità ovarica, specialmente nelle pazienti con un’età superiore ai 40 anni.

Gli inibitori dell’aromatasi, invece, contribuiscono ad azzerare la quota fisiologica di estrogeni presenti nelle donne post-menopausa, esponendole ad un rischio maggiore di osteoporosi.

I pazienti che devono subire ad un trapianto non soltanto presentano dei fattori di rischio di insorgenza dell’osteoporosi prima di sottoporsi all’operazione (come ad es. l’età avanzata oppure l’ipogonadismo) ma anche successivamente all’intervento sono presenti delle condizioni che facilitano il verificarsi di fratture dovute a fragilità ossea. Tra queste, va ricordato il rigetto del trapianto, l’insufficienza di vitamina D e calcio (che porta a iperparatiroidismo secondario) e disfunzione renale (dovuta a chemioterapia successiva) con conseguente perdita di magnesio e calcio.

Per contrastare la carenza di densità ossea indotta dalla chemioterapia, l’unico farmaco per il quale sono presenti studi che hanno raggiunto tutti gli end-point previsti (ovvero dati sul BMD, sulle fratture e sulla sopravvivenza libera da malattia) è il denosumab, che ha mostrato un miglioramento delle condizioni dei candidati dello studio e un effetto protettivo nei confronti delle fratture. È inoltre l’unico farmaco attualmente indicato in adiuvante per i pazienti con cancro alla prostata.

Come e quando iniziare la terapia antiriassorbitiva?

Nella scelta dell’approccio terapeutico per la terapia antiriassorbitiva è necessario fare sempre riferimento alle linee guida redatte dall’AIOM, dove recentemente è stata inserita una sezione apposita per la prevenzione e la dell’osteoporosi nel paziente oncologico. È da notare tuttavia che risulta essere fonte di confusione l’inserimento di questa sezione nel capitolo dedicato al paziente con metastasi tumorali.

Le raccomandazioni suggerisco di iniziare un trattamento con denosumab o un bisfosfonato orale, il cui dosaggio si rifaccia a quelle normalmente utilizzate nell’osteoporosi post-menopausa indipendentemente dai livelli di BMD. Fondamentale è la tempistica della somministrazione delle cure, che andrebbero applicate da subito, in quanto si è visto che gli effetti collaterali della chemioterapia si manifestano già entro 6 mesi dalla prima somministrazione.

La terapia farmacologica deve andare di pari passo con la chemioterapia, e quindi se il trattamento farmacologico raggiunge anche i 10 anni nella paziente con carcinoma alla mammella, anche il trattamento di prevenzione della fragilità ossea dovrà prevedere un periodo temporale simile.

Tuttavia, quando la terapia oncologica viene sospesa, è necessario fare una valutazione delle condizioni della donna dal punto di vista della massa ossea prima di procedere con l’abbassamento delle dosi dei farmaci antiriassorbitivi.

Le “insidie” della nota 79

La revisione delle linee guida prevista dalla nota 79 ha consentito di iniziare il trattamento di prevenzione nelle pazienti con più di 50 anni con alto rischio di frattura e sotto trattamento oncologico. C’è da dire però che la stessa nota afferma che ciò può essere fatto in quei pazienti con trattamento in corso per il blocco ormonale adiuvante, indicazione che spesso crea confusione.

Nella pratica clinica, afferma il dottor Guabello, si assiste infatti alla presenza di pazienti in premenopausa con carcinoma negativo per i recettori ormonali la cui menopausa viene indotta dal trattamento chemioterapeutico. Questa tipologia di pazienti, nonostante non rientri nella nota 79, deve ricevere da subito un trattamento antiriassorbitivo (con alendronato o zoledronato), in quanto sono a rischio di frattura dovuta a fragilità ossea.

 

Fonte

Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

 

Uno sguardo al presente e al futuro delle terapie osteo-metaboliche

Il primo congresso di BoneHealth, accolto con un grande successo come dimostrano sia il numero di iscritti (più di 3500) che le personalità coinvolte nel corso dell’evento, ha visto Gherardo Mazziotti dare il suo importante contributo sull’attuale gamma di terapie osteo-metaboliche somministrate ai pazienti affetti da fragilità ossea e sull’importanza di una diagnosi precoce eseguita con i giusti algoritmi clinici.

Terapie osteo-metaboliche: un vasto arsenale a cui attingere

I farmaci anti-osteoporotici sono una classe di farmaci molto importante, che agisce su quella che viene definita come fase cellulare del rimodellamento scheletrico e accoglie due diverse categorie di farmaci:

  • I farmaci anti-riassorbitivi, che agiscono principalmente sugli osteoclasti, andando ad inibirne l’attività
  • I farmaci anabolici, che agiscono sull’osteoblastogenesi e sulla neoformazione ossea

I bisfosfonati, principali farmaci anti-riassorbitivi, possiedono alcune caratteristiche uniche. Sono infatti analoghi del pirofosfato e si legano alla matrice minerale ossea, permettendo al farmaco di rimanere in sede per lungo tempo.

Inoltre, in quanto analoghi del pirofosfato, i bisfosfonati semplici mirano ad accumulare analoghi dell’ATP che sono tossici per gli osteoclasti e ne riducono la popolazione. In modo simile, i bisfosfonati contenenti azoto (come, ad esempio, il zoledronato) agiscono sul pathway molecolare che coinvolge la proteina RAS, innescando l’apoptosi dell’osteoclasta.

Denosumab è invece un anticorpo monoclonale umanizzato appartenente alla classe di farmaci anti-riassorbitivi. È più specifico dei bisfosfonati e agisce a livello molecolare andando ad inibire il ligando di RANK (RANKL), bloccando il processo di osteoclastogenesi.

Da notare che l’azione di questo farmaco è molto rapida e potente rispetto ai bisfosfonati), ma transitoria, rendendolo facilmente gestibile nella pratica clinica. Questa caratteristica è però anche un punto debole, specialmente se confrontato con i bisfosfonati orali, i quali mantengono un effetto protettivo nei confronti delle fratture ossee dovute a diminuzione della densità minerale ossea (bone mineral density, BMD) per molto più tempo rispetto al denosumab (addirittura per anni).

Tra i farmaci anabolici possiamo ricordare il Teriparatide e l’Abaloparatide, due analoghi del paratormone, che stimolano la neoformazione ossea inducendo la proliferazione degli osteoblasti. Anche il Romosozumab, anticorpo monoclonale specifico per la sclerostina prodotto dagli osteociti, contribuisce ad incrementare la formazione di nuovo tessuto osseo, inibendo al contempo il suo riassorbimento.

Le biforcazioni della prevenzione primaria

Nell’approccio terapeutico per il trattamento delle patologie dell’osso come l’osteoporosi le strategie di prevenzione si dividono in una prevenzione primaria e secondaria.

La prevenzione primaria, a sua volta, si divide in un approccio BMD-dipendente (che valuta le variazioni della massa ossea tramite esame DEXA) e BMD-indipendente. L’applicazione di algoritmi sempre più elaborati permette ormai di scegliere la strategia migliore per intraprendere il corretto trattamento terapeutico, sebbene l’entrata in vigore della nota 79 emanata dall’AIFA abbia permesso di semplificare ulteriormente questo momento cruciale.

La nota 79: un faro nella nebbia della diagnosi precoce

La nota 79, infatti, aiuta a discernere quelle che sono i pazienti che potrebbero andare incontro a frattura a causa di un abbassamento della loro BMD (caratterizzati da un T-score pari o inferiore a -4 o un T-score di -3 ma in cui sono presenti altre importanti comorbidità) oppure dipendente da un trattamento farmacologico per via di altre patologie in corso (quando trattati ad esempio con prednisone o sono somministrati farmaci che provocano un blocco ormonale).

La prevenzione secondaria e lo stretto legame tra analisi clinica e radiologica

Nella prevenzione secondaria viene invece valutato il trattamento da intraprendere in base al tipo di frattura a cui è andato incontro il paziente. In questo contesto, è importante tenere a mente che la frattura vertebrale va considerata non soltanto dal punto clinico ma soprattutto da un punto di vista radiologico, poiché predispongono il paziente ad un secondo evento traumatico in maniera molto più marcata anche con un valore di BMD normale.

Quali criteri di selezione del farmaco?

Una volta deciso quale strada terapeutica intraprendere bisogna inevitabilmente scegliere il tipo di farmaco più indicato. La preferenza di un farmaco rispetto ad un altro viene influenzata da molti fattori diversi (costo, aderenza alla terapia, efficacia, sicurezza ecc.). in generale, solo quando la possibilità di una nuova frattura è alto va preso in considerazione il farmaco con il più alto grado di efficacia (il cui costo è solitamente più elevato rispetto alla media).

Il teriparatide, ad esempio, è un tipo di farmaco che andrebbe utilizzato in pazienti affetti da osteoporosi severa. In questi pazienti, infatti, è molto più efficace del bisfosfonato orale e del denosumab nel migliorare il valore di BMD.

Le promesse delle terapie osteo-metaboliche di combinazione

Le terapie osteo-metaboliche di combinazione aprono nuovi scenari terapeutici interessanti. Lo scopo di questa strategia è quello di unire l’effetto inibitori sul riassorbimento all’incremento della neoformazione ossea, la qual cosa è rappresentata perfettamente nella somministrazione di teriparatide e zoledronato nei pazienti affetti da fragilità ossea. Diversi studi, molti dei quali ancora in corso, sembrano suggerire che il valore di BMD possa migliorare enormemente grazie alla sinergia degli effetti benefici dei due farmaci, andando ad aiutare il recupero del paziente affetto da osteoporosi e migliorandone la qualità della vita.

 

Fonte: Congresso BoneHealth 6 marzo 2021

Attori nella regolazione endocrina dell’omeostasi calcio-fosforo

Quando si parla di metabolismo osseo è inevitabile fare riferimento al ruolo importantissimo che ricoprono il calcio e il fosforo nel mantenimento di quell’equilibrio che è alla base dell’omeostasi ossea. Sebbene una lieve alterazione dei valori di riferimento possa presentarsi anche in maniera del tutto asintomatica, valori di calcio e di fosforo molto alti o bassi sono accompagnati da sintomi che colpiscono tanto il sistema nervoso quanto quello muscolare.

Cristina Eller-Vanicher, medico dell’UOC di Endocrinologia della Fondazione IRCCS Ca’ Granda, nel corso dell’intervento che ha dato il via al convegno organizzato da BoneHealth ha illustrato come le concentrazioni di calcio e di fosforo siano fondamentali nella regolazione del metabolismo osseo, chiarendo come non sia più possibile parlare di una dicotomia tra calcio e fosforo ma che è sempre più chiaro come anche FGF23 sia da considerare attore fondamentale nel mantenimento dell’armonia generale dell’osso.

Le fondamenta della regolazione del calcio: il PTH

Il calcio è un elemento i cui livelli sierici sono finemente regolati, tanto che all’interno del nostro organismo è presente a livello renale un recettore apposito (CaSR) che ha il ruolo di sensore e che permette di avvertire immediatamente un abbassamento o un innalzamento di questi valori.

Questo sensore permette di regolare l’azione dell’ormone paratiroideo (PTH) che ha il compito di abbassare o aumentare i livelli circolanti di calcio qualora questi si allontanino da quelli usuali.

In caso di abbassamento della calcemia, infatti, il PTH stimola il riassorbimento di calcio a livello tubulare e intestinale (quest’ultimo possibile tramite la stimolazione della 1-α-idrossilasi) regolando allo stesso tempo quello del fosforo. A livello scheletrico, si è visto come invece l’azione del PTH permetta il rilascio di RANKL da parte degli osteoblasti, cosa che favorisce la maturazione degli osteoclasti e stimola la loro azione nel fenomeno del remodeling osseo.

È interessante notare come l’effetto del PTH sul remodeling osseo cambi nel momento in cui la sua somministrazione sia effettuata in maniera controllata. In questo caso, infatti, è stato riscontrato un effetto di tipo inibitorio sul remodeling, in favore invece di un aumento del numero degli osteoblasti e un rafforzamento del tessuto osseo dei pazienti.

La vitamina D come link tra l’omeostasi del calcio e del fosforo

La vitamina D ricopre anch’essa un ruolo molto importante nell’omeostasi ossea. Essa viene trasformata in calcitriolo a livello renale e presenta tutte le funzioni e le caratteristiche tipiche di un qualsiasi altro ormone. Diversi studi hanno dimostrato come ad una diminuzione dei livelli di calcemia e di quelli di fosforo, si assiste contestualmente ad un forte innalzamento dei livelli di calcitriolo.

La funzione del calcitriolo dipende dall’organo nel quale svolge la sua funzione. A livello intestinale assistiamo ad un aumento di TRPV6 e PMCA, che portano ad un aumento dell’assorbimento di calcio, oltre ad un incremento dei livelli di Pit-2, associata ad un maggiore assorbimento di fosforo.

Nel rene, sede della sua sintesi, il calcitriolo ha la funzione di stimolare una serie di geni coinvolti nell’aumento del riassorbimento sia di fosforo che di calcio. A livello delle paratiroidi ha invece il compito di diminuire le concentrazioni di PTH e di aumentare l’espressione del sensore del calcio.

FGF23, attore protagonista della regolazione del fosforo

Mentre è chiaro come esista un sensore specifico per il calcio e per la rilevazione delle sue concentrazioni, ad oggi non è del tutto chiaro se esista un suo analogo per i livelli circolanti di fosforo, sebbene si pensi che le proteine Pit-1 e Pit-2 possano ricoprire un ruolo molto simile.

Queste due proteine, in risposta ad un legame con il fosfato, permettono il rilascio di FGF23, il quale a sua volta ricopre un ruolo importantissimo nella regolazione del fosforo.

FGF23 ha rivoluzionato il concetto di regolazione del metabolismo fosfo-calcico

FGF23 è infatti un membro della famiglia dei fattori di crescita dei fibroblasti ed è un ormone sintetizzato tanto dagli osteoblasti quanto dagli osteociti. È caratterizzato dalla presenza di un sito di clivaggio nella parte C-terminale che permette la sua inattivazione e possiede sia un recettore specifico a livello renale (FGFR) che un co-recettore, chiamato αKlotho.

Quando i livelli di fosforo diventano troppi elevati, FGF23 si lega al suo recettore e co-recettore a livello renale, stimolando l’attivazione dei trasportatori del sodio e del fosforo e innescando l’escrezione di fosforo tramite le urine. Altro ruolo importante è quello regolatorio nei confronti dell’1-α-idrossilasi, che interrompe la produzione di calcitriolo (bloccando così l’assorbimento intestinale di fosforo).

Quest’ultima funzione di FGF23 viene controbilanciata dal PTH, che permette invece di stimolare la funzione dell’1-α-idrossilasi. Tuttavia, la funzione del PTH nella regolazione del metabolismo del calcio non si ferma qui. Si è visto infatti che il PTH può lavorare di concerto con FGF23 per stimolare l’aumento della fosfaturia e, allo stesso tempo, aumentare le concentrazioni dello stesso FGF23 inducendone la secrezione a livello dello scheletro.

È importate ricordare come il co-recettore di FGFR, αKlotho, presenti anche una forma circolante che contribuisce ad aumentare l’effetto fosfaturico di FGF23 e sia caratterizzato da alcune proprietà anti-aging.

Nel caso invece di ipofosforemia, si assiste all’attivazione dell’1-α-idrossilasi la quale, tramite l’aumento dei livelli di calcitriolo, aiuta non soltanto il riassorbimento di fosforo a livello renale, ma contribuisce a stimolare anche il suo assorbimento a livello intestinale, controbilanciando lo scompenso a cui l’organismo era andato incontro.

Gli strumenti da considerare nella pratica clinica

Nella pratica clinica, è importante ricordare come spesso nei pazienti affetti da anemia si assista alla presenza di forti aumenti di FGF23.

Questo innalzamento dei livelli di FGF23 si accompagna ad un rapido clivaggio dell’ormone che lo rende inattivo, cosa che potrebbe comportare uno sbilanciamento dei livelli fosforo con conseguenze molto gravi per il paziente in cura. Una soluzione è rappresentata dalla somministrazione di ferro (come il ferrocarbossimaltosio, FCM) che permetto di prevenire il clivaggio di FGF23, preservandone la funzionalità.

Altro importante strumento per valutare lo stato del metabolismo del calcio e del fosforo è quello del rapporto tra il riassorbimento tubulare del fosforo (TmP) e la filtrazione glomerulare (GFR). Il valore ottenuto da questo rapporto è particolarmente indicativo, in quanto permette di identificare la concentrazione di fosfato al di sotto della quale l’organismo inizia a riassorbire tutto il fosfato presente, molto utile per valutare la presenza di una ipofosfatemia significativa a livello sistemico.

 

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021

Frattura di femore il punto di vista dell’ortopedico

L’osteoporosi è una patologia molto importante ma che spesso dal punto di vista ortopedico è silente, in quanto la sua manifestazione si concretizza solo con l’insorgenza di fratture. Tra queste, le più importanti sono quelle vertebrali, del collo del femore e dell’avambraccio distale.

Federico Valli, specialista in Ortopedia e Traumatologia, nel corso della seconda sessione del convegno di BoneHealth del 6 marzo scorso, ha illustrato e approfondito le complicanze dovute alle fratture che coinvolgono il collo del femore (specialmente quelle sottocapitate e pertrocanterica), chiarendo come in questi contesti l’approccio chirurgico debba necessariamente tenere conto di molte variabili (sia modificabili che non modificabili) e di come sia importate la collaborazione tra le varie figure che compongono il team multidisciplinare nel momento della prevenzione pre- e post-operatoria.

Le insidie delle fratture di femore sottocapitate

Le fratture sottocapitate sono le fratture più comuni nell’anziano affetto da osteoporosi (soprattutto dopo gli ottant’anni). La ragione di questa prevalenza va ricercata in una serie di fattori diversi, che vanno dall’equilibrio precario che è tipico dell’anziano fino alla presenza di altre comorbidità e una ridotta vascolarizzazione rispetto ai pazienti più giovani.

Specialmente per via della compromissione del microcircolo e della fragilità ossea, molte volte l’intervento chirurgico per la risoluzione della frattura non è la strategia migliore da adottare. È stato riportato in alcuni recenti studi come, dopo un intervento chirurgico, l’incidenza di pseudoartrosi e necrosi avascolare (AVN) aumenti rispettivamente del 38% e del 27%.

Appare dunque chiaro come l’obiettivo della chirurgia sia non solo quello della fissazione stabile della protesi ma anche quello della conservazione dell’integrità vascolare.

La scelta del trattamento oscilla dunque tra l’utilizzo di una fissazione interna (mediante viti di diverse tipologie) o di una protesi. È preferibile utilizzare la fissazione interna quando si ha in cura un paziente giovane (sotto i 65 anni) che ha subito un forte trauma, mentre nei pazienti anziani (soprattutto sopra i 75 anni di età), a causa della loro fragilità sia a livello sistemico che osseo, è consigliato sottoporli al minor numero di interventi possibili andando quindi ad innestare una protesi che risolva il trauma subito.

Gli approcci corretti in caso di frattura pertrocanterica

La famiglia delle fratture pertrocanteriche è molto più complicata da gestire, in quanto ha un’incidenza di sanguinamento più alta rispetto a quella sottocapitate. Proprio per questa ragione, per questo genere di fratture è consentito in rare occasioni procedere con un approccio di tipo conservativo, al posto di quello di tipo interventista.

Per queste fratture, le raccomandazioni emanate dal Ministero della Salute indicano la necessità di intervento chirurgico entro le 48 dall’evento traumatico. Appare dunque importate poter caratterizzare velocemente e in maniera efficace l’evento fratturativo non solo dal punto di vista radiografico ma anche clinico, valutando la presenza di eventuali altre comorbidità.

La classificazione della frattura di femore pertrocanterica è un altro elemento importante da tenere in considerazione. A seconda del tipo di frattura, infatti, è possibile prevedere la facilità (e di conseguenza il successo) dell’intervento chirurgico.

Fratture pertrocanteriche semplici sono facilmente gestibili mediante l’innesto di sostegni, ma la situazione diventa via via più complessa quando ci troviamo di fronte a fratture pertrocanteriche multiframmentate o intertrocanteriche (quest’ultime sono le più difficili da gestire dal punto di vista ortopedico).

All’interno di questo scenario esistono delle variabili che non sono modificabili (ad es. la qualità dell’osso del paziente e la rima della frattura) e altre modificabili sulle quali possiamo intervenire, come la scelta dell’impianto, il suo posizionamento e soprattutto la riduzione.

Quest’ultimo elemento rappresenta la chiave di volta che permette di riequilibrare le forze nel paziente e risolvere con successo l’intervento anche nel lungo periodo. Se la riduzione fallisce, si opta per l’innesto di una protesi cementificata (situazione suggerita anche nella letteratura attuale, specialmente per le donne con più di 75 anni di età).

La prevenzione e la collaborazione alla base di tutto

L’osso osteoporotico non è solo quello fratturato ma anche quello che si può fratturare

Tuttavia, è importante ricordare che la prevenzione delle fratture da fragilità ossea nei soggetti affetti da osteoporosi è fondamentale, poiché questa permette di evitare l’intervento chirurgico partendo dal principio. Bisogna quindi dare importanza tanto all’osso che subito una frattura da fragilità quanto quello sano che può andare incontro a frattura se non opportunamente monitorato.

La cura e il monitoraggio dell’osso nei mesi successivi all’intervento sono cruciali per la salute e la qualità della vita della paziente osteoporotico. La tutela farmacologica dell’osso periprotesico negli ultimi tempi sta sempre più diventando un tema centrale nelle discussioni, come dimostrano anche molte recenti pubblicazioni a riguardo. Per via del rimodellig dell’osso periprotesico, si assiste infatti alla perdita della massa ossea nei primi 6 mesi a partire dal momento dell’intervento, la quale è spesso riconducibile all’inserzione dell’impianto durante l’intervento chirurgico.

È fondamentale quindi prevedere una strategia terapeutica che preservi l’integrità della struttura di questa parte dello scheletro, al fine di evitare un peggioramento delle sue condizioni dovuto alla degradazione della microarchitettura. Tale obiettivo, conclude Federico Valli, è facilmente raggiungibile mediante il lavoro coordinato di diverse figure che coinvolge tanto il chirurgo ortopedico quanto il nutrizionista, il radiologo e le altre personalità importanti del team multidisciplinare.

 

Fonte: Convegno BoneHealth 6 marzo 2021